Filosofia della storia è un termine coniato da Voltaire, il massimo esponente dell’illuminismo. Alla metà dell’800, dopo Hegel, nella stagione della “dissoluzione del sistema hegeliano”, la politica o viene scalzata dall’economia - passando dal livello delle relazioni politiche a quello delle relazioni economiche - esempio Marx - oppure l’attenzione si sposta ritornando alle radici della storicità, della morale e della religione, con autori diversi - Kierkegaard per la religione e Nietzsche per la metafisica.
I tre massimi autori del discorso filosofico del Novecento, Heidegger, Wittgeinstein e Adorno, non si occupano di politica. Anche Adorno, nella sua critica della società occidentale, pur essendo inquadrato in una prospettiva critica marxista, non dedica nessuna opera sistematica alla politica.
Alcuni autori a cui faremo riferimento non sono strettamente filosofi:
Ci occuperemo di due oggetti molto diversi per loro ma anche molto prossimi:
Il pensiero filosofico politico antico si sviluppa ragionando sulla realtà circoscritta e specifica della polis greca.
Se nel mondo antico non c’è ancora lo stato moderno, c’è l’impero, una sorta di terzo incomodo nella nostra impostazione dualistica polis-stato. La riflessione filosofica politica ha estromesso l’impero dal novero dei suoi interessi filosofici primari. Nell’impero, che possiamo considerare un grande oikos, sussistono tra il re i suoi sudditi gli stessi rapporti di padrone-schiavo che vigono nel focolare domestico.
Nella sua auto-rappresentazione, la polis si oppone all’impero, come luogo politico dove i cittadini sono uguali. La categoria dell’impero vale nel mondo antico, nello stato moderno e anche nella contemporaneità. Tuttavia, non c’è un classico del pensiero filosofico che si occupi in modo completo di svolgere una riflessione completa sull’impero. Forse il De monarchia di Dante si occupa dell’impero, in qualche modo.
Con Hobbes nasce l’idea che lo Stato sia una macchina generata grazie al contratto sociale.
La dottrina delle forme di governo è lo studio delle diverse configurazioni delle realtà politiche.
Quella classica, teorizzata da Platone e poi Aristotele, è quella delle forme di governo buone e cattive, secondo un criterio numerico.
Dopo aver fatto questo esercizio di suddivisione empirica, i greci si interrogano sulla questione: perchè dobbiamo ubbidire a qualcuno?
Una possibile risposta è: a nessuno. Così nasce l’anarchia - concetto che emerge già in Erodoto.
Perchè si ubbidisce?
Dolf Sternberg è un allievo di Jaspers, che insieme ad Heidegger e a Sartre è un rappresentante dell’esistenzialismo. Jaspers continua ad esercitare la sua influenza su teorie politiche contemporanee: su tutti quelle della scuola di Francoforte e di Hannah Arendt.
Scrive Le tre radici della politica, dove propone una semplificazione che risponde all’esigenza di definire che cos’è la politica. Sternberg risponde che è un oggetto complesso che ha 3 principali declinazioni:
Visione dell’oggetto politico riconducibile ad Aristotele e alla tradizione classica. La matrice platonica è forte, e assimilabile a quella aristotelica. La politica secondo questa visione è la pratica della buona vita associata, qualcosa che sta all’interno dell’etica e si rapporta con il bene comune.
Questa definizione ci aiuta a comprende sia la polis che lo stato moderno come strutture volte a garantire il bene comune. Ma all’interno di questa visione non c’è molto per quanto riguarda le relazioni tra questi aggregati, che si trovano in realtà in un rapporto o di guerra o di pace. Si rende dunque necessaria l’introduzioni di categorie differenti, che definiscano anche le dinamiche.
I due attori - lo stato e il suddito si relazionano strategicamente, attraverso due principali strumenti:
In questo senso, Machiavelli riprende da Cicerone la doppia metafora della volpe e del leone: la volpe non si sa difendere dalla forza, il leone non sa difendersi dai lacci. I mezzi con cui questi due soggetti interagiscono non sono riducibili alla morale, sono “immorali”. Per questo motivo possiamo chiamare questa prospettiva demonologica, in quanto “cattiva”. Viene chiamata in causa la categoria della religione: è impossibile non richiamarsi ad essa, in quanto le grandi religioni monoteistiche in occidente sono alla base della morale.
Secondo la concezione religiosa, la politica farebbe uso di strumenti condannabili ed esecrabili come l’inganno, la frode, la menzogna.
La modernità si è generata da un processo di secolarizzazione di contenuti religiosi: alla fine dei tempi non viene il paradiso, ma viene il regno dei fini (Kant), la rivoluzione (Marx), ecc. Qui Sternberg ha in mente Marx, gli utopisti e Ernst Bloch, autore di Il principio speranza, il tipico esempio di secolarizzazione dell’idea cristiana.
L’ultima parola di Platone in fatto di politica arriva nelle Leggi, ma la Repubblica è l’opera che tratta le questioni in modo più generale.
Viene teorizzata kallipolis, la bella polis, bella dunque giusta, descritta in aperta contrapposizione alla corruzione della polis reale.
Il nostro obiettivo nella lettura di questo testo è trovare un accesso alla antropologia di Platone e alla sua sociologia, intesa come organizzazione della società.
È presente una discussione sul tema della giustizia. Il dialogo inizia con la discussione di Socrate e quelli che lo accompagnano, che stanno scendendo dalla parte alta del Pireo verso il basso (katabasis). Occuparsi della politica significa metaforicamente scendere da una zona alta, dove il filosofo si occupa delle idee, ad una realtà problematica, segnata da conflitti, interessi e materialità - elementi negativi dell’esistenza.
In questa cornice si sviluppa una discussione sul tema che cos’è la giustizia?. Senza entrare nelle concezioni specifiche, non c’è una visione univoca in Atene su cosa sia la giustizia: si danno definizioni diverse.
Il primo interlocutore, un commerciante, meteco, dice che giustizia è tenere fede ai patti.
Il secondo …
Per terzo interviene Trasimaco, rappresentante della cultura sofistica, che dà la definizione di giustizia come utile del più forte.
Viene ripresa la discussione, nella consapevolezza che il dialogo precedente non ha raggiunto una conclusione condivisa. Glaucone incomincia dunque a porre il problema delineando uno scenario che possa essere considerato originario: un punto di partenza che nella tradizione filosofica successiva sarebbe stato detto stato di natura.
In questo stato di natura non c’è giustizia: c’è una condizione di sopraffazione, una logica della prevalenza del più forte.
Glaucone afferma che nello stato di natura subire ingiustizia è un male, mentre compiere ingiustizia è un bene; ma subire ingiustizia è un male più grande di quanto non sia un bene compierla. Inizia a delinearsi una simmetria che sussiste tra il piacere che c’è nel prevaricare e il dolore che si prova quando si subisce una prevaricazione. A coloro che non possono non subire la prevaricazione, viene in mente di stipulare un contratto dove si impegnano a non commettere ingiustizia per assicurarsi di non subirla.
Quindi viene esplicitata una tesi già inclusa in forma implicita nel Gorgia, dove si danno nomi a queste due tipologie di individui, quelli che subiscono e quelli che prevaricano: i deboli e i forti.
Gli uomini quindi non sono tutti uguali: ci sono i forti e ci sono i deboli. La maggioranza è costituita da deboli: ecco perchè ritengono funzionale stipulare questo patto. Anche i forti ritengono conveniente farlo; c’è la volontà di uscire da una condizione di ingiustizia, per tutti, e stipulare un contratto.
Questo passo della Repubblica è il punto di partenza per la riflessione di Hobbes: lo stato di natura è uno stato di conflitto; questo conflitto porta al rischio della morte per tutti; dunque si mira a raggiungere un accordo che li porti a ricevere una protezione giuridica dalla morte - nasce così lo stato moderno. A differenza di Platone, Hobbes non insiste molto sul discrime tra forti e deboli: gli individui nello stato di natura sono tutti uguali. Anche ai deboli è possibile infliggere il peggiore dei mali, cioè la morte.
Nella sua trattazione però Hobbes introduce un’altra simmetria, distinguendo tra prepotenti e moderati.
C’è un’altra eco di questa concezione platonica. Questo passo è il punto di partenza per la riflessione etica di Nietzsche. Nietzsche propende per una soluzione in cui le differenze tra forti e deboli vengano esaltate. L’etica degli schiavi è l’etica dei deboli, di coloro che in virtù della loro debolezza preferiscono sottomersi al contratto, e sottomettersi all’esistenza passiva del gregge.
Alcuni giuristi latini distinguono due momenti nel patto:
Riprendo lo svolgimento della Repubblica. La giustizia viene definita come un mezzo tra due estremi - concetto che sicuramente ha ripreso Aristotele.
Pleonexìa Il secondo concetto fondamentale della antropologia platonica è quello di pleonexìa. Si tratta di un movente antropologico originario che consiste nel non essere mai paghi di quello che si ha. Questo influenzerà molto Hobbes, nella sua concezione dell’uomo come animale famelico di fame futura - l’uomo come creatura che si preoccupa del futuro. L’uomo è pleonettico, vuole portarsi avanti e desidera sempre di più di quella che ha.
Natura coercitiva della giustizia La giustizia si realizza attraverso la violenza della legge. Se noi vogliamo godere dell’uguaglianza, le leggi devono esercitare una coercizione e portare una violenza, costringendo gli individui ad un comportamento. Non servono a consigliare o a fornire un modello. Questo modello piace molto a Hobbes. Non si esce dal conflitto quindi senza una autorità: si esce grazie a un dispositivo che costringe e reprime le pulsioni degli individui, che naturalmente tenderebbero all’ingiustizia e all’anarchia.
Le dinamiche del potere della polis e dello stato moderno sono le stesse In questa prospettiva si definiscono meglio le somiglianze tra polis e stato moderno - si tratta di passare da una condizione di insicurezza radicale ad una condizione di protezione garantita dalla legge. Il fatto che la logica che soggiace a queste due dinamiche sia la stessa è testimoniata dal fatto che esista effettivamente una consonanza tra pensiero politico antico e moderno.
Dopo aver definito in questa maniera lo stato di natura, Platone introduce un racconto, in cui mostra la concezione di come le città si sono evolute nella storia. È un racconto puramente concettuale che isola i fattori fondamentali nella nascita della civiltà.
Viene posto anche, in un secondo meta-racconto - e con un registro diverso - il problema su come le diverse civiltà si sono effettivamente sviluppate - e che ricorda il racconto della formazione della società civile narrato da Rousseau nel Discorso sull’origine dell’uguaglianza.
La polis e le tecniche A un certo punto, Socrate puntualizza che la polis nasce in quanto ciascuno di noi è carente di molte cose. Nasce il problema della mancanza, dell’essere bisognoso dell’essere umano, rispetto ai fini della sua esistenza. Questo tema è affrontato anche nel Protagora, richiamando un mito, il mito di Prometeo, dove Platone ricorre ad una narrazione, che desume dalla letteratura mitologica (Esiodo e Eschilo).
Prometeo impasta la creta con elementi animali e viene fuori l’uomo. Prometeo ha un fratello, Epimèteo, e affida al fratello il compito di distribuire ai vari animali le dotazione necessarie alla sopravvivenza di ciascun animale: artigli, becco, ecc. Epimeteo, arrivato il turno dell’uomo, si accorge di aver finito le sue dotazioni. Prometeo quindi li dota del fuoco. Le tecniche sono ciò che supportano l’uomo nella sua lotta per la sopravvivenza. Dire che con il fuoco sono state date le tecniche agli uomini significa introdurre delle differenziazioni: le tecniche sono state date in modo diverso agli individui: chi fa l’artigiano, chi fa l’agricoltore, ecc.
Si introduce un elemento che sarà fondamentale per l’economia politica del XVIII secolo: la divisione del lavoro. Si costituisce la società come una pluralità di soggetti umani, dotata di tecniche differenti, con capacità di sviluppo di queste tecniche diverse.
In questo modo si costituiscono le varie classi sociali:
La città dei maiali La divisione del lavoro si dà in una condizione di naturalità. La vita degli individui in questa fase originaria viene chiamata da Platone come la città dei maiali: per i greci il maiale era simbolo di un animale intelligente, ma dai bisogni semplici.
La città infiammata I bisogni progressivamente si complicano: crescono le differenze e i bisogni da naturali diventano artificiali. Aumentano i conflitti, alimentati dalla dimensione pleonettica della natura umana: a questo punto alla città dei maiali subentra la città infiammata, la città gonfia di mali. La società caratteristica di questa città è la società crematistica, basata sul denaro, che contribuisce alla crescita incontrollata dei bisogni.
Platone è convinto che il problema della giustizia politica si può risolvere tenendo fermi i numeri e le grandezze.
Kallipolis deve:
Quando aumentano i disordini nella città, nasce la necessità di invadere i vicini per aumentare la quantità di ricchezze. La pleonexìa diventa, da movente del singolo, movente dell’azione collettiva, che si getta verso una illimitata conquista di ricchezze.
Da dove arriva la polis? Qual è il suo scopo? La polis è una comunità costituita in vista di un bene. Tende al più importante di tutti i beni, ed è la comunità più importante. È il punto di arrivo di uno sviluppo che include varie forme di aggregazione.
L’antropologia culturale ci insegna che dobbiamo studiare le strutture elementari della parentela all’interno delle varie culture.
Il I libro della Politica è legato alla descrizione della sfera privata che si dà nella famiglia.
Famiglia La struttura base della società è una struttura monogamica a base patriarcale, che soddisfa i bisogni primari. All’interno della famiglia c’è un rapporto bipolare tra il padre/padrone e gli schiavi.
Aristotele pone la questione di come si possano distinguere le varie forme di potere in base alle microcomunità che in essa albergano. Bisogna quindi partire scomponendo questo oggetto complesso nelle sue forme più semplici - partire dal principio del progresso che ha originato la complessità.
Prima di tutto è necessario unire maschio e femmina, come strumenti di generazione. Non si tratta di un rapporto paritario. Aristotele è molto meno egualitario di quanto fosse Platone, che sosteneva una sostanziale uguaglianza tra uomini e donne.
L’oikos è caratterizzata da 3 rapporti di disuguaglianza:
A partire da questa cellula originaria segnata dalla disuguaglianza, si troverà una comunità i cui i membri a pieno titolo sono tra loro liberi e uguali.
Famiglia, villaggio, città Dall’unione di più famiglie si generano i villaggi, dall’unione di più villaggi si generano le città. Nello spazio pubblico i cittadini interagiscono vedendosi, rappresentandosi.
Sfera pubblica e sfera privata L’ambito del privato è anche l’ambito dell’ottusità riguardo alle domande che riguardano l’esistenza umana (è uno spazio idion, che confina la ragione). Non partecipando la donna alla vita pubblica, è condannata ad un’esistenza in uno spazio angusto, chiuso. Anche gli schiavi rimangono idioti in quanto sono condannati ai lavori manuali e non sono in grado di accedere allo sviluppo della loro soggettività che si dà nella vita pubblica.
L’amministrazione della casa è oiko-nomia, economia. Con il mercantilismo e poi nel ’700, nascerà l’economia politica e la parola economia diventerà una teoria sociale complessiva, cambiando per sempre il suo significato - in Scozia con Adam Smith, in Francia con la fisiocrazia.
Katalapsis Le componenti primarie hanno luogo nel mercato, in particolare nell’agorà. Nell’agorà si fa uso del denaro (nomisma- la radice nom- allude al fatto che il denaro è un artificio istituito attraverso la legge) Anche le donne possono essere strumenti di pacificazione - attraverso i matrimoni combinati che uniscono gruppi, potenzialmente in guerra (katalapsis: scambio/trasformare il nemico in amico - attraveso procedure di scambio).
Economia e crematistica Attraverso il commercio si sviluppa anche una sorta di economia finanziaria. Aristotele è così costretto a distinguere tra l’economia è la crematistica. C’è una componente dell’economia che ha a che fare con lo scambio delle ricchezze. Ma questo secondo tipo di economia può essere ricondotto alla physis, come l’economia, che è secondo natura in quanto nasce per soddisfare i bisogni naturali? Oppure si tratta di qualcosa di artificiale e contro natura?
Aristotele nutre un sospetto nei confronti della crematistica. Già Platone si era posto il problema, quando vuole risolvere il problema della corruzione all’interno delle città. Le città sono divise dalle guerre civili: schiavi contro padroni, ricchi contro poveri, ecc. Nella Repubblica le città sono due: la città dei ricchi e la città dei poveri - finchè non avremo risolto questo dualismo non avremo risolto il problema politico.
Colonizzazione dello spazio pubblico da parte degli interessi privati Questo dualismo si manifesta nel fatto che le famiglie più importanti, coinvolte nel governo della città, hanno degli interessi privati. Platone vuole impedire che la politica sia governata dall’economia. Questa colonizzazione non si dà all’interno dell’oikos, dove vige una logica di autosussistenza, ma all’interno del panorama della polis, dove i beni in gioco sono consistenti e soprattutto sono quantificabili nel denaro.
Ma Aristotele critica il suo maestro, in quanto si sarebbe occupato di teorizzare un modello del tutto ideale e utopistico, scollegato dalla realtà.
Il confine tra l’economia che serve a soddisfare i bisogni primari e la crematistica è difficile da definire. In più, la crematistica può essere uno strumento che introduce nella città molta disuguaglianza e avvia un processo di corruzione della cosa pubblica.
Schiavo Lo schiavo è una proprietà animata.
Valore d’uso e valore di scambio Aristotele individua la differenza tra valore d’uso e valore di scambio.
Alla crematistica spetta di procurare i beni, all’economia di usarli.
Facciamo:
funny
Tucidide è il primo grande storico, nel senso di una storiografia scientifica. Prima di lui c’è l’opera di Erodoto, storico con una sensibilità antropologica, ma che fa intervenire nel suo racconto fattori soprannaturali, come gli dei.
L’approccio di Tucidide è invece secolarizzato - gli dei non giocano nessun ruolo. Tucidide si interroga sulle cause degli eventi storici (aitiai), che stanno all’interno di concatenazioni di fatti che hanno un determinato esito. Lo storico seleziona le cause rilevanti per spiegare determinati esiti.
La storiografia di Tucidide è dedicata al più grande evento conosciuto nel mondo ellenico fino al V secolo: la guerra del Peloponneso.
Dobbiamo chiederci quali coordinate ha trasmesso Tucidide al pensiero filosofico.
Ci sono 3 coordinate fondamentali che strutturano il pensiero di Tucidide:
Considerando questi tre tratti, il pensiero di Tucidide verrà definito realismo politico.
La storia viene concepita attraverso l’intersezione di 3 fattori fondamentali:
Secoli dopo, Machiavelli parlerà di :
Questo perchè la capacità di previsione umana può parzialmente contenere la forza devastante dell’ananke.
La concezione antropologica di Tucidide influenzerà tutte quelle successive.
Ci sono 3 fattori fondamentali antropologici che condizionano le vicende politiche - che vediamo all’opera in oggetti collettivi come le polis.
La paura è un primo movente di azione degli agenti collettivi, i quali si preoccupano anzitutto della propria sicurezza,; orientano, cioè il loro agire al rafforzamento della loro sicurezza. La percezione di una minaccia genera il bisogno di sicurezza.
Pareto , per evitare ambiguità della parola utilità, la chiamerà ofelimità.
L’utilità che ha a che fare con degli interessi materiali.
Agiscono anche alla ricerca di un prestigio. Questa ricerca coincide con la ricerca di un riconoscimento. Questa diventerà centrale nel lessico filosofico moderno, a partire da Fichte ma soprattutto da Hegel. Nella filosofia moderna tuttavia questo concetto si svilupperà per descrivere rapporti individuali, e non collettivi.
Le poleis confliggono tra loro per la timè: vogliono vedersi riconosciute nei loro e interessi e nei loro diritti da parte degli altri.
Questi tre fattori agiscono in modo indistinto sugli attori. Inoltre, questi tre comportamenti vengono già in parte proiettati sugli individui. L’individuo filotimico, termine che ritroviamo in Platone, è quello che agisce in vista dell’onore.
Un altro concetto che ritroviamo in Tucidide è la pleonexìa.
In che cosa si distingue la sfera politica da altri ambiti della vita associata, come l’economia o l’etica?
Karl Schmitt scrive un articolo: il concetto del politico. In che cosa possiamo distinguere l’essenza del politico?
Nell’ambito dell’estetica, a un livello elementare applichiamo un criterio bello/brutto. Nell’ambito della morale, buono/cattivo. Nell’ambito dell’economia, utile/dannoso.
Per definire lo spazio politico, la categoria da utilizzare secondo Schmitt è amico/nemico. La distinzione amico/nemico non sembra essere una coppia originaria.
L’amico è colui che ci è benevolo e che ci vuole avvantaggiare. Il nemico invece vuole il nostro male, e vuole il nostro danno.
Tutti gli autori che nella storia del pensiero di politica non hanno potuto fare a meno di questa categoria - e anche Tucidide.
La distinzione non vale soltanto per il polemos, cioè tra polis o tra Stati, ma vale anche per la guerra come stasis cioè come conflitto interno, cioè la guerra civile.
Tucidide analizza come nel processo politico incentrato sulla dialettica amico/nemico si producono dei cicli (dunamis). La dunamis è un processo di concentrazione di forze, in cui Tucidide inscrive i due soggetti della guerra del Peloponneso.
Nella divisione si allude al partito degli aristocratici/oligarchi e la fazione democratica. Tutte le città greche, in particolare quelle vicine ad Atene, conoscono questa divisione. L’alternarsi di queste forme fa pensare che esista una continuità nella storia in cui queste forme di governo si alternano.
Per Platone questo ciclo prenderà le forme di una decadenza: dalla aristocrazia dell’età di Crono si è poi arrivati alla timocrazia, che poi si corrompe e si arriva alla oligarchia, poi la demagogia, e poi la tirannide. Aristotele evita di costruire un modello così rigido - pure individuando una distinzione tra democrazia e oligarchia.
Uno storico come Polibio elaborerà il modello della anakuklosis, un ciclo delle costituzioni: tutti gli stati passano attraverso un processo che si dà in modi simili - prima la monarchia; poi l’aristocrazia, poi l’oligarchia, poi la maggioranza dei cittadini insorge e forma la democrazia. Arrivati alla fine la democrazia si corrompe ulteriormente e si ricomincia. La storia romana invece è diversa: nella costituzione romana le 3 forme di governo convivono.
Nella concezione tucididea, che possiamo considerare alla base delle ‘varianti’ appena illustrate, si postula una teoria dell’alternanza delle forme di governo, da cui si deduce la necessità di praticare un’arte politica volta a stabilizzare le costituzioni e orientarle verso la soluzione migliore.
Tucidide è famoso per un dialogo instaurato tra rappresentanti della città di Atene e dell’isola di Melo (Dialogo dei Meli) in cui mette in scena il confronto tra moralismo/concezione giuridica della politica e il realismo che caratterizza il suo pensiero. Viene messo in scena un negoziato in cui gli ateniesi vogliono convincere gli abitanti di Melo, colonia spartana a passare dalla parte di Atene.
I Meli cercano di scansarla: vogliono continuare ad essere neutrali. Gli ateniesi affermano che o si sta da una parte o dall’altra, in base a dei rapporti di forza.
C’è una pulsione ideologica a mascherare gli interessi che governano l’azione politica per giustificare un interesse figlio di rapporti di forza.
Hobbes pensa il problema politico a partire dalla più radicale delle guerre: la guerra civile.
La prima grande narrazione della ferocia della guerra civile ci viene proprio da Tucidide, quando analizza il conflitto che si scatena tra partito degli aristocratici e quello degli oligarchi.
Conseguenze che possiamo trarre dal testo letto in classe:
In generale, le utopie in qualche modo puntano invece sulla possibilità che l’uomo cambi. Il pacifismo etico punta sulla possibilità che attraverso l’educazione si possa arrivare ad un cambiamento nella natura umana, che lo porti ad una convivenza pacifica.
La guerra civile, oltre a diffondersi nelle varie città, si fa sempre più dura e più feroce.
La guerra stravolge l’universo dei significati dentro i quali muove normalmente l’esistenza umana, cambia il significato delle parole in rapporto ai fatti. Quello che ieri era considerato pazzia adesso diventa eroismo.
Se la complessità del reale normalmente porta ad essere moderato, porta a qualcosa che viene considerato inerzia. L’impeto frenetico viene considerato virile. Chi inveisce e infuria, riscuote sempre più credito - chi lo contrasta viene visto con diffidenza. Dinamica di polarizzazione.
La speranza La speranza è qualcosa che aiuta nell’azione - se non ci fosse saremmo indotti alla rassegnazione; ma quando la speranza perde il contatto con ciò che è effettivamente possibile, allora essa diventa fattore di inganno e di illusione, e alimenta ancora di più la spirale del conflitto che caratterizza la guerra civile.
In particolare approfondiamo l’antropologia filosofica di Platone. La traduzione che operiamo della Repubblica è quella della BUR curata da Vegetti.
Nel II libro era stata definita una poleogonia, una genealogia storica della polis - si analizzano i bisogni, i rapporto tra le tecniche e i bisogni. Da lì Platone procede ad individuare le 3 articolazioni sociali della polis.
Platone cerca di mostrare come ci sia una corrispondenza quasi perfetta tra la articolazione sociale e l’anima. Al vertice della tripartizione c’è l’elemento razionale, poi l’elemento timotico, e l’elemento pulsionale.
421e –> Siamo all’inizio del IV libro.
Povertà e ricchezza sono i due poli della polis, da cui bisogna uscire.
La ricchezza - il fatto che si generi un gruppo di detentori oligopolistici dei beni materiali - cioè gli oligarchi, ingenera, a livello morale, lusso e pigrizia, ma diventa anche il fattore che promuove l’innovazione politica. Si scatena dall’altro lato la protesta di chi vive dal lato della povertà. Questo genera trasformazione, rottura, statis, ovvero guerra civile. Accanto alla povertà vediamo che il desiderio di innovazione è accompagnato da elementi negativi, quali il servilismo e l’inefficienza.
L’inefficienza si riferisce al fatto che coloro che si fanno promotori dell’innovazione generano anarchia - e l’anarchia produce malgoverno, l’impossibilità di restaurare l’ordine. Si dice anche servilismo - l’allusione è al fatto che nel contesto democratico i poveri si contrappongono ai detentori del potere, senza produrre essa stesse delle degenerazioni del potere.
Nel potere emerge la figura del demagogo, il capo carismatico. Gli altri seguono il capo carismatico, che è il riferimento dell’innovazione politica. Il discorso socratico quindi riprende questo parallelismo tra città dei ricchi e città dei poveri, che riguarda tutte le polis del mondo ellenico - non solo Atene.
All’interno delle due città ci sono comunque ulteriori suddivisioni - ci sono dei gruppi di potere in conflitto tra loro - dice Socrate, delle eterie. La conflittualità che si verifica genera dunque una situazione ingovernabile.
L’indagine prosegue dunque verso la ricerca di una definizione delle virtù specifiche che devo essere detenute da ciascuno dei gruppi sociali che svolgono la città. Senza il riconoscimento della virtù di ciascuno, il disgregamento dell’ordine sociale è, secondo Platone, inevitabile.
Il ruolo dell’educazione Qui il discorso si intreccia inevitabilmente con il tema dell’educazione: le virtù necessarie alla città devono essere prodotte dalla società, in un processo educativo che deve favorire la stabilizzazione e il mantenimento della stessa. Socrate fa l’osservazione che l’educazione è lo strumento attraverso il quale gli uomini assumono il senso della misura, il metron - lo strumento essenziale per garantire che le varie parti si possano comporre in una totalità armonica.
Polis reale e polis ideale Platone sta sovrapponendo due livelli: sta raccontando la storia della polis reale - che porta al conflitto e alla corruzione; e al tempo stesso sta raccontando come si possa arrivare ad una polis ideale. L’educazione può svolgere un ruolo nel rafforzare quelle disposizioni individuali che possono portare all’armonia e all’equilibrio nella società. Si contrappone un modello organico di società ad una situazione di divisione.
Karl Popper ne La società aperta e i suoi nemici - il primo dei nemici della società aperta è Platone, poi ci sono Marx e Hegel. Platone è un nemico della società aperta perchè la sua sociologia sembra essere castale - sembra che auspichi un sistema di caste, gruppi chiusi ed esclusivi, ognuno con la sua virtù. Questa interpretazione è sicuramente legittimata dalle argomentazioni del testo - si tratta infine di un sistema rigido, criticato anche da Aristotele. Tuttavia non è rigido in assoluto: Socrate dice che ciascuno deve fare il compito per cui è naturalmente destinato, secondo le sue predisposizioni: ma non è detto che chi è nato in un determinato gruppo sia adatto a svolgere proprio il ruolo a cui sarebbe destinato. Sono possibili delle eccezioni, è aperta la possibilità a svolgere funzioni sociali differenti. Se un membro dei produttori è valoroso, lo si mandi tra i difensori. Non c’è una rigidità castale, ma è possibile una mobilità sociale.
È importante che però l’individuo svolga una funzione sola, quella a cui è predisposto e per la quale è stato educato: e che non si generi la confusione dei ruoli che caratterizza la società disordinata.
Non si può guarire la società con delle riforme Nelle pagine successive Platone esprime il suo scetticismo nei confronti della possibilità che si possa riformare la città con riforme legislative, nelle leggi che riguardano la vita associata. Platone è radicale da questo punto di vista. Se vogliamo uscire dall’instabilità della situazione presente dobbiamo riscrivere tutta la società, senza fare del riformismo. La metafora usata è quella del drago della corruzione, che come l’hydra, ha molte teste.
La riforma della polis, nell’intenzione del filosofo, che orienta il suo sapere sull’episteme e non sulla doxa, deve avvenire in modo integrale e globale. La teoria sociologica contemporanea rigetterebbe questa tesi, con l’argomento che sarebbe troppo difficile riformare l’organismo assai complesso della società odierna.
Ripartizione delle virtù all’interno della città Vengono poi precisati gli attributi che i singoli cittadini della polis devono possedere.
427e: Socrate dice che dobbiamo ritrovare in questa città:
In queste righe viene anche ritagliato il lavoro della giustizia come garante dell’unità del tutto - si realizza sono nella misura in cui le 3 classi esercitano nel modo corretto le loro virtù. Questa è la ragione per cui da Aristotele in poi la giustizia diverrà nella tradizione filosofica la virtù perfetta, in quanto include in sè tutte le virtù rilevanti per la coesistenza sociale.
La “piramide sociale” Si precisa che la filosofia è cosa per pochi - i filosofi sono pochissimi, i guerrieri sono pochi, i più sono produttori.
430: viene sottolineato il ruolo della sophrosyne nel mantenimento dell’ordine: la padronanza sui desideri stabilizza la società. Socrate delinea allora una struttura gerarchica della psychè, dell’identità individuale, che vede al vertice il momento razionale, poi il momento timotico, legata al coraggio - la radice del coraggio è il momento irascibile del tymos, e quella pulsionale.
In questo passo Socrate sottolinea come la moderazione può funzionare solo se esiste una gerarchia precisa tra le parti dell’anima, che vede il logistikon, il momento razionale, al vertice. Solo se il vertice controlla quanto sta sotto l’individuo è più forte di sè. L’uomo può vincere le pulsioni attraverso la ragione.
Questo è un momento chiave nella fondazione del sè occidentale - fino addirittura a Freud. La specificità dell’identità occidentale deve sicuramente qualcosa a questa teorizzazione di Platone; è sicuramente anche legata alla tradizione ebraico cristiana (monoteismo). Un precedente nella letteratura è sicuramente Ulisse che si fa legare all’albero della nave per non abbandonarsi al canto delle sirene, simbolo dell’impellenza del desiderio. Anche Adorno e Horkeimer hanno fatto riferimento a questo racconto.
L’homonoia genera una identità collettiva La gerarchia che si stabilisce tra i vari momenti, e cioè tra le varie virtù, assicura da un lato l’ordine, dall’altro l’homonoia, cioè la concordia. Se si instaura un equilibrio tra ragione e virtù, non solo siamo in grado di generare la cessazione del conflitto (un non-conflitto, elemento negativo), ma anche una identità collettiva.
Dikaiosyne e stabilità della polis Lo snodo del ragionamento si conclude quando Socrate fa riferimento alla giustizia, dikaiosyne, la qualità della giustizia intesa in senso soggettivo, la qualità soggettiva che porta l’uomo ad essere giusto. Questo è l’altro aspetto su cui si fonda l’ordine della società, assieme alle 3 virtù fondamentali prima ricordate.
Oikeiopraghìa Si tende nella polis reale a fare tante cose, ma farle male, senza che nessuno si dedichi propriamente a quella che è la sua funzioni. Questo accavallarsi di competenze è il male più grande per la città, e porta all’ingiustizia. L’assolvimento delle specifiche funzioni delle varie classi sociali può essere considerato l’elemento decisivo per rendere la città giusta.
Il termine usato dal testo per definire l’assolvimento di queste funzioni specifiche è oikeiopraghia, che rimanda da un lato alla casa, dall’altro all’azione. Questa forma di equilibrio si genera dunque soltanto nella misura in cui ciascuno agisce a qualcosa che si realizza nella sfera privata: un elemento di contraddizione questo che Aristotele non mancherà di sottolineare. Se l’obiettivo di Platone è quello di sottomettere la dimensione pulsionale e crematistica al dominio della ragione politica. Quando definisce il ruolo di ciascuna categoria all’interno di quell’ordine invita ad orientare il proprio comportamento in base alla propria singolarità e alla propria individualità. Queste sono le caste chiuse di cui parla Popper: se il membro di una casta svolge più di una funzione, la società è abbandonata al disordine. Non si devono mescolare i piani. Aristotele, che diventerà per questo il filosofo più simpatico alla tradizione liberale moderna, accuserà Platone di voler mortificare il pluralismo, la differenza, la creatività del sociale. La società non può essere irreggimentata in un ordine stabilito da logistikòn + suddivisione in caste.
L’accusa di autoritarismo Del resto l’idea della soggettività moderna è l’idea di un sè acquisitivo della pluralità che rifiuta l’incapsulamento in un oikos psicologico, sinonimo di impoverimento - mentre l’apertura è sinonimo di arricchimento. Platone è convinto che l’ego forte sia in grado di concentrarsi su un aspetto specifico e puntare tutte le sue risorse su quel ruolo che assume nella società. Verrà accusato da Popper e dai sostenitori del liberalismo di essere autoritario.
439d-e: Socrate mostra la corrispondenza tra la tripartizione della psiche e la tripartizione della società.
L’idea di Platone è che la ragione dei filosofi, per governare, deve avere un braccio armato: la classe dei guerrieri.
Consideriamo due autori che convenzionalmente vengono considerati all’inizio della modernità politica: Machiavelli e Hobbes.
Machiavelli muore nel 1527. Le esperienze più significative a livello politico avvengono nel primo decennio del 1500. La fase più intellettualmente produttiva della sua vita va dal 1512-13 alla sua morte - qui scrive le sue opere più importanti: Il Principe, le Historiae fiorentinae, un discorso sull’arte della guerra, la mandragola, il discorso sopra la prima deca di tito livio
Hobbes nasce alla fine del ’600 - la sua grossa produzione si colloca tra gli anni 40 e gli anni 60 del XVII secolo.
Una distanza di 150 anni tra i due. Tuttavia anche Machiavelli è considerato moderno: se facciamo iniziare l’età moderna dalle grandi esplorazioni geografiche siamo alla fine del ’400. Se si fa iniziare con la riforma protestante (1517), siamo lì.
Machiavelli è un umanista che si alimenta della letteratura latina, ed ha una grande opinione della classicità. Nello scontro tra antichi e moderni, Machiavelli afferma il primato del mondo antico, mentre Hobbes difende la modernità; anche se poi entrambi avranno un atteggiamento polemico nei confronti di alcune dottrine filosofiche dell’antichità: per Machiavelli Platone e Aristotele sono lontani - per Hobbes in particolare Aristotele. Hobbes è cresciuto alla scuola della rivoluzione scientifica, è stato allievo di Bacone. È naturaliter un anti-aristotelico. La rottura baconiana e la rivoluzione scientifica avvengono infatti nel segno dell’anti-aristotelismo.
Che cosa distingue Machiavelli dal pensiero classico? Il pensiero filosofico classico pone al centro della sua riflessione la prospettiva normativa; al contrario, Machiavelli fin dall’inizio non vuole pensare a come le repubbliche e i principati dovrebbero essere, ma analizzarli per quello che sono stati e per quello che sono. Machiavelli vuole vedere alla realtà effettuale della cosa, cioè alla verità storica della cosa, all’essere divenuto così di quello che ci sta davanti.
La filosofia politica antica, al contrario, subordinava tutto a un modello normativo: la giustizia in Platone e in Aristotele, il telos del vivere insieme all’interno della polis per conseguire l’euzen, il vivere bene, ma non nella nuda vita, volto a sua volta a livello individuale al raggiungimento dell’eudaimonia, la felicità. L’eudaimonia intende la vita come progetto consapevole: questo è il fine del bios politikòs della vita politica eminentemente in Aristotele.
Questa istanza normativa molto forte si traduce in un discorso sulle virtù: la virtù prima (e la unica per la Platone), cioè la giustizia, e le altre virtù. Aristotele distingue tra quelle etiche e quelle dianoetiche, che riguardano la dimensione intellettuale e includono la sapienza, il giudizio, la saggezza/prudenza (phronesis).
Le virtù dianoetiche si apprendono con l’insegnamento, non sono naturali e scontate; mentre le virtù etiche non si apprendono con l’insegnamento scolastico ma attraverso l’abitudine, che però si stabilisce su una disposizione naturale. Pratichiamo delle virtù in primo luogo perchè vi siamo individualmente predisposti, poi l’abitudine - cioè la socializzazione - ci rende capaci di sviluppare queste virtù.
In Platone questa istanza normativa si era tradotta nella definizione di un modello ideale di polis: in Aristotele ritroviamo questo elemento in forma più moderata, meno radicale di Platone. Platone ci vuole dare una riforma radicale della città: i suoi mali sono incurabili. Aristotele considera l’approccio radicale di Platone irrealistico, e rimprovare Platone di aver sostituito alla divisione tra città dei ricchi e la città dei poveri la divisione tra i sapienti e gli ignoranti.
Aristotele, si chiede quale sia la forma più adeguata nelle condizioni esistenti. Adotta in questo contesto la stessa ottica di quando discute le virtù etiche, che sono una disposizione verso il giusto mezzo. Il giusto mezzo della politica è il giusto mezzo di una realtà che si polarizza tra ricchi e poveri. Nella costruzione della migliore forma di governo entra in gioco la classe media, i mesotei: la giustizia nella polis si può avere solo si rinforza la fascia intermedia di coloro che non sono troppo ricchi, ma sono sufficientemente benestati da poter essere fiduciosi nei confronti del loro futuro e non soggetti alle paure di perdere quello che hanno o di non avere ciò di cui hanno bisogno, che caratterizza i troppo ricchi e i troppo poveri.
Il ceto medio è prodotto dal rancore, dall’odio e in generale dalle dimensioni pleonettiche dell’esistenza associata - questo lo rende un soggetto sociale più disponibile al giudizio, più fronetico, più moderato, rispetto a coloro che per la loro posizione sociale sono indotti ad essere soggetti a delle passioni estreme.
Aristotele infatti risulta simpatico agli autori liberali - il liberalismo è l’ideologia di un ceto medio benestante, che difende la proprietà privata, ma non è una ideologia dei “super ricchi” - da Locke a John Stuart Mill il liberalismo è l’ideologia di un ceto benestante, che dispone della proprietà privata e può usare liberamente della proprietà privata di cui dispone. Questo è il retroterra normativo che si incontra nel pensiero antico.
Dopo il tramonto di Roma il grande vettore di rielaborazione ideologica, accanto al diritto romano, è il cristianesimo. Da quando si riscoprono gli scritti di Aristotele prima, e poi vengono nell’Umanesimo riscoperti e tradotti i dialoghi platonici, c’è una operazione sincretistica, una fusione tra matrice cristiana della cultura e filosofia classica, operata dalla scolastica medievale. Gli scolastici cercando di sintonizzare il progetto normativo platonico e soprattutto aristotelico e il messaggio evangelico. Cristianizzano il progetto normativo degli antichi. Cristianizzarlo significa demitologizzarlo e renderlo meno pagano.
Agostino aveva scritto il De civitate dei per contrapporre la città terrena, quella pagana, a quella della città divina, quella della autentica civilizzazione, aprendo la strada alle operazioni di scorporamento di tutto ciò che è pagano dall’eredità del mondo classico: inizia un processo di valutazione della classicità, che distingue il buono dal cattivo; riconoscendo la grandezza dei filosofi ma prendendo le distanze dagli aspetti propriamente pagani, del culto di ciò che è propriamente materiale, dell’intendere l’eudaimonia come benessere terreno (Platone ha una visione più trascendente che si presta meglio). In questo modo la scolastica ci trasmette un paradigma di pensiero politico che si infrangerà soltanto con il XVI secolo.
Parte dell’umanesimo civile, gli autori che si collocano tra Dante e Machiavelli, è molto permeato da questa istanza sincretistica che vuole fondere il cristianesimo e la filosofia. Machiavelli cambia questa prospettiva, rendendosi conto che la sintesi tra la dottrina cristiana e la filosofia classica non è una buona ricetta per chi vuole proporsi di fondare e sviluppare delle comunità politiche solide e durature, perchè il cristianesimo alberga un’etica della sottomissione, come dirà Nietzsche un’etica degli schiavi; un’etica della remissione, qualcosa che contraddice la prassi della politica.
Così il modello utopistico/platonico di chi immagina delle nuove forme di governo, è qualcosa, dice Machiavelli, che ci distoglie dall’attenzione nei confronti del reale. Dobbiamo tenere conto di questo se vogliamo ottenere dei risultati. Questa violenza del rifiuto del sincretismo aristotelico-cristiano è anche legato alla sua esperienza diretta di cittadino della Repubblica Fiorentina, circondata da attori (cristiani) che ne impedivano l’espansione; inoltre la sua attività diplomatica, che lo porta in Francia e in Svizzera, si rende conto che sta nascendo una Europa nuova, stanno nascendo gli Stati moderni: Firenze e l’Italia sono estremamente lontani dal conseguire quel risultato - ne deriva una frustazione.
Machiavelli tende a imputare la frammentazione della situazione italiana all’influenza che la Chiesa ha avuto sia nella frantumazione politica, sia nel generare una ideologia che non è in grado di afferrare le direttive dell’agire politico - l’agire che serve a generare soggetti politici forti. Da qui la sua polemica nei confronti dell’approccio normativistico platonico-aristotelico-cristiano che arriva fino agli umanismi, a cui lui vuole trovare una svolta.
Machiavelli ravvisava questa inadeguatezza nel genere medievale degli Specula Principis, trattati a sfondo moralistico in cui si ragiona delle virtù e delle qualità morali/intellettuali che i governanti devono possere per governare una civitas cristiana. I governanti devono essere onesti, virtuosi, moderati, la phronesis aristotelica, ripetendo sempre le stesse cose.
Scrive quindi Il Principe, un modello rovesciato del genere dello speculum principis, che indica al principe, al governante, le qualità che deve veramente avere se non vuole soccombere nella competizione politica. La letteratura moralistica precedente di stampo cristiano educa invece all’impotenza politica. Questa è la ragione per cui Machiavelli diventa nella letteratura successiva un maestro del Male (espressione di Leo Strauss). La sua diventerà una dottrina diabolica per la sua radicalità.
Machiavelli guarda all’antico, ma non all’antico dei maestri socratici, ma a quello degli storici. Tito Livio, ma soprattutto Tucidide. Machiavelli riprende perfettamente la visione tucididea: la storia è necessità, la storia è necessità, è contingenza/caso (che Machiavelli chiama Fortuna, ed è dominata da fattori umani, che Machiavelli chiama riprendendola dai romani, Virtù.
La virtù di Machiavelli non è l’Aretè di Platone o di Aristotele e nemmeno la virtù di Agostino che guarda all’ultraterreno: la virtù è intelligenza pratica, energia politica che serve a resistere alla violenza della necessità e a contenere i ghiribizzi del Caso.
Nel 25esimo capitolo del Principe Machiavelli propone la sua celebre metafora della fortuna e della virtù.
Davanti alla concezione fatalistica degli uomini in balia della fortuna (o di Dio) - e che per questo sarebbe meglio abbandonarsi alla sorte senza impegnarsi. Questo fatalismo è oggi particolarmente favorito dall’esperienza degli sforzi inconcludenti che uomini e società fanno per sfuggire a questo impatto violento che abbiamo l’impressione di non poter governare. La rassegnazione è una tipica virtù cristiana. Nondimanco (cioè nondimeno nel linguaggio machiavelliano) è una espressione centrale a livello dialettico: prima viene descritta una regola generale, ma nondimeno si dà una eccezione su cui dobbiamo focalizzare la nostra attenzione.
Ma dobbiamo ammettere che la Fortuna governa metà delle azioni, l’altra metà è data alla Virtù, la nostra capacità di previsione e di predisposizione all’azione. La Fortuna assomiglia a un fiume che, quando straripa, allaga tutto. Ma quando il fiume non è in piena, e sono tempi quieti, gli uomini possono costruire degli argini.
La necessità è il fiume. La virtù è il costruire l’argine.
Questo è ciò che sostanzialmente Tucidide dice nella sua tripartizione paura-utilità-onore, Machiavelli lo traduce in paura-avarizia-ambizione.
Avarizia significa, nel senso classico latino, la dimensione di pleonexìa nei confronti dei beni materiali. La ambitio nell’accezione latina è la dimensione della pleonexìa legata al riconoscimento e al prestigio, quindi sicuramente legata anche agli onori. Questi sono i fattori che giocano per far sì che la condizione umana sia precaria, problematica. In Machiavelli l’antropologia si fa differenziata e produce dei risultati innovativi rispetto all’impianto tucididedo.
In primo luogo, Machiavelli insiste sugli elementi negativi dell’indole umana, il fatto che essi siano inaffidabili: nella loro inaffidabilità non c’è solo un giudizio morale, ma è una inaffidabilità che ha anche a che fare con i loro limiti cognitivi. Un difetto fondamentale della condizione umana è il conservatorismo cognitivo, cioè pensare che le cose vadano sempre come sono andate, sulla base di un dato dell’esperienza ma anche della cultura colta che in fondo si dà una continuità nella natura umana. Il fatto che la natura umana non cambi non significa che non cambino le circostanze in cui essa si dà. Il conservatorismo cognitivo ritiene che a cambiare non siano anche le circostanze. Se con quel comportamento ieri hai ottenuto benefici, li otterrai anche oggi. Se si dà la costanza degli attributi umani, non si dà quella delle circostanze. Le circostanze cambiano in relazione al mix di necessità, caso e qualità umane. C’è quindi una sorta di innata pigrizia per cui gli uomini sono portati a sottostimare i processi che minano la saldezza, ad esempio, di una comunità politica, che oggi funziona bene, ma domani potrebbe non funzionare altrettanto bene.
Come quando oggi riflettiamo sulla democrazia, che non riusciamo a interpretare in base a delle cognizioni passate.
Per spiegare questo punto Machiavelli usa l’espressione qualità dei tempi. Spesso gli uomini non si rendono conto dei cambiamenti qualitativi che sono avvenuti nella situazione che vivono.
Chi si è abituato ad agire con prudenza non è abituato ad essere audace.
da Sendo…
C’è l’intento tipicamente umanistico a costruire un sapere utile chi lo intende. Non vuole l’utopia, l’approccio normativista, ma vuole analizzare ciò che si dà veramente nella realtà.
Colui che lascia quello che si fa per che quello che si dovrebbe fare, impara più presto la ruina che la salute sua.
L’uomo che voglia fare in ogni parte della sua vita il buono, meglio che vada nella ruina, per imparare a poter essere non buono e a usarlo e a non usarlo secondo la necessità, perchè agisce tra molti che buoni non sono.
Si vede nella realtà dei fatti che grandi principi hanno tenuto poco conto dei patti e hanno mentito, e alla fine hanno superato quelli che si sono fondati sulla verità, cioè quelli che si sono comportati secondo la norma morale. Nella politica abbiamo a che fare con una dimensione legata alle norme, e una legata all’agire strategico, dove i principi che governano solo la forza e l’astuzia; la prima è propria dell’uomo, la seconda delle bestie. Ma spesso la prima non basta, quindi il Principe deve essere bestia. Non si può durare facendo affidamento su uno dei due lati della natura umana.
Il Principe deve sapere prendere la volpe e il leone, il leone non sa difendersi dai lacci, la volpe non si difende dai lupi. Bisogna essere volpe a conoscere i lacci e leone a sbigottire i lupi. Bisogna sapere usare il leone in questa sua duplice componente: forza e astuzia, le risorse fondamentali dell’agire strategico.
È preferibile per un governante essere amato o essere temuto? Ottimale per un governante è tenere insieme entrambe le cose. Non è facile essere amato e temuto. È molto più sicuro essere temuto che amato, dovendo scegliere. Il timore porta infatti all’obbedienza. Questo vale perchè degli uomini generalmente si può dire questo: che sono ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori dei pericoli (cioè poco coraggiosi - il coraggio era una virtù per Platone), cupidi del guadagno (cioè avidi, pleonettici), se fai il loro bene sono tutti con te, ti offrono il sangue, i loro possessi (la roba!), i loro figli, ma quando si appressa il bisogno, si rivoltono: e il principe che si è fondato sulle loro promesse, ruina, cioè fallisce.
Machiavelli vuole dare un sapere tecnico a partire da saperi reali, ma questa non è una opzione politica; sta semplicemente ragionando in una situazione specifica, difficile, per lui e per la Repubblica di Firenze, che con la restaurazione del 1412-13 è tornata ad essere una signoria e rischia di fare una misera fine. Le prediche morali di Savonarola (che nel decennio 1390 denunciava l’indegnità morale dei governanti) non funzionano, perchè poi Savonarola è stato bruciato.
Se non ci si può offrire a queste opzioni, non si può dire che lui si faccia fautore della tirannide in generale. Nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Machiavelli argomenta in favore delle repubbliche e contro i principati. Roma è stata piccola e debole fin quando è stata una monarchia, diventerà grande come repubblica, e crollerà di nuovo come un impero, cioè una forma dispotica paragonabile alla monarchia. Con quest’opera Machiavelli è diventato padre del filone teorico del pensiero repubblicano, che avrà fortuna prima in una controcultura inglese - nella storia inglese c’è tutto un filone antimonarchico, che con i coloni si sposterà nelle colonie americane e andrà ad alimentare la nuova politica post rivoluzione americane.
Ma molti avevano capito che l’insegnamento di Machiavelli non era volto ai tiranni: Traiano Boccalini, autori del ’600, scrive un’opera chiamata Ragguagli di Parnaso, racconti fantastici ambientati nel Parnaso. In uno di questi racconti si narra che Machiavelli è stato sorpreso in un ovile intento a mettere denti di lupo nella bocca degli agnelli. Questo alludeva al fatto che si era consapevoli nel filone repubblicano di come Machiavelli volesse insegnare ai deboli come difendersi dal potere.
Foscolo riprenderà questa visione di un Machiavelli non fautore della tirannide, ma maestro delle genti, a cui vuole insegnare che bisogna difendersi dal potere, e non subirlo con rassegnazione.
I discorsi mettono quindi in luce la concezione conflittualistica del potere: il conflitto non viene solo visto in termini negativi, ma anche nelle sue potenzialità positive.
C’è una contrapposizione tra Machiavelli e Hobbes - due autori che associamo all’origine della modernità ma in modi diversi perchè Machiavelli guarda al mondo antico, in particolare alla Repubblica romana, dunque apprezza la funzione del conflitto. In Machiavelli troviamo una teoria della funzione ordopoietica del conflitto: l’idea che il conflitto è ordopoietico, cioè produce l’ordine.
Hobbes sarà completamente contrario a questa idea: il suo modello è irenistico, e la modernità su questa strada porterà ad una idealizzazione della pace.
Dall’esperienza delle cose presenti (come ambasciatore) unita allo studio della storia antica ricava le sue analisi storiche e antropologiche.
Inizia con qualcosa che potremmo confrontare con la poleogonia platonica di Repubblica II con Politica I: come si formano le società?
Leggiamo Discorsi, Libro primo, Capitolo 2. Machiavelli è noto per il suo procedere disgiuntivo. Anche nelle sue valutazioni Machiavelli non ama assumere posizioni “a metà”: o da una parte, o dall’altra.
Si interessa nel suo studio delle società che si sono fin dalla loro nascita governate in autonomia: o come repubbliche o come principati, che hanno avuto diverse leggi ed ordini. Alcune società hanno trovato il loro ordine attraverso un processo lento di progressivi aggiustamenti (modello educativo), e società che sono state organizzate in modo relativamente rapido attraverso la proposta razionale di un legislatore. Si rifà dunque al mito del grande legislatore, una idea riferita da Platone, Aristotele, Cicerone nelle figure di Licurgo, Solone, Numa per i romani, che in base a un disegno razionale dà ordine ad una società che prima era conflittuale, e la riordina.
Il modello evoluzionistico - l’ordine si genera in modo praticamente spontaneo attraverso l’interdipendenza di molti fattori, sarà chiamato da Hayek costruttivismo (ground order), l’altro è il made order, l’ordine stabilito sulla base di un piano razionale.
Hobbes ha un modello di questo tipo - il contratto è il surrogato del grande legislatore: il momento che con un taglio netto supera la condizione di disordine radicale e instaura l’ordine.
Il taglio espositivo di Machiavelli è storicistico, elemento che contribuisce a determinare la sua preferenza per il modello evoluzionistico.
Machiavelli nota come le società che si sono formate sotto una mentalità ordinatrice originaria sono delle eccezioni. La norma nella storia è creare un ordine in un processo lungo. In questi racconti di grandi legislatori è sempre un po’ presente una dimensione mitologica: la realtà è meno rassicurante e più faticosa di quanto questi racconti della storia non lascino intuire.
Accidenti condussero Roma alla sua perfezione: il Caso, la Fortuna ha avuto un ruolo nel condurre Roma a un ordine perfetto.
La tripartizione deriva dalla teoria delle forme di governo greca (Platone, Aristotele, Polibio). Le forme di governo sono 3: o governa uno, o governano pochi, o governano i molti. O sono monarchie, o sono aristocrazie (optimates - una èlite oligarchica aristocratica, oppure repubbliche). Questa tripartizione in Machiavelli nasconde una dicotomia: i tre termini non sono simmetrici - ottimati e popolari sono simmetrici, ma quando parla di una persona parla di una monocrazia, una sola persona cioè che esercita il potere. Ma sotto quel governo di uno solo si nascondono, alla fine, i nobili, come avveniva tradizionalmente nelle monarchie.
Nella politica esistono due umori fondamentali: l’umore che porta a comandare - l’insieme di quelle pulsioni aristocratiche - e l’umore che porta a non essere comandato - il fine del popolo che si oppone ai governanti. Questi due impulsi fondamentali sono riconducibili a due classi sociali distinte: la classe dominante, e la classe dominata.
Gli antichi conoscevano l’idea di sovranità, anche se non esisteva proprio questa parola - il diritto romano conosce però il concetto di summa potestas, e da Baudin arriverà alla filosofia politica. Hobbes è il primo che sistematizza questo concetto. Machiavelli però non usa il termine sovranità, ma il sommo potere o ce l’ha uno solo, o ce l’ha un senato, oppure il popolo (a Roma i Comizi).
La questione del potere uno-pochi-molti è esposto nelle Storie di Erodoto, in un discorso noto nella letteratura come logos tripolitikos, il discorso sulle tre politiche. Ragionando su un problema tipicamente greco, lui ambienta questo discorso alla corte di Dario imperatore persiano, tra esponenti della aristocrazia persiana che dibattono su quale sia la migliore forma di governo.
La forma democratica esce sconfitta dalla discussione, dato che la discussione è ambientata in Persia. Ma il personaggio nel dialogo che sosteneva il primato della democrazia, afferma alla fine che l’ideale in cui crede consiste in una forma di governo in cui non si comanda ma non si è nemmeno comandati - questo rappresenta l’ideologia di fondo di un cittadino ateniese del tempo, che identifica la forma democratica con una forma in cui nessuno comanda e nessuno è comandato - siamo vicini all’idea di anarchia che ritornerà in modo marginale in età moderna, fino a generare il filone dell’anarchismo (Bakunin, Landauer), una delle ideologie della modernità.
L’idea che possa essere considerata buona una ideologia in cui non si è sottomessi a nessun comando appare dunque già in Erodoto.
Entra in gioco nel discorso di Machiavelli il concetto delicato di moltitudine, che è un gruppo di molti che non si sono ancora dati un’organizzazione - non è un popolo. La moltitudine, essendo disorganizzata, deve essere sottomessa a qualcuno che le dà una direttrice di azione, perchè non è in grado di produrla.
La moltitudine si arma contro il principe (allusione alla fase monarchica della storia di Roma), ma, una volta abbattuto, si trova nella condizione di trovarne un altro che la conduca.
Allora la moltitudine, avversa al tiranno, che esercita il poter in modo indiscriminato, decide di diventare popolo. Ma i loro figli, dopo una variazione della Fortuna, senza cioè capire la variazione dei tempi, e rivoltosi all’avarizia e all’ambizione (Tucidide), passano all’Aristocrazia, perdendo di vista i costumi che volevano mettere al primo posto il bene comune.
Ma anche contro l’oligarchia la moltitudine torna a muoversi. La storia disegnata da Machiavelli è una storia della metabolè, del cambiamento e del rovesciamento. Qui il riferimento è in particolare all’anakuklosis di Polibio, il ciclo delle forme di governo.
Come dimostrano tutti coloro che si occupano di vivere civile, cioè di vivere politico, è necessario a chi ordina una repubblica di presupporre tutti gli uomini malvagi. Se si offre il pretesto, gli uomini sono sempre pronti ad agire male: perchè sono pleonettici, sono mossi dal desiderio.
Per prudenza bisogna supporre che tutti gli uomini agiscano in questo modo. Per natura, gli uomini non fanno mai nulla bene, a meno che non sono costretti. Questo è il compito del governante. Dove si hanno molte possibilità di scelta, si riempie ogni cosa di confusione e disordine. Questo è il problema dell’anarchia. La fame e la povertà fanno gli uomini industriosi; e le leggi li fanno buoni. C’è un crudo realismo nel discorso machiavelliano.
Machiavelli cerca di sostenere contro l’opinione corrente che il conflitto alla Repubblica di Roma ha fatto bene e non male. Molti ritengono che sia stata la Fortuna a far sì che la Repubblica sia durata tanto - ma Machiavelli sostiene che non sia un dato casuale. Certamente la Fortuna e il coraggio militare hanno avuto un ruolo, ma erano effetto di una causa, che era il buon ordine di Roma: il fatto che avesse una costituzione in caso di rendere produttivo il conflitto.
Hegel, nelle Lezione di Filosofia della Storia, sottolinea come gli uomini abbiano vissuto in una condizione di conflittualità interna, che però sfogavano verso l’esterno, attraverso la sottomissione degli altri popoli. Il modello politico è la causa del successo militare e della Fortuna. La fortuna secondo l’iconografia classica è una donna con una lunga treccia, che devi scalare attraverso la virtù, per coglierla e non lasciartela scappare.
I conflitti a Roma tra nobili e plebe producono ordine nella libertà. Coloro che condannano questi conflitti fanno più caso ai rumori ideologici di quei conflitti, che non agli effetti reali di quei conflitti medesimi, che in realtà producevano libertà.
Coloro che criticano Roma non considerano come in ogni repubblica ci sono due umori diversi. Il conflitto ha Roma ha prodotto più libertà che violenza, in forma di esili o assassinii.
Non si tratta solo di rafforzare l’ordine, ma questo ordine è la migliore salvaguardia per i cittadini.
In questo passo ci sono le basi di quella che diventerà l’ideologia repubblicana.
Un testo originario degli Stati Uniti, i Federalist Paper, hanno in fondo l’idea che la democrazia non ha come obiettivo azzerare il conflitto, ma regola il conflitto tra gruppi di interesse, partiti, ecc. e la dinamica pluralistica tra questi soggetti garantisce lo sviluppo di una libertà ordinata.
La repressione al contrario finisce per generare una condizione di profonda insoddisfazione, che lascia la popolazione repressa, fino a quando la popolazione non insorge e accadono le rivoluzioni.
Aristotele e Machiavelli inaugurano la politica comparata: si studiano i fenomeni politici comparando sistemi politici diversi - Machiavelli per il mondo antico confronta Atene, Sparta e Roma e per quello moderno Venezia, Firenze e la Roma papale.
Sparta è il modello di uno stato chiuso, che non accetta il cambiamento, rigida nella forma che gli è stata data in origine da Licurgo. Questo gli garantisce una lunga durata ma nessuna acquisizione nel tempo sul fronte della libertà.
Atene è invece una società aperta ma instabile, che non è capace di tradurre quel conflitto interno in una dinamica veramente espansiva. Tant’è vero che poi perderà la sua indipendenza, prima a Sparta, poi dei Macedoni.
Roma invece tradurrà il suo conflitto interno in una politica di espansione con cui consoliderà il suo dominio.
Venezia è chiusa nella sua struttura oligarchica, ma capace di intraprendere rapporti commerciali, e questo garantirà la sua durata.
Firenze ricorda invece molto il modello ateniese: è caratterizzata da un conflitto intestino costante incapace di tradursi in una politica estera coerente che possa rendere possibile la riunificazione dell’Italia per acquisire che altri stati come la Francia o la Spagna hanno acquisito.
Oggi analizziamo il De Cive in particolare in rapporto al problema ragioni-passione.
L’opera politica di Hobbes si colloca dal 1640. L’opera di Hobbes si intitola Elementa Philosophia - è divisa in tre parti, De corpore, De homine, De cive. Il De cive è stato pubblicato per primo nel 1642, dall’urgenza che sentiva di fornire strumenti intellettuali per analizzare la guerra civile inglese degli anni ’40 del ’600. Tutto il pensiero di Hobbes è segnato da questa esperienza.
La storiografia parla volentieri di Rivoluzione inglese, quando nella percezione del tempo e sempre più nella nostra fu in realtà una guerra civile. Dobbiamo essere consapevoli del significato delle parole. La modernità è anche un insieme di discorsi sugli eventi che trasmettono un’immagine che va messa in relazione con la realtà.
La modernità è segnata:
Ma la modernità è anche intessuta di miti, di costruzioni ideologiche:
La modernità è certamente un’epoca mitopoietica. Perchè dovremmo chiamarli però miti? Perchè fino al ’600 il termine rivoluzione non aveva l’accezione che poi ha assunto nella storiografia successiva. C’era il termine stasis, che significava insurrezione, disordine, e rebellio, seditio, che alludevano a questo. Il termine revolutio, fino ad Hobbes, designava il moto degli astri sulle loro orbite. Solo nella modernità questo termine assume il significato politico di cui tutti noi oggi adoperiamo, di grande rivolgimento nell’ordinamento politico. L’elemento mitico sta nel fatto che questa nozione costruisce l’idea che la rivoluzione sia una accelerazione del cambiamento, un cambiamento violento e disposto su un asse ascendente. La rivoluzione è una rottura del corso storico che instaura un ordine superiore, migliore. C’è un’idea teleologica dell’avanzamento e del progresso.
La rivoluzione quindi si caratterizza come negativa, in quanto è violenta; ma è anche una cosa buona perchè è anche una accelerazione del progresso. La rivolta del Parlamento contro il Re, nell’ottica di Hobbes è una cosa pessima, in cui gli uomini si uccidono in nome di passioni irrazionali e volontà di prevaricare.
Altri autori successivamente sosterranno la positività della rivoluzione, a partire dalla Rivoluzione Francese, vero atto fondativo della modernità, o, più avanti, la Rivoluzione d’Ottobre.
Da quel momento è iniziato un momento a ritroso in cui siamo più diffidenti nei confronti del concetto di rivoluzione.
La guerra civile è peggio della tirannide, è il male politico peggiore. Anche un ordine violento è meglio della guerra civile. A partire da questo convinzione, da questo endoxa, Hobbes sviluppa la sua costruzione politica.
Qui emerge l’innovazione metodologica, riconducibile a delle trasformazioni che sono avvenute in ambito scientifico e filosofico. Prima di Hobbes c’è la rivoluzione scientifica, e Hobbes era stato segretario di Bacone. Bacone scrive un Novum Organum che vuole rimpiazzare la logica aristotelica.
L’altro elemento da tenere presente è che il ’600 inaugura l’età del razionalismo, un nuovo modo di guardare agli oggetti del sapere filosofico e al modo in cui si tratta della metafisica. Hobbes, a differenza di Cartesio, che introduce il dualismo corpo-mente, materia-spirito, è un materialista, che cerca sulla scia del materialismo antico di Democrito e di Lucrezio, di avere una concezione unitaria della materia, che includa anche le espressioni più sofisticate della stessa, cioè la vita associata e la vita intellettuale.
Nella sua prospettiva materialistica, la libertà è l’assenza di impedimento al moto. Bisogna capire come questo nuovo approccio influenza la trattazione politica. Hobbes ritiene che sia possibile costruire una teoria politica che abbia lo stesso rigore della geometria. Questa scelta metodologica ci fa subito capire perchè Hobbes proceda con una andatura assiomatica nella sua trattazione.
C’è una forte presa di posizione contro l’autorità classica della politica, cioè Aristotele.
Aristotele aveva sostenuto che l’uomo è un animale politico; cioè che si realizza all’interno della polis secondo il proprio logos. L’attacco di Hobbes è contro l’assunto della tradizione aristotelica, e ripreso dalla scolastica tomistica, che in fondo la ragione, che è un attributo umano, sia ciò che oggettivamente ordina il mondo, e che dunque basti assecondare quell’ordine per garantirsi un esistenza sicura e pacifica.
Non c’è invece un ordine razionale - la condizione di partenza è il disordine; per quanto riguarda le società umane, la situazione di partenza è il conflitto.
L’assioma su cui si basa tale riflessione è erroneo, ed è dovuto ad una considerazione troppo superficiale della natura umana.
In linea con l’antropologia platonica, secondo Hobbes l’uomo per natura è incline all’adikein, a fare ingiustizia. L’antropologia platonica è ciò a cui Hobbes guarda.
Dove vediamo la contrapposizione con Aristothè? Aristotele alla fine dell’Etica Nicomachea analizza l’amicizia - la forma più completa di amicizia è l’amicizia politica. Al di sotto di questa, ci sono tre forme di amicizia:
Secondo Hobbes, questa forma di amicizia non si dà.
In primo luogo, lo stare insieme non è qualcosa di necessario ma è qualcosa di accidentale e di contingente. Non cerchiamo per natura dei socii, ma di trarre da essi onore e vantaggio. Questi consideriamo in primo luogo, gli altri secondariamente e per accidente.
Esempi fenomenologici:
Siamo condotti a questi comportamenti dalla natura, cioè dalle passioni. In più, gli uomini tendono a dimenticare queste esperienze perchè sono pleonettici e vogliono sempre meglio. Quello esposta da Hobbes è la radice dello scetticismo che per vari canali si diffonderà nella filosofia moderna, e condurrà poi ad esiti nichilistici.
L’ordine è artificiale, la situazione iniziale è di caos. L’ordine è qualcosa di costruito attraverso una operazione razionale.
Ogni società si forma per l’utile o per la gloria.
Tomasius definirà Hobbes un porcus ex gregis epicuris. Nella seconda edizione della sua opera, Hobbes aggiunge delle note per correggere alcune implicazioni anti-teleologiche del suo pensiero. Per spiegare la malvagità degli uomini, Hobbes usa per giustificarsi la metafora del puer robustus, che fa il male senza saperlo. Quindi Hobbes si riallinea all’intellettualismo etico sostenuto dai teologi cristiani. Ma non ci crede veramente, lo fa solo per difendersi.
Gli individui sono naturalmente inclini al dominio sugli altri - a un certo punto, quando si rendono conto che questa volontà di dominio può avere dei costi troppo alti, intraprendono la strada del patto. È il timore reciproco che spinge gli uomini ad unirsi - come anticipato da Platone nella Repubblica.
Gli individui nello stato di natura sono inclini a previcare. Questa prevaricazione arriva fino al massimo dei mali: dare la morte. In conseguenza di ciò, si genere nello stato di natura una situazione di timore reciproco figlio delle pulsioni appropriative degli individui. Da queste pulsioni emerge una situazione di costante conflittualità. Questa situazione è distruttiva tanto per l’individuo, in quanto lo porta alla morte, che per la comunità in quanto tale perchè porta alla disgregazione della società.
Il modo per uscire da questa situazione è un patto di tutti per generare un potere che sia tale da garantire l’ordine attraverso il timore che gli individui provano nei confronti delle sanzioni che quel potere è in grado di comminare. Ritorna l’idea platonica del patto.
Al paragrafo III Hobbes propone una prima analisi delle ragioni che portano a questa conflittualità, e della paura reciproca che si genera nello stato di natura.
Cause della paura reciproca
Dunque non possiamo provvedere da soli alla nostra tutela.
Gli uomini possono uccidersi non solo in base alla loro forza; gli uomini sono tutti uguali perchè possono uccidersi tutti allo stesso modo. Anche il più debole è in grado di colpire a morte un altro individuo più forte, facendo ricorso all’astuzia.
Aristotele partiva constatando, anche all’interno della famiglia, una diseguaglianza naturale. Hobbes al contrario parte dal dato dell’uguaglianza.
La volontà di nuocere è presente in tutti, ma non in tutti allo stesso modo. Nell’uomo moderato, un modello di uomo razionale, che sa di doversi difendere. L’uomo superiore è tracotante: la sua volontà di nuocere deriva dalla vanagloria, una falsa stima delle proprie forze.
Non è dunque necessario che tutti siano tracotanti; basta che tutti si trovino in una condizione oggettivamente pericolosa a causa dei tracotanti; e che gli altri siano in una posizione difensiva. Questo basta a far sì che lo stato di natura sia una condizione di instabilità.
Nel Behemot, la sua opera sulla Guerra Civile, dimostrerà come essa è alimentata in primo luogo dalla volontà di nuocere, ma anche del fanatismo teologico dei dotti.
Nei discorsi dei dotti suscita indegno non solo il contraddire, ma anche il non essere d’accordo. Le guerre combattute con maggiore ferocia sono quelle tra sette della stessa religione. Questa visione diventerà un punto fisso della sociologia moderna. I conflitti più dannosi, difficili e sanguinosi non sono quelli distributivi, sulle risorse, ma quelli di identità.
Il conflitto deriva, a livello materiale, anche dal fatto che alcune cose non possono essere divise - ne segue che le potrà avere solo il più forte. E il conflitto deciderà chi è il più forte.
Già Aristotele introduce la distinzione tra giusto secondo natura e giusto assoluto. Soprattutto gli stoici nell’antichità svilupperanno questa idea. L’altra espressione che troviamo ricorrentemente al paradigma della modernità inaugurato da Hobbes è contrattualismo - idea che troviamo già in Platone, ma che viene elaborata in modo particolare dal diritto romano, come abbiamo visto, nella distinzione di pactum societatis e pactum subiectionis.
Con Kant avremo una svolta: il paradigma giusnaturalistico contrattualistico che deduce l’esistenza dello Stato dal contratto verrà superato. Nell’idealismo classico tedesco poi questo approccio verrà rifiutato, nell’opposizione tra la visione individualistica giusnaturalistica e contrattualistica una visione organicistica del problema politico che si rifà all’organicismo di Aristotele - per cui il tutto preesiste alle parti.
Ragioniamo su 3 poli
In Hobbes non si parla di famiglia, come in Aristotele, si parla di individui, che sono liberi ed uguali.
Gli uomini hanno una cupidigia naturale (pleonexìa), che minaccia ogni giorno la vita di ciascuno, perchè induce al conflitto. Il massimo dei mali naturali è la morte.
Principio di autoconservazione Hobbes è alla ricerca di un principio che abbia una necessità evidente e indiscutibile: c’è qualcosa che si presenta con una necessità naturale, paragonabile alla legge di gravità. Questo è il principio di autoconservazione: cerchiamo ciò che è bene per noi e fuggiamo ciò che è male per noi.
Il diritto non è altro che la facoltà di ciascuno di usare risorse naturali secondo la retta ragione. In questa definizione si intersecano ragione, diritto, libertà, facoltà naturale. Il principio di autoconservazione si presenta necessariamente come qualcosa che rende l’uomo capace di un certo comportamento.
Che ciascuno difenda la sua vita è qualcosa che è per diritto attribuibile all’individuo umano.
Diritto soggettivo Qui emerge un’idea di soggettività del diritto. Il diritto è diritto dell’individuo: non si perde in una razionalità organica o nell’ordine della natura, o nella legge che regola i movimenti dei corpi celesti. Attiene all’individuo in quanto ha valore in sè.
Diritto naturale e legge naturale in Hobbes si differenziano Qui viene meno l’indistinzione tra diritto naturale e legge naturale che noi incontriamo dalla tradizione precedente, dagli stoici ai romani ai medievali al Seicento. Quando parliamo di giusnaturalismo o di legge naturale a proposito di quella tradizione, diritto naturale e legge naturale coincidono.
In Hobbes invece nasce una differenza: il diritto naturale è una prerogativa del soggetto, mentre le leggi naturali, che sono prescrizioni della ragione, ma che sono distinte e non coincidenti con il diritto: il diritto naturale è una libertà, mentre le leggi naturali sono una costrizione, una limitazione della libertà.
Avendo ciascuno il diritto di conservarsi, ciascuno ha anche il diritto di compiere tutte le azioni finalizzate alla sua autoconservazione. Questo diritto del soggetto produce quindi inevitabilmente un conflitto. Ciascuno giudica se i mezzi a cui ricorre per le proprie azioni siano o no necessarie alla conservazione della sua vita. Il criterio per decidere è soggettivo.
La natura ha dato a ciascuno il diritto a tutte le cose: ne esce una rappresentazione del soggetto molto potente, fragile per la minaccia che lo circonda ma potente nella sua rivendicazione nel diritto all’autoconservazione, che si lega al fatto che tutto ciò che è nell’ambiente è a sua disposizione. La natura non ha stabilito un ordine distributivo (come in Platone nel principio della oikeiopraghia). Nello stato di natura lo stato del diritto è l’utilità. Non c’è un diritto o una giustizia oggettiva, ma un criterio meramente utilitaristico e soggettivo, in base al quale ciascuno decide cosa gli è utile. Non si discute di cosa è giusto o ingiusto, ma solo di utile.
Paradosso dello stato di natura Ma agli uomini non è stato utile avere un tale diritto su tutte le cose. L’effetto di questo diritto è lo stesso di come se non esistesse alcun diritto. Questo è il paradosso dello stato di natura. Tutti rivendicano il possesso di tutte le cose, e non possono dunque goderne pienamente, e senza un conflitto.
Il desiderio degli individui non è legato solo al loro essere pleonettici. Gli individui non solo hanno delle pulsioni, ma hanno diritto a perseguire quelle pulsioni.
Gli stati sono sempre in guerra Gli stati come soggetti politici tra loro resteranno sempre in una condizione di stato di natura (cosa che Kant cercherà di superare ne Per la pace perpetua). La pace sarà sempre un effetto residuale della guerra. Se gli Stati possono vivere in questa situazione, per l’individuo questa è insostenibile. Una tale guerra perpetua non può avere nessun esito definitivo a causa dell’uguaglianza originaria dei contendenti, che possono solo innescare una dialettica di autodistruzione. Bisogna dunque trovare il modo di superare tutto ciò.
Vediamo queste logiche svilupparsi:
La paura e la ragione portano l’individuo ad uscire dallo stato di natura Possiamo uscire da questa condizione attraverso una prescrizione razionale. Ma questa non basta: l’elemento affettivo-razionale che muove questo processo è sicuramente la paura. Da una condizione di conflittualità insostenibili, gli individui si organizzano in gruppi per difendersi. Si tratta di organizzare un gruppo abbastanza forte da poter garantire chance di sopravvivenza accettabili agli individui.
Più tardi Hobbes distinguerà tra commonwealth by acquisition e commonwealth by institution. Il primo è una entità politica che si costituisce attraverso occupazioni e conquiste territorali. Ma Hobbes è alla ricerca di un livello più forte di tutela di sicurezza dell’individuo.
– Prima formulazione della legge di natura: Bisogna cercare la pace. –
Ma qual è l’alternativa a fondare un ordine autenticamente pacifico? Accontentarsi, cercando aiuti per la guerra. Costituire un gruppo in cui ci si difende dalle aggressioni degli altri. La legge di natura mi prescrive di cercare la pace. Bisogna investire in un progetto radicale di pacificazione.
C’è una specularità con Platone: come Platone propone di superare il conflitto tra città dei ricchi e città dei poveri con un ordine gerarchico idealizzato, che ha poco a che fare con la città storica, così Hobbes non si accontenta di un aggiustamento temporaneo, ma propone una soluzione radicale: quella del patto, dell’intesa di tutti per costituire un potere comune, che possa difendere e garantire tutti.
A questi onnipotenti “tutti uguali”, dobbiamo porre un onnipotente più potente di tutti che garantisca per tutti. L’idea di Hobbes è una visione teologica Qui c’è un cortocircuito filosofico: è chiaro che la costruzione del potere che deve garantire la sicurezza è una costruzione teologica, del Dio onnipotente. Abbiamo a che fare con una seconda creazione: Dio ha creato il mondo dandogli un ordine - e qui stiamo creando un mondo politico dal nulla, dal caos dello stato di natura.
– Seconda formulazione della legge di natura: Il diritto a tutte le cose non deve essere conservato: certi diritti devono essere trasferiti o abbandonati.
Questa formulazione mette in evidenza la necessità, nella visione di Hobbes, di rinunciare a tutti i diritti, tranne il diritto alla vita. Tutto il resto è accessorio, cedibile tramite un patto di rinuncia.
Le leggi naturali non sono funzionali a superare la condizione di conflittualità, in quanto queste leggi, dettami della retta ragione, ma che possiamo anche interpretare come leggi divine, prescrivono sì delle cose utili, che se tutti gli individui seguissero, potrebbero far cessare la guerra; ma non tutti gli individui sono nelle condizioni di poter prestare ascolto a quelle prescrizioni, in quanto sono costantemente minacciati dagli altri: se le seguissero, in queste circostanze, sarebbe sopraffatti dagli altri.
La legge naturale obbliga solo in coscienza: nello stato di natura l’uomo sa che sarebbe meglio comportarsi come prescrive la legge naturale, ma sa anche che se fa così mette a repentaglio la sua vita.
La retta ragione dice agli uomini come si devono comportare per vivere in società. Nella concezione precedente, del mondo antico, o anche della Chiesa, le indicazioni generali della legge non valgono sempre allo stesso modo, e vanno specificate (es. omicidio-omicidio colposo). Tuttavia l’ordine della giustizia e della società è garantito dalle leggi naturali. Se si rispettano, garantiscono l’ordine sociale.
Questa osservazione di Hobbes denota uno scetticismo radicale tipico della modernità. La conseguenza di tale ragionamento è l’alienazione dei diritti, a vantaggio di una figura artificiale, una persona giuridica astratta che abbia il potere e tuteli gli altri.
Legge positiva e legge divina La legge positiva è quella costituita dal sovrano o da chi esercita l’autorità, e viene esercitata con la minaccia di una punizione, che può essere la morte, il carcere, oppure seguire una lezione di corriero. La legge divina include una sanzione, ma è una sanzione che non ha un effetto immediato. In questo senso la legge divina è meno forte della legge positiva, perchè uno può completamente fregarsene, se si chiama Gaunilone ed è un insipiente (lol).
Nella storia e nella storia profana abbiamo testimonianze di patti - dal patto di Abramo.
La persona giuridica è estranea al patto; riceve il potere che gli viene trasferito senza impegnarsi (!) con coloro che stipulano il patto.
L’alienazione del potere significa rinuncia al diritto di resistere ai comandi che da quella persona giuridica verranno. Il patto è un patto di alienazione (dal punto di vista di chi lo stipula) e di autorizzazione (dal punto di vista di chi si trova ad essere intestatario del potere).
Obiezione: ma perchè dobbiamo dare il potere al sovrano?
Il sovrano:
Come deve essere il patto, e a cosa deve approdare? Il patto deve far sì che
L’autorità che si genera dal patto è:
I giuristi romani distinguevano due figure:
Ma se riduciamo l’operazione al solo trasferimento, teniamo in considerazione che il popolo possa fare resistenza e possa opporsi al potere del sovrano. Ad Hobbes non va bene neanche l’altra soluzione, quella della traslatio, perchè anche se il popolo trasferisce il potere al sovrano, sarebbe sempre in condizione di ricordarsi che un tempo deteneva lui il potere; e potrebbe essere motivato a riprenderselo.
Dobbiamo capire il paradigma giusnaturalistico e contrattualistico, per capire meglio le differenze che si instaurano in questo paradigma.
Le leggi naturali non bastano a garantire un’uscita dallo stato di natura, ma possono servire a dare delle indicazioni:
All’esercizio della legge naturale è necessaria la pace; alla pace è necessaria la sicurezza: la sicurezza è il valore primo del percorso che caratterizza il progetto politico della modernità; che troverà espressione programmatica nella triade libertè, egalitè, fraternitè. Ma queste tre istanze vengono da qui: il primo valore è la sicurezza; garantita questa, si potrà lavorare per rendere effettive libertà, uguaglianza e fraternità. Dalla libertà nasce il liberalismo, dall’uguaglianza il liberalismo, la fraternità si divide in solidarietà, e quindi uguaglianza, e fratellanza come appartenenza alla stessa nazione, che porterà al nazionalismo.
Sappiamo che una condizione di eguaglianza e di libertà c’era nello stato di natura. Gli uomini erano uguali e liberi nella scelta dei mezzi per determinare la loro sopravvivenza.
Come possiamo mettere d’accordo la figura di un sovrano, e la libertà e l’uguaglianza? Non possiamo garantire molto, se non la sicurezza. Gli individui che si sono sottomessi saranno liberi nell’esercizio delle facoltà “private”, nel perseguire i fini per il loro benessere, ma non in tutte quelle capacità che riguardano la sfera pubblica, quindi la politica; oppure associarsi con gli altri per praticare un culto. La sovranità che si costituisce è secolare e religiosa.
Nella concezioni di Hobbes lo Stato di identifica con la chiesa, dunque lo Stato non regola solo lo spazio laico della convivenza, ma anche quello sacro delle convinzioni mediate dalla religione, secondo il principio che dominerà nell’età dell’assolutismo cuius regio, eius religio.
Il sovrano obbliga, nella misura in cui protegge. Nello stato di natura c’erano le leggi naturali a limitare la libertà degli individui; però siccome non c’erano le condizioni per ascoltare le leggi naturali, gli individui rimanevano liberi. Ma dopo il patto di sottomissione, gli individui godono solo di una libertà innocua, cioè apolitica e che non ha a che fare con la dimensione religiosa, perchè nella concezione di Hobbes la religione è politica. Quella di Hobbes può essere definita una teologia politica.
Una volta che il potere si è costituito genera delle gerarchie. Sono dei rapporti di diseguaglianza quelli che si generano nella teoria hobbesiana. Questi rapporti di diseguaglianza hanno in particolare a che fare con la proprietà. Se nello stato di natura non c’è proprietà - gli individui possono al più perseguire il possesso delle cose.
La proprietà come titolo giuridico che mi garantisce il possesso duraturo di un bene si dà solo nello Stato. In questo senso Hobbes riflette la coscienza di una società borghese mercantile.
Nel Leviatano viene detto che il valore di un uomo coincide con il suo prezzo, cioè il suo salario. Da questo punto di vista, è un intellettuale che guarda con simpatia alla nuova società borghese e con antipatia alla vecchia società feudale fondata sull’onore. Hobbes è consapevole che la distribuzione dei beni nell’Inghilterra del ’600 è frutto di una originaria distribuzione feudale operata da Guglielmo il Conquistatore nel 1066. Gli autori che vengono dopo Hobbes portano avanti la concezione di una società mercantile, e in particolare il modello di una società liberale.
John Locke alla fine degli anni ’80 lavora ai Due trattati sul governo; nel primo smonta la concezione tradizionale della monarchia come legittimata da Dio; il secondo trattato è la prima grande opera di teoria politica del liberalismo moderno. È molto interessante confrontare il progetto Hobbes con il progetto di Locke - progetti simili che parlano entrambi di uno stato di natura da cui si esce con un patto, e con cui si entra nella società civile.
Locke vuole ampliare in modo significativo lo spazio delle libertà che Hobbes aveva ristretto alle dimensioni private.
Stato di natura: Locke ha una visione meno pessimistica di Hobbes, per formazione filosofica, orientamento religioso, e non ha vissuto la guerra civile. Hobbes è in qualche modo più autoritario; Locke è noto per i Trattati sulla tolleranza. Nello stato di natura di Locke, la legge naturale li orienta a evitare il più possibile il conflitto.
Può comunque succedere che insorga un conflitto tra individui, a causa delle passioni o di altri motivi. Chi ha subito un torto ha diritto a un risarcimento; ma se chiede un risarcimento eccessivo si genera un conflitto. Lo stato di natura è fondamentalmente pacifico, ma ci sono degli incidenti che a volte degenerano in uno stato di guerra.
Ma lo stato di guerra teorizzato da Locke non è così pericoloso come quello di Hobbes. Allo stato di natura manca solo un giudice imparziale - non c’è bisogno di alienare il proprio potere a un sovrano assoluto. Questa è l’idea di fondo del liberalismo politico: muove da un’idea della natura umana che è sì problematica, ma non del tutto orientata al conflitto e al negativo come Hobbes credeva.
Gli individui stabiliscono dunque un patto che replica la divisione patto di società - patto di sottomissione. In Locke gli individui si costituiscono come popolo, che concedono il potere a un terzo a patto che egli si comporti bene - c’è l’idea del diritto di resistenza: il popolo ha diritto di resistere ha un sovrano che abusa del potere. Non gli viene trasmessa la sovranità, ma solo l’esercizio della sovranità per dirimere i conflitti che si daranno.
Nell’ottica liberalista, gli uomini sono più portati allo scambio che al conflitto. Ma il liberalismo diventa pessimista quando si discute della natura di chi detiene il potere. Chi ha il potere tende naturalmente ad abusarne; il potere è pericoloso; il potere è limitato. Di cui l’assunto di fondo del liberalismo: la divisione dei poteri. Questa forma di divisione che noi conosciamo grazie a Montesquieu è già presente in Locke.
Inn Hobbes la proprietà è generata dal sovrano attraverso un atto di distribuzione. Locke ha una concezione diversa, tipicamente moderna: la proprietà è generata dal lavoro. Nello stato di natura c’è la proprietà, perchè quello è un atto che implica uno sforzo.
Ma il lavoro produce un’attività trasformativa dell’ambiente: se zappo la terra quella sarà mia, perchè ho erogato una energia da una forza che è propriamente mia. L’assioma è: è mia la mente, è mio il corpo, dall’energia della mia mente e il mio corpo ciò che si genera è mio.
I romani, che sono giuristi attenti in primo luogo allo ius privatum, danno 3 versioni della proprietà:
Qui c’è un altro elemento importante tra il modello autoritario e decisionistico di Hobbes e quello di Locke: che secondo Locke la società si genera già nello stato di natura; lo stato di natura non è più un insieme di individui irrelati se non nella forma di un conflitto, ma già legati dalla proprietà.
Ma Locke nel secondo trattato sul governo va avanti e dice: lo stato di natura è governato dalle leggi di natura, che prescrivono tra le altre cose di non dissipare ciò che la natura mette a disposizione dell’uomo; io posso accumulare in vista dei miei bisogni futuri. Se la legge di natura mi prescrive di non sprecare non potrò accumulare più di tanto, allora dovrò scambiare.
Gli uomini a un certo punto nello stato di natura hanno imparato che possono sostituire a dei beni deperibili dei beni non deperibili: la moneta. Io faccio torto agli altri se accumulo un quintale di mele e le faccio marcire; ma se accumulo oro non faccio torto a nessuno. Nello stato di natura è già codificata dunque l’origine della disuguaglianza. Se io lavoro più dell’altro accumulo di più.
Anche in Hobbes la disuguaglianza viene legittimata; ma è decisa in modo arbitrario nel sovrano, in Locke la disuguaglianza ha una sorta di spontaneità, all’interno del paradigma contrattualistico. La disuguaglianza è frutto di un processo spontaneo.
Per Rousseau si è parlato di democratismo; parliamo invece di aristocrazia egualitaria. Rousseau si oppone sia all’antropologia pessimistica di Hobbes che alla ideologia della proprietà privata di Locke e degli altri autori liberali che proliferanno nel ‘700 europeo. Gli illuministi moderati e gli enciclopedisti saranno tutti orientati verso il liberalismo à la Locke - in particolare nel filone dell’illuminismo radicale.
Qual è la differenza tra una condizione di libertà e una di schiavitù?
Comunemente si considera libertà il fare tutte le cose al nostro arbitrio e impunemente, e servitù il non poterlo fare. Qui sta accomunando la condizione servile e la condizione dello schiavo. Sta associando la mancanza di libertà al rapporto di sudditanza, di chi è suddito di un potere politico, di un poter sovrano. Questo tipo di libertà non può avere luogo nello Stato. Non vi è alcuno stato senza potere e senza diritto di coercizione.
Questa è una definizione in termini politici; ora passa ad una definizione metafisica - Hobbes, in quanto materialista, formula la sua concezione politica in termini metafisici.
La libertà in questa prospettiva è l’assenza di impedimento ai corpi: ciascun gode di una libertà maggiore o minore a seconda che abbia più o meno spazio in cui muoversi. Sono liberi i cittadini che non sono in carcere. Tante più sono le direzioni in cui ci si può muovere tante più sono le libertà di cui si gode.
La libertà civile consiste in che nessun suddito, figlio, o servo sia impedito dalle pene prescritte dallo Stato, dal padre o dal signore, di fare ed usare tutto ciò che è necessario per difendere la vita e la salute. La libertà è una libertà di movimento nelle decisioni - le scelte non devono cioè essere condizionate da altri. Siccome nello Stato esiste un ordinamento normativo che lo Stato dà al suddito, la libertà è costretta quanto più ampio è l’insieme normativo. Le scelte si possono dare per l’individuo solo nella sfera privata.
Posto che noi ci stiamo interessando della libertà politica. Possiamo distinguere 4 nozioni di libertà:
In Hobbes, si dà soprattutto la libertà dell’individuo nel collettivo. La libertà dal collettivo avviene nella sfera privata.
Possiamo guardare allo stato moderno in modo diversa da quella dei contrattualisti. Un esempio è dato da Foucault nella sua concezione del potere come disciplinare. Foucault critica una concezione contrattualistica che si interessa solo del potere al vertice. Foucault spiega invece che i poteri nel mondo moderno hanno strutture reticolari; la società disciplinare non ha solo il potere dall’alto, ma ogni individuo condiziona l’altro anche in senso orizzontale.
Continuiamo ad esplorare il contrattualismo con Rousseau. Arriviamo quindi dalla fine del ‘600 alla metà del ’700 (1750-1770). Il primo discorso sulle scienze e sulle arti è del 50. Segue il discorso sull’origine della disuguaglianza. Sono del 1762 l’Emilio e Il contratto sociale.
La descrizione che viene data dello stato di natura è ormai cambiata. Cambia lo scenario
Se il ’600 è il secolo del razionalismo, condizionato dal metodo assiomatico, il ’700 è il secolo dello storicismo (Voltaire). Gli autori ragionano principalmente sulla storia, e di come le società cambiano nella storia. Per Hobbes l’ordine è più importante della libertà, più importante di quella particolare realizzazione dell’umano che a partire da Rousseau identificheremo con il concetto di autenticità. Rousseau è anche autore di Confessioni sulla scia di Agostino e Montaigne, una sorta di interrogazione interiore sull’autenticità dell’esperienza dell’individuo. È diverso il clima storico e diverse sono le opzioni valoriali.
Rousseau ha un’immagine dello stato di natura antitetica a quella di Hobbes. L’uomo non è affatto un essere competitivo, aggressivo, ossessivamente egoistico; è invece un essere moderatamente cooperativo, incline più alla solitudine che alla socialità; non nel senso della misantropia che caratterizza il discorso hobbesiano.
Analizziamo il Secondo discorso sull’origine della disuguaglianza.
Rousseau muove ad Hobbes una critica: Hobbes non sta descrivendo nella sua antropologia lo stato di natura, ma la società in cui vive, una deformazione dello stato di natura. Sullo stato di natura non abbiamo notizie precise, ma possiamo formulare delle congetture.
Il patto teorizzato da Rousseau è un patto fraudolento.
Gli uomini sono uguali tra loro quanto lo erano gli animali di ciascuna specie prima che i cambiamenti evolutivi intervenissero. Alcuni sono rimasti buoni; altri sono stati portati dalle circostanze ad essere più o meno buoni.
Il taglio che dà Rousseau alla narrazione è un taglio storicistico, che secondo uno dei moduli classici dell’illuminismo dà la possibilità agli uomini di rendersi migliori, in un processo però condizionato dalle circostanze. L’uguaglianza originaria degli uomini è dipinta nella posizione uguale rispetto a tutto ciò che la natura mette a disposizione.
I filosofi hanno cercato questo stato di natura, ma hanno sempre trasferito determinati carattere di questo stato caratteristiche della loro società contemporanea. Possiamo congetturare che in origine gli uomini siano vissuti in una condizione di relativa indigenza e mancanza, che li spingeva a cercare un minimo di scambi e usare le loro doti naturali per perfezionarsi. L’immagine che viene data dello stato di natura è quella di uno stato pacifico.
L’uomo rousseauiano è abbastanza isolato e pronto a intraprendere un progresso di perfezionamento. Inevitabilmente questo perfezionamento passa per le tecniche. La narrazione che fa Rousseau è analoga qui a quella che fa Platone nel II libro della Repubblica, con alcune modifiche.
Anche qui nel processo evolutivo dello stato di natura emerge la corruzione.
Non è necessario che nello stato di natura si instauri la proprietà privata. Il meccanismo con cui si genera la proprietà privata in Locke è un meccanismo di legittimazione; in Rousseau è un modello opposto. La proprietà nasce in base a un patto fraudolento: qualcuno decide di recintare un terreno su cui sta, e dice agli altri questo è mio; gli individui gli credono; e nasce così un atto di usurpazione la proprietà privata. È un atto eseguito con la forza ma soprattutto con la frode.
Aristotele aveva incluso nel novero degli animali politici, come gli uomini, le api, le formiche, e altri animali; Hobbes replica che gli animali fanno le stesse cose che gli animali fanno con il patto naturalmente; tuttavia gli animali che si costituiscono in queste società non possono essere detti politici, in quanto non vi è da parte loro una volontà unica, come quella che si è generata artificialmente dal consenso degli individui.
Ci sono delle differenze sostanziali tra le società umane e le società animali:
Ma il riconoscimento di tutti questi difetti dell’uomo porta ad un indebolimento complessivo della costruzione filosofica di Hobbes. Partendo da una antropologia così pessimistica non puoi dare una concezione veramente solida del tessuto istituzionale.
Questo ci spiega perchè Rousseau si sposti da queste premesse così radicalmente pessimistiche di Hobbes e proponga una differente antropologia.
Su questa natura umana interviene a un certo momento il patto fraudolento - e qui anche Rousseau è costretto a riconoscere un valore strumentale fraudolento alla lingua. L’elemento hobbesiano qui riemerge, ma all’interno di una condizione storica, che non dice che questo è un tratto fondamentale della natura umana, ma che è un tratto che emerge all’interno del corso storico.
Per Hobbes l’uscita dallo stato di natura è uscita da uno stato di guerra e di insicurezza. Per Rousseau l’uscita dallo stato di natura è perdita di una semplicità originaria, per entrare in una condizione di conflitto e di inganno reciproco.
Le passioni, all’interno dello stato di natura, sono ridimensionate. Nella società civilizzata vediamo la presenza di passioni cattive. Non abbiamo motivo di credere che la natura umana sia come ci si mostra. Non c’è la consapevolezza del vizio e della corruzione. L’idea dello stato di natura che ne deriva è una raffigurazione più vicina a quella che era l’età dell’oro per gli antichi, o il paradiso terrestre prima del peccato originale.
Distinzione tra amor di sè e amor proprio. Quello che nello stato di natura c’è è l’amore di sè dell’individuo, un certo naturale egoismo legato all’istinto di autoconservazione. L’accusa è quello di avere confuso questo con l’amor proprio, quel senso smisurato dell’amore di sè che porta l’individuo a contrapporsi agli altri.
Non bisogna confondere le due cose: l’amore di se stesso è un sentimento naturale, che diretto nell’uomo dalla ragione e modificato dalla pietà, produce l’umanità e la virtù. L’amor proprio è un sentimento contingente, artificioso, e nato dalla società. Ispira agli uomini tutti i mali, ed è la vera origine dell’onore. Hobbes confonde la natura con la condizione della società.
L’uomo è contraddistinto dalla pietà: la sofferenza a vedere soffrire un proprio simile. Qui Hobbes si oppone a Hobbes quanto a Platone. La prevaricazione di cui Hobbes ha fatto esperienza appartiene alla società e non allo stato di natura. L’autoriflessione delle Confessioni ha portato Rousseau a capire che la pietà è la vera dimensione dell’essere umano.
Per Rousseau, I frutti sono di tutti, ma la terra non è di nessuno.
Per Locke, I frutti sono miei se li raccolgo io.
Per Hobbes, Meglio non ammazzarci per decidere chi prende i frutti. Facciamo decidere al sovrano la ripartizione dei frutti.
Gli uomini secondo Rousseau, pur di raggiungere una stabilizzazione politica, corrono verso le loro catene, credendo illusoriamente di assicurarsi la libertà. Capiscono che un ordine gli può garantire sicurezza, ma non abbastanza esperienza per prevedere i pericoli che discendono da quel patto.
A differenza di Locke e Hobbes, Rousseau è un autore poliedrico: scrive romanzi come La belle Eloise, l’Emile, le Confessioni, scrive musica, scrive di estetica, ecc. Ha scritto anche cose molto diverse nell’ambito della teoria politica. Scrive due progetti di riforma costituzionale, uno per la Corsica, l’altro per Polonia.
Il contratto sociale è un trattato che nella costruzione assomiglia sia al De Cive che al Secondo trattato sul governo di Locke. In questo testo Rousseau opera sulla base dell’ipotesi di stato di natura. Siamo di nuovo al livello di una ricostruzione logica del percorso che porta a legittimare il potere in uno stato.
Ma siamo al polo opposto rispetto a Hobbes, e anche molto lontani da Locke. Sotto certi aspetti Rousseau è addirittura più vicino a Hobbes che non a Locke.
Se per Hobbes il valore da cui partire è la sicurezza dell’individuo, e in Locke la priorità va alla libertà (modello liberale, la libertà garantisce tra l’altro la sicurezza). Il potere in Locke non è più indivisibile, ma è diviso per garantire la libertà dei cittadini. Se per Hobbes il patto è irrevocabile e il sovrano una volta istituito legifera come vuole (il cittadino non ha diritto di resistenza) nel caso di Locke c’è una opinione pubblica, che si esprime attraverso il parlamento e la stampa. In più, Locke afferma il diritto di resistenza: se il governo a cui è stato dato il potere abusa del suo potere, i cittadini ha diritto di opporre resistenza. Il popolo, di fronte a un governante che abusa del proprio potere, ha diritto di appellarsi al cielo.
Il cittadino secondo Hobbes non può resistere alla volontà generale; ma l’intento di Rousseau è opposto a quello di Hobbes, in quanto il primo vuole massimizzare la libertà. Ma per raggiungere questo obiettivo utilizza sorprendentemente lo stesso modello di Hobbes e le stesse modalità di argomentazione.
A livello espressivo, Rousseau sembra avere un gusto per l’aporia, nel mettere in evidenza la problematicità della realtà.
Nel II capitolo del I libro, Rousseau, in atteggiamento aristotelico, non parte dall’individuo, ma dalla famiglia. Illustra il paradigma patriarcale delle società arcaiche, allo scopo di sottolineare come in quelle società vige necessariamente il diritto del più forte, che genera un problema di legittimità del potere: la forza non genera potere legittimo.
Noi siamo alla ricerca di un potere che sia giusto e valido: la forza non è in grado di dare questo risultato.
Nel I libro viene descritta la schiavitù, in cui l’intenzione antidispotica, democratica, di Rousseau, si manifesta da subito. Il binomio valoriale in Rousseau è libertà ed uguaglianza: senza una non si dà l’altra.
Alienare significa donare o vendere. Un uomo che si fa schiavo non si dona, si vende per ottenere il proprio sostentamento. Un popolo per cosa può vendersi? Un popolo si venderebbe a un sovrano per il proprio sostentamento. Allora cosa assicura un sovrano? La sicurezza? Ma cosa ci guadagna il popolo da un sovrano se la sua tranquillità è una delle sue miserie? La sicurezza è in realtà una sicurezza apparente, una schiavitù mascherata. Sottomettendosi entrano in una condizione di oppressione da parte dei detentori del potere. Anche nelle carceri si vive tranquilli.
Ma quando uno può alienare se stesso, non può alienare i suoi figli; solo loro stessi possono disporre della loro libertà. La rinuncia alla libertà è contro la natura dell’uomo. Rousseau sposta quindi il problema del patto dal mero calcolo dell’utilità, su cui si muoveva Hobbes, a un piano morale, che riguarda i diritti, i doveri, e le qualità intrinseche dell’uomo. Kant ha infatti una propensione per Rousseau, in quanto sostiene l’autonomia della dimensione morale.
Come possiamo instaurare una convenzione generale per creare un ordine che sia giusto, ma non discriminatorio come quello di Hobbes? “Occorre trovare una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune la persone e i beni di ciascun associato, e per la quale ciascuno, unendosi a tutti, non obbedisca a nessuno che non sia se stesso e resti libero come prima”.
Questo è il programma politico di Rousseau. Dobbiamo fare un patto che garantisca la libertà originaria.
Ma anche la democrazia teorizzata da Rousseau avrà dei problemi di rappresentatività, lo vedremo.
Quali sono le clausole di questo patto? Si riducono tutte a una sola: la riduzione totale di ciascun associato a tutta la collettività - poichè ciascuno si dà tutto intero, la condizione è uguale per tutti, e allora nessun ha interesse a peggiorarla.
Il patto proposto è un patto di alienazione totale alla società, cedendo anche il diritto all’autoconservazione. Il soggetto rinuncia a tutto per confluire in un organo collettivo. Ecco perchè Rousseau viene accusato di avere una concezione totalitaria della democrazia. L’alienazione è fatta senza riserve, e l’unione è la più perfetta possibile. I singoli non hanno nessun diritto, perchè se ce lo avessero saremmo ancora in uno stato di natura. Chi si dà a tutti, non si dà a nessuno.
Il corpo collettivo (che chiamiamo repubblica) riceve ciascun corpo singolo come parte indivisibile del tutto: stiamo uscendo dal paradigma individualistico con cui la modernità aveva aperto il suo discorso (Hobbes, Locke) e torniamo verso una concezione organicistica. Il corpo sovrano, essendo formato da tutti gli individui, non può avere interessi contrari a quelli di ciascuno.
Un esempio di “fallacia naturalistica”: per il solo fatto di essere tale, la cosa è sempre quello che deve essere.
Confrontiamo questa visione con quella di Hannah Arendt. Secondo Hannah Harendt, la condizione umana è caratterizzata da:
Ma qual è la rilevanza di Rousseau se lo stiamo distruggendo dopo averlo introdotto? La categoria di volontà generale è presente nel nostro discorso politico contemporaneo. Noi consideriamo nel mondo, alla base delle nostre costituzioni, dei principi fondamentali, dei diritti inviolabili a cui noi attribuiamo anche una valenza etica. Questi diritti non sono discutibili.
Abbiamo quindi a che fare con un nucleo fondamentale sacro condiviso su cui poi costruiamo tutto il resto. Quella sarebbe la volontà generale nella nostra modernità, in quanto prescinde le diversità e le differenze. Postuliamo l’esistenza di un nucleo etico fondamentale.
Rousseau si preoccupa che gli interessi individuali dell’individuo siano qualcosa che possa minare la costituzione di una volontà generale.
Rousseau nel suo ragionamento sta distinguendo un Io ideale ed un Io empirico, legato agli interessi particolari.
Seguire gli interessi particolari non è una parte della libertà. Seguire gli interessi particolari significa essere schiavi delle passioni (pensiero di matrice stoica). Ponendosi su quel piano di condivisione a livello ideale con tutti gli altri, solo su quel piano si può godere di una autentica libertà.
Molti autori hanno rintracciato l’origine del concetto di libertà generale nella volontà teologica.
La sovranità non può mai essere alienata, cioè non può mai essere trasmessa. Non si danno due patti, uno di unione e uno di sottomissione, ma uno solo.
Il corpo sovrano è uno solo e non può essere rappresentato. Questo è il punto che contrappone Rousseau alla tradizione liberale, la quale pensa il potere come potere rappresentativo.
Rousseau è antiliberale nel suo rifiuto delle istituzioni rappresentative. In questo è un repubblicano: c’è un interesse preminente del collettivo in confronto a quello del singolo. Non appena il servizio alla comunità cessa di essere il primo obiettivo dei cittadini, ed essi preferiscono servire con la loro borsa anzichè con la loro persona, lo stato è già prossimo alla rovina.
La parola finanza è una parola da schiavo, e nel vero Stato è sconosciuta.
In un paese veramente libero i cittadini fanno tutto con le loro braccia, e nulla con il denaro.
NON SI DEVE DELEGARE NIENTE: la sovranità non può essere rappresentata per lo stesso motivo per cui non può essere alienata.
La volontà generale non si rappresenta, si vive.
I deputati del popolo non possono veramente rappresentarlo; sono mandati, delegati da chi detiene il potere. Ogni legge che non viene ratificata direttamente dal popolo è nulla.
Ma come agisce il corpo sovrano? In Hobbes esso era una persona fisica o giuridica che esercitava il potere in modo discrezionale e arbitrario. Nel caso di Locke, il patto era per delega: ti do il potere di governarmi, ma se abusi del potere ho il diritto di resistenza.
Qui il corpo sovrano agisce solo attraverso le leggi (generali e astratte), e non può emanare dei decreti su questioni particolari. Il governo non si fonda su un secondo contratto; ma si fa una legge che attribuisce a un commissario il compito di esercitare il potere in merito a questioni particolari; le leggi non bastano.
Kant scrive la Metafisica dei costumi, divisa in una parte sul diritto e una parte sulla virtù. Ha scritto anche una quantità di saggi nei quali ha condensato il suo pensiero politico, il più importante dei quali è Sulla pace perpetua del 1795.
Nel 1784 scrive il suo testo più sintetico con cui riesce a fondere la prospettiva contrattualistica con la prospettiva di filosofia della storia che si era affermata nel ’700.
Ci soffermeremo sul testo Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico
Rousseau è molto apprezzato da Kant in quanto considera la morale come intriseca al discorso politico. Il patto di Hobbes era invece in termini solo “utilitaristici” e di convenienza.
Qualsiasi sia il concetto metafisico che si ha della libertà bisogna approcciare la storia come si approccia la natura, alla ricerca di connessioni causali. C’è l’idea che si possa scoprire un andamento regolare delle azioni che riguardano la libertà umana. Facendo una sorta di media, è possibile che noi possiamo trovare una legge di sviluppo tendenziale della storia, che qui verrà identificata in una Legge del Progresso. Questo è un aspetto molto illuminista: Progresso significa civilazione e accrescimento di felicità per il genere umano.
Eterogenesi dei fini: c’è una sconnessione tra quello che gli individui umani cercano come particolare e ciò che i popoli interi desiderano come collettività.
I popoli interi procedono senza accorgersene verso lo scopo della natura, che è il loro filo conduttore.
Questo è quello che in filosofia della storia si chiama astuzia della ragione, quel meccanismo in base alla quale gli individui umani perseguono i loro fini particolari, inconsapevoli della relazione che questi fini hanno con i fini degli altri, e con il processo storico nella sua totalità. L’umanità muove questo fine, l’accrescimento progressivo della civiltà, indipendentemente da quello che gli individui fanno o vogliono.
Hegel in un passo delle Lezioni sulla filosofia della storia, dirà che gli individui sono la polvere della storia, gli strumenti attraverso i quali si realizza quel processo verso la libertà in cui consiste la storia universale.
Secondo Kant, Dio sa dove deve arrivare questo processo. C’è una differenza tra il mondo umano e il mondo animale: gli uomini non si comportano in modo solo istintivo, ma neppure in modo del tutto razionale; dunque per essi non sembra possibile una storia sistematica - come una società delle api in cui tutto è determinato dall’istinto.
Concezione abderistica della storia: la storia è una caos irrazionale privo di senso.
Lo spettacolo dell’agire umano è così mortificante che non possiamo attribuire all’umanità un proprio disegno razionale: il soggetto della storia non è il genere umano, ma la provvidenza divina, cioè la natura. Hegel, quando parlerà di Ragione, cercherà invece inconsciamente di rendere l’umanità protagonista di quel processo.
Dove troviamo lo scopo della natura? Il filo conduttore? Se procediamo in modo metodico nell’analizzare i tentativi che si sono dati di dare un senso alla storia, riusciremo a darne una ricostruzione scientifica, come Keplero e Newton hanno dato una spiegazione scientifica della natura.
Tutte le disposizioni morali di una creatura sono destinate a dispiegarsi un giorno in modo completo e conforme al fine.
Un organo che non sia utilizzato è una contraddizione nella dottrina teologica della natura. Sarebbe insensato ipotizzare una incompiutezza, insensatezza nella natura.
Ma visto che con Keplero la scienza ci ha insegnato che se affrontiamo con metodo la scienza della natura troviamo i suoi fini, ipotizziamo che un tale metodo funzioni anche per la storia.
Nell’uomo in quanto unica creatura razionale sulla terra quelle disposizioni naturali si
La ragione non si sviluppano completamente nella vita di un individuo, ma si sviluppano attraverso le generazioni. Gli individui nella loro vita in particolare non ripartono sempre da zero; ma accolgono le cose trasmesse dalle generazioni precedenti.
La natura ha voluto che l’uomo traesse da se stesso tutto ciò che va oltre all’esistenza meccanica e che non partecipasse di nessun’altra felicità e perfezione se non quella che egli si fosse procurato, libero dall’istinto, da se stesso, per mezzo della propria ragione.
Riferimento a Cartesio - l’uomo è macchina e poi ha una parte spirituale che ha altri strumenti. L’uomo macchina si può studiare come si studiano gli altri oggetti materiali. La ragione opera per staccare l’uomo da quella condizione istintuale tipica degli animali, attraverso uno sforzo. Qui emerge una specifica connotazione morale dell’antropologia kantiana.
C’è l’idea protestante dell’uomo che acquisisce il suo valore attraverso un impegno, una ascesi rispetto alla condizione istintuale della sua esistenza.
La natura infatti non fa nulla di superfluo. Questo assunto ben si colloca nella concezione illuministica della natura. Inoltre, la natura non è prodiga nell’uso dei mezzi per i suoi figli: agisce in base ad un principio di economia dei mezzi rispetto ai fini - fa solo ciò che è necessario per raggiungere i suoi fini.
C’è una condizione di sforzo e di ascesi rispetto all’aspetto sensoriale. La ragione si connette ad una idea di soggettività attiva, che fa coincidere la soggettività umana con un attivismo.
Inoltre, la natura è stata avara con l’uomo, con l’intento di promuovere la ricerca di soluzioni facendo leva sullo strumento della ragione; facendolo partire da una condizione di svantaggio rispetto agli altri animali. Lo sforzo dell’uomo che usa la ragione per elevarsi viene premiato - questo sforzo assume una connotazione morale, che ha una sua specificità morale: proprio come se la natura avesse mirato a che egli ottenesse stima di sè, anzichè benessere.
La natura ci ha messo in una condizione scomoda per generare una consapevolezza e una soddisfazione della nostra eccellenza come esseri umani. C’è un intero esercito di fatiche che attende l’uomo - un’idea completamente cristiana (benedettina - ora et labora o luterana).
Il fine dell’etica kantiana non è la felicità ma l’esercizio del dovere che porta al riconoscimento della dignità dell’uomo. Questa è la differenza tra l’etica utilitaristica e l’etica deontologica kantiana.
Il mezzo di cui la natura si serve per portare a compimento lo sviluppo di tutte le disposizioni generali dell’uomo, è il loro antagonismo nella società, in quanto esso diventa infine la causa di ogni ordine legittimo.
Qui Kant sintetizza le antropologie dei contrattualisti, riconoscendo il ruolo del conflitto e dell’antagonismo nel concetto del progresso, che prepara il passaggio ad Hegel - ci stiamo avvicinando ad una concezione dialettica della storia.
Per antagonismo, si intende la insocievole socievolezza degli uomini. Non è vero che l’uomo è per natura inadatto alla società, come dice Hobbes; ma esistono tuttavia dei lati negativi della socievolezza: gli uomini hanno una tendenza ad unirsi in società.
Non possiamo non riconoscere (come ha fatto Hobbes) che l’uomo abbia una tendenza ad associarsi, in quanto è consapevole che le sue disposizioni naturali si realizzano nella società.
L’uomo ha anche tuttavia una forte tendenza ad isolarsi, perchè trova in sè, allo stesso modo, la volontà di condurre tutto secondo il proprio interesse, e perciò si aspetta che gli altri siano pure egoisti - ponendosi in una posizione “difensiva”.
Onore, potere o ricchezza, sono ciò che muove l’uomo. L’uomo non riesce a sopportare i propri simili (è misantropo), ma non riesce a farne a meno; non solo per la divisione sociale del lavoro, ma anche perchè ha bisogno del riconoscimento degli altri.
L’uomo ha una rozza disposizione naturale dell’atteggiamento etico, che viene raffinata dalla ragione, dal dovere, dalla regola aurea. Senza questo elemento, saremmo rimasti al gregge, ad una condizione in cui gli uomini non darebbe il giusto valore e dignità, al loro fine in quanto creature razionali.
La natura vuole che l’uomo si getti nelle fatiche per nobilitarsi.
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Dato che la libertà assoluta sconfina nell’antagonismo, è necesssario disciplinarre la liberà con leggi congiunte .
Il problema è il più difficile e quello che verrà risolto più tardi. La cosa più difficile è costituire la società civile. Nel 1784 non è stato ancora risolto il problema della società civile.
L’uomo ha bisogno di un padrone; e anche se la ragione gli suggerisc edi imporre leggi che regolano la sovranità di ognuno, il suo egoismo lo conduce a trarsene fuori non appena gli sia possibile.
Ha bisogno di obbedire ad una legge universalmente valida che lo costringa ad essere libero; ci deve essere una legge che renda possibile la coesistenza della libertà di tutti. Ma dove prendere questo padrone? Anche il sovrano è un animale che ha bisogno di un padrone. Ma come fa il padrone ad essere giusto per se stesso pur essendo umano.
Da un legno così storto come quello di cui è fatto l’uomo non si può fare nulla di completamente diritto.
Ma un passo avanti si può fare, e coincide con l’instaurazione della Repubblica: la Rivoluzione Francese è in questo senso una prova storica. Per avvicinarci all’ideale sono necessari:
Con questi strumenti potremo arrivare ad una condizione quasi perfetta - che potremmo far coincidere, nella visione dei teorici della fine della storia, tipo Fukuyama, con la fine della storia.
La soluzione dovrà regolare non solo una singola società, ma i rapporti tra tutti gli stati. Kant invoca la via di estendere il patto sociale agli stati - per generare una condizione di pace anche tra i singoli stati. Il modello contrattualistico viene applicato alla regolazione dei rapporti tra gli stati nazionali.
Kant, sulla scia dell’opera dell’abate Saint Pier, lavora sul progetto di costituire una pace duratura.
Dal momento che l’antagonismo è un aspetto positivo nel promuovere lo sviluppo dell’umanità sottolinea come l’antagonismo tra gli stati abbia una funzione positiva. La natura ha un disegno di accelerare il genere umano: dunque la guerra non va vista solo in termini negativi, che produce sofferenze, ma anche come uno strumento con cui gli stati sono messi nelle condizioni di riorganizzarsi e razionalizzare le proprie istituzioni. Per vincere la guerra bisogna essere forti; per essere forti bisogna essere organizzati.
Dal punto di vista della filosofia della storia, la guerra ha una funzione progressiva perchè razionalizza le istituzioni. La guerra segna il passaggio dal dispotismo alla repubblica. Dopo i rivolgimenti e le distruzioni, qualcosa che appare irrazionale - perfezionare la forma politica attraverso la guerra - la Provvidenza mira in realtà verso uno scopo: uscire dallo Stato senza legge dei selvaggi e dare vita ad una lega di popoli.
Lega può significare alleanza, confederazione. Nel lessico alla fine dell’800 non c’era differenza tra Federazione (c’è un sovrano a cui tutti sottostanno - Stati Uniti) e Confederazione (non c’è un potere sovrano). Kant qui sta alludendo ad una confederazione. Se ci fosse un sovrano sopra gli Stati non ci sarebbero più gli Stati. Questa è la contraddizione che continua a vivere nei rapporti internazionali contemporanei, come le Nazioni Unite. Se due stati vogliono fare la guerra, non basta che l’ONU mandi i caschi blu, ma ci deve essere una volontà da parte degli Stati coinvolti. Hegel dirà chiaramente che gli Stati risolvono le loro controversie con la guerra.
Perchè la confederazione teorizzata da Kant possa funzionare, occorre che questi Stati consentano una convivenza pacifica, devono cioè essere non Stati dispotici ma repubblicani: la repubblica, dando il potere sovrano al popolo, si pone nelle condizioni di avere un sovrano naturalmente ostile alla guerra. Il popolo è ostile sia perchè non la vuole finanziare, ma anche perchè con la guerra mette in pericolo la sua vita.
Tutte le guerre sono dunque tentativi - da parte della razionalità della natura (che possiamo leggere come provvidenza o astuzia della ragione) - di costruire un corpo comune e civile generale che possa mantenersi automaticamente. Una lega di Repubblica che si mantiene in automatico. Alla fine della guerra esce una costituzione che altrimenti non ci sarebbe mai stata. Una simile condizione non si genera mai a caso. Ma non possiamo dimostrare assiomaticamente - l’orizzonte kantiano è sempre possibilistico. Gli uomini devono riorganizzare lo Stato e renderlo più efficiente.
Quali sono le tre alternative del corso storico - che nel suo ultimo scritto del 1798 distinguerà in
Ma è razionale ipotizzare finalità di natura nelle parti e insieme assenza di finalità del tutto? Come possiamo coinciliare l’ipotesi che nella natura ci sia una finalità nelle costruzione delle parti nella natura(organi degli animali, ecc.) - e che questa finalità ci sia anche nella storia, che è fondata sulla natura?
Sarebbe contraddittorio assegnare un fine alla natura ed escludere la storia da un tale disegno. La finalità a cui tende la storia è un assetto cosmopolitico della sicurezza statale pubblica, non del tutto senza pericolo, in modo che le forze dell’umanità non si assopiscano - l’assetto non deve dare una garanzia assoluta perchè sarebbe una stagnazione.
Argomento dei detrattori della Pace Perpetua (compreso Hegel): se cessa la guerra, i popoli imputridiscono nella palude della pace. Kant ammette la possibilità della stagnazione, ma basterà la non sicurezza che quella condizione perduri per assicurarsi che gli uomini continuino ad attivarsi.
Questa lega di nazioni, infatti, secondo Kant, potrebbe funzionare solo se le repubbliche avessero dimensioni paragonabili. Prima che l’unione degli Stati si compia, la natura umana sopporta i costi della guerra per ottenere il benessere.
Rousseau non aveva torto a preferire lo stato dei Selvaggi. Rimpiange lo Stato di Natura in cui il Selvaggio aveva spontaneamente compassione per la sofferenza altrui; noi siamo civilizzati fino all’eccesso, ci atteggiamo a essere morali ma questo appartiene alla civilizzazione, che non è ancora vera e autentica condizione di moralità. Per ritenerci moralizzati ci manca ancora molto. La filosofia tedesca dell’800 giocherà molto sulla contrapposizione tra civiltà (Kultur) e la civilizzazione (Civilizaktion), intesa come formalizzazione di regole solo apparentemente morali, che riguardano il decoro, la cortesia, l’apparenza. La Kultur, la verà civiltà, presuppone la vera moralizzazione dell’agente umano, e nel caso degli Stati, presuppone che gli Stati agiscano nel rispetto dell’integrità degli altri.
Poichè gli Stati pongono tutte le loro forze in inutili mire espansive, non c’è da attendersi nulla di buono da essi. Se i collettivi agiscono egoisticamente, non si capisce perchè gli altri Stati debbano essere migliori di loro e si comporteranno analogamente.
È necessario dunque un lungo esercizio interno dei nell’educazione dei cittadini - e questo può avvenire solo nelle repubbliche, cioè nelle democrazie costituzionali; non negli stati dispotici.
Tutto il bene che non è fondato sull’azione moralmente buona è miseria brillante. L’etica di Kant è deontologica e presuppone quindi l’intenzione di fare il bene come criterio morale dell’azione.
La storia del genere umano in grande è il compimento di un piano nascosto della natura, volto a instaurare una perfetta costituzione interna e esterna - quest’ultima nella cosmopoli - la lega dei popoli. Questo potrà realizzarsi solo in una condizione di pace interna ed esterna.
Questa tesi è un corollario della settima tesi.
La storia che lui sta proponendo qui è una storia profetica; è una prospettiva in fin dei conti escatologica: parliamo di escatologia secolarizzata. Anche solo proporre l’idea può favorire l’attuazione del disegno - e questo è il contributo della filosofia.
La terza domanda dell’antropologia di Kant: cosa posso sperare?
Il ciclo sembra dover essere così lungo per chiudersi. Non illudiamoci di poter trarre dall’esperienza indicazioni sufficientemente precise sul corso della storia; ci sono delle deboli tracce dell’avvicinamento che diventano molto importanti.
L’illuminismo (auf….) arriverà mescolato a delle chimere, cioè a delle stravaganze: ma il nucleo dell’illuminismo è un grande bene che va visto in tutto: l’illuminismo riguarda i capi e anche la popolazione, allo stesso modo.
L’assetto cosmopolitico sarà il solo luogo dove si compieranno le ambizioni dell’umanità: altrimenti resteremo sempre degli umani atrofizzati.
Un tentativo filosofico di elaborare la storia universale del mondo secondo un piano della natura deve essere considerato possibile, anzi tale da poter promuovere questo scopo naturale.
In generale, possiamo affermare che non siamo di fronte a una teodicea applicata alla storia come sarà quella di Hegel, ma sicuramente davanti ad una escatologia secolarizzata.
Eravamo partiti con Tucidide introducendo il concetto di realismo politico, che costituisce un termine di confronto per tutte le concezioni politiche successive.
Ma cosa ci dice la modernità rispetto allo schema di fondo a cui ci eravamo rivolti analizzando il pensiero antico?
Alcuni elementi risultano differenti e la modernità sta andando in una direzione che vorrebbe definirsi antitetica rispetto alla concezione antica del realismo politico.
C’è un ridimensionamento dei fattori che in Tucidide hanno una valenza negativa, quelli portati dalla necessità del Caso.
Kant non gioca sulla categoria di necessità, ma di possibilità: ci dice che dobbiamo guardarci da una lettura necessitaristica della storia: non ci sono necessità così stringenti che non possano essere allentate o aggirate. Insistere sul disegno della natura in cui il caso ha un grande peso, e ci lascia ad una visione della storia differente. In Tucidide sono presenti i fattori umani, che opera soprattutto nello sforzo per migliorare una condizione presistente, che però non è un destino ineluttabile - c’è una insistenza su una ragione qualificata moralmente, impegnarsi per perseguire dei fini all’interno del processo storico, con l’umanità che ha occasioni per mostrare la sua capacità di agire in senso morale.
In questo punto di vista la modernità va oltre: con Marx arriverà l’idea che l’umanità, prendendo coscienza della sua situazione in cui è inserita, può uscire dal regno della necessità per entrare nel regno della libertà (lessico marxiano). L’emancipazione da una condizione di sofferenza.
L’ottimismo dell’800 ridimensiona questi caratteri di necessità e caso che dominavano l’immaginario pre-moderno. Qui si avverte una grande promessa della modernità, ma che, nel XX secolo si vedrà, non sono state mantenute. Il postmoderno mette in discussione che le promesse delle meta-narrazioni della modernità siano state disattese.
Un grande tema che l’illuminismo pone è quello della perfettibilità umana, cioè l’adozione di una prospettiva teleologica che non riguarda più solo la natura, ma riguarda la storia. L’umanità può progredire perchè è predisposta al progresso e al miglioramento. La perfettibilità è condizione del progresso, che ha dimensioni materiali e dimensioni morali. La dimensione materiale del progresso sta a significare riduzione del dato originario della condizione umana: la necessità - non del tutto scomparsa. La scarsità originaria viene combattuta grazie alla capacità di modificare l’habitat in cui l’uomo vive: il programma utopistico della modernità qui mira ad una minimizzazione della scarsità: le società moderne possono generare bene, e hanno dunque una capacità di accelerare la storia.
Il processo di civilizzazione culmina nel superamento della violenza, per neutralizzare la forma estrema e più devastante di violenza: la guerra - una cosa che non conoscono gli animali.
Nel discorso moderno economia e diritto assumono una particolare centralità nella configurazione dei rapporti umani. La politica non è più il solo spazio dove si gioca la partita. L’attenzione degli autori moderni si rivolge all’economia, come disciplina che dà risposte a domande che riguardano l’utilità degli individui e la sua dimensione più egoistica.
Lo stato di natura di Hobbes è uno stato in cui c’è competizione, quindi è presente un aspetto economico; nello stato di natura di Locke nasce la proprietà privata. Rousseau vede questa centralità dell’economia nel processo di formazione della società civile; non tanto prima - il selvaggio non dà tanta importanza all’economia. In Kant l’economia è intrinseca alla sua concezione della conflittualità dello stato di natura, che riprende sostanzialmente da Hobbes.
Il modo di uscire dalla guerra di tutti contro tutti è un modello che si riferisce al diritto: il contratto è una forma elementare della ragione giuridica. I giuristi romani si sono concentrati sul contratto, fondativo della società.
Il contratto definisce un rapporto giuridico tra privati; ma gli autori moderni traspongono il contratto dalla dimensione politica a quella pubblica; il contratto serve a fondare la sfera pubblica.
Da Kant in poi la figura del contratto verrà messa in discussione ricorrendo alla filosofia della storia: gli Stati non nascono per contratto, ma nascono nel corso storico. Hegel criticherà gli autori giusnaturalisti contrattualisti precedenti per aver fondato lo Stato su questa idea privatistica del contratto; per Hegel la storia della formazione dello Stato è complessa, e passa sicuramente per la guerra.
Ma l’idea del contratto dall’altro lato è stata produttiva, in quanto ha creato il tessuto con cui sono costituite le costituzioni moderne, a partire dalle due rivoluzioni francese e americana la vita sarà regolata dalle costituzioni, che sono pensate a partire da un patto, un covenant, un’intesa, tra un certo numero di individui che si riuniscono, e stabiliscono delle regole che fanno valere anche per le generazioni future.
Il ’700 non è soltanto il secolo in cui nasce la filosofia della storia, ma anche il secolo in cui nasce l’economia politica, per la ragione che l’economia emerge come aspetto che si impone necessariamente alla regolamentazione della vita associata.
Sono due i testi di riferimento per la definizione precisa di repubblica: Sulla pace perpetua (1795) e La metafisica dei costumi (1798).
Art. primo e definitivo della Pace Perpetua: - il primo articolo riguarda la repubblica, il secondo il federalismo, il terzo il cosmopolitismo.
“La costituzione civile di ogni Stato deve essere repubblicana, per superare la condizione di guerra.”
Nel linguaggio di Kant repubblica corrisponde a ciò che noi chiamiamo democrazia costituzionale.
La costituzione repubblicana deve essere caratterizzata da:
La costituzione repubblicana è l’unica che derivi dall’idea del contratto originario, quella attraverso la quale si deve costituire ogni costituzione in cui il popolo fa le leggi in base al diritto. Questo è l’impianto base che fonda ogni costituzione moderna - uno spazio di regolamentazione giuridica che considera gli individui umani come uomini (1), come sudditi (2), come cittadini uguali tra loro (3).
Kant pare dunque creare una sintesi della filosofia politica moderna.
Prosegue: se tutti gli Stati si muoveranno in questo senso, avremo la pace perpetua. I dispotismi per definizione negano tutti e 3 questi elementi. Finchè ci sarà anche solo un dispotismo, non si potrà realizzare la pace perpetua.
Entro in classe al minuto 7 della registrazione.
I diritti ci concedono sempre un potere di godere di qualcosa, di fare qualcosa. Il diritto è sempre un power to, un potere di, o un power over, un potere su.
Rispetto all’antropologia platonica, a quella di Tucidide e tutte le varianti antiche - in cui avevamo questo logos che doveva esercitare un potere coercitivo sulle passioni - le passioni erano un fattore squilibrante che rendeva precario lo spazio dell’agire umano. La modernità riforma questa antropologia - non perchè venga meno la richiesta della ragione di controllare gli altri elementi pulsionali dell’agire umano: ma perchè accanto alle passioni acquistano un ruolo crescente gli interessi. Tutti gli autori che fanno i conti con l’economia politica faranno i conti con questo aspetto.
Nella modernità c’è anche un processo di civilizzazione delle passioni: le passioni sono sempre le stesse di cui parlavano gli stoici e Aristotele, ma la nuova prospettiva economico-giuridica porta ad introdurre delle distinzioni e a portare l’attenzione su dei sentimenti morali che ci fanno capire come funziona una società basata sull’ordine economico e del diritto.
La modernità ha un susseguirsi di analisi antropologiche riconducibili al genere letterario del Trattato sulle passioni: a partire da Cartesio. Una delle opere di Cartesio è un trattato Sulle passioni dell’anima. Hobbes se ne occupa anche nel De Homine. Per Spinoza è l’Etica, ma anche all’inizio del Trattato Politico Spinoza avvertirà di considerare le passioni come qualcosa di negativo, ma come un dato neutrale da cui dobbiamo partire. L’Antropologia Pragmatica di Kant, del 1798, è in larga misura un trattato sulle passioni.
In quest’opera, Cartesio considera che le passioni possono essere considerate da varie prospettive. Possono essere chiamate passioni, sentimenti, emozioni. Nel corso degli anni però smetteranno di essere sinonimi. Così come molti di questi trattati sottolineavano come le passioni dividono, gli interessi portano ad unire, così, accanto a quelle che tradizionalmente chiamiamo passioni - tutte discendenti dall’Amore e dall’Odio - ci sono i sentimenti.
Le emozioni non sono così potenti come le passioni.
Adam Smith era un professore di filosofia morale, che ad un certo punto capisce che per parlare della condizione umana non si può non parlare di economia.
Una delle sue opere più importanti è Teoria dei sentimenti morali. Come altri autori della scuola scozzese (compreso Hume), porta l’attenzione sui sentimenti che si sviluppano nello scambio che gli individui intrattengono tra loro sollecitati da interessi economici: la benevolenza, la fiducia, che da questo momento in poi vengono chiamati sentimenti. Su questa base si può sviluppare una antropologia meno pessimistica da quella che era stata formulata da Hobbes. Questa tendenza è continuata.
In epoca contemporanea, Marta Nusbaum, autrice de La fragilità del bene, studiosa di etica antica, è una studiosa del rapporto tra emozioni e razionalità. Le emozioni, a differenza di come la pensava la tradizione platonica, che devono essere costrette dalla ragione - sono il cavallo nero della biga alata - sono qualcosa di cui la ragione si deve nutrire, o comunque possono essere sue alleate. C’è una sinergia emozioni-passioni.
Questa strada porta nel ’900 ad una teoria della giustizia: John Rawls basa la sua teoria su una analisi dei sentimenti morali, che possono essere in qualche modo a difesa dei diritti dell’individuo. Non sono solo qualcosa che contraddice l’intento ordinatore del diritto, da cui dipende la stabilità delle società contemporanee.
Questi sviluppi danno conto di come l’emersione della falda dei sentimenti morali, si inscriva oggi in un’ottica di analisi del processo evolutivo della società che è contrapposta al modello contrattualistico che abbiamo conosciuto a partire da Hobbes.
Von Hayek, economista del ’900, propone due modi di guardare ai progressi costruttivi della società:
La logica evolutiva è quella che oggi ci spiega anche la globalizzazione: non c’è nessuno che ha deciso che ci deve essere: è il prodotto di infinite variabili che sono fatte da interessi economici di attori, che sono causati da preferenze, che sono causate da emozioni. Quando noi scegliamo la nostra non è mai una scelta del tutto razionale, ma con un certo grado di irrazionalità.
Hegel costituisce la fine di una storia e l’inizio di un’altra, che si conclude in qualche modo con lui medesimo. Dopo di lui nascono la sinistra hegeliana Feuerbach, Marx (pensa la politica con gli strumenti delle scienze sociali) e la destra hegeliana (filosofia religione che non si interessa di politica).
Hegel rifiuta il paradigma contrattualistico, pur senza rinnegare alcune acquisizioni della modernità. È un pensatore della totalità che guarda innanzitutto al mondo antico. Con la sua filosofia politica riproduce un modello che richiama prima di tutto ad Aristotele. Quando i contrattualisti parlavano di stato di natura, non parlavano di famiglia. Per Rousseau, Hobbes, Kant, non è quello il punto focale.
Nella Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, nella sua costruzione della filosofia del diritto, il primo momento dell’eticità, che è il terzo momento dello Spirito Oggettivo.
Questa parte è divisa in:
Il diritto astratto è l’impianto romanistico del diritto. L’eticità, che è il momento più alto dello Spirito oggettivo, che si è incarnato in istituzioni sociali e che vive nell’ambito pratico, nella vita activa.
Nell’Eticità ci sono 3 momenti:
Osservazioni:
A. È ritornata in posizione centrale la famiglia, dimenticata dai contrattualisti. Recupero dell’impianto aristotelico, di famiglia come luogo di socializzazione primaria. Gli individui non sono mai isolati: Marx, hegeliano, dirà che le concezioni contrattualistiche sono robinsonate, alludendo a Robinson Crusoe, che è totalmente solo e se la deve cavare da solo
B. Società civile e Stato, che per i contrattualisti erano lo stesso, assumono due significati diverse (societas civilis = societas politica = stato) La società civile include le istituzioni che hanno a che fare con la vita economica, con gli interessi della società. Lo Stato è invece una società politica in senso stretto, dove sono distribuiti i poteri.
Paradigmi della filosofia Politica moderna:
Torniamo a Hegel.
Tre momenti della società civile:
sistema dei bisogni
organizzazione della giustizia
polizia e corporazione
Il sistema dei bisogni è il prodotto dell’incontro tra la filosofia politica con l’economia politica. La sfera economica appare come un sottosistema della società, che l’economia politica aveva messo in chiaro.
Questo sistema viene messo in evidenza come un sistema di interdipendenza tra bisogni che si configura come sistema, che ha una solida ratio di fondo.
L’uomo, nella sua dipendenza dei bisogni, dimostra la sua capacità di andare oltre i soli bisogni naturali, attraverso la moltiplicazione dei bisogni da un lato, ma anche dei mezzi per soddisfarli (allusione alla divisione del lavoro, che si specializza e dà vita a prodotti sempre più elaborati). Il bisogno concreto viene suddiviso in vari bisogni più astratti.
Il processo di divisione dei bisogni emancipa l’uomo dalla natura, ma subordina l’uomo alla coazione della divisone del lavoro, coazione del lavoro alle tecniche. Qui si allude già al processo che il giovane Marx tematizzerà dell’alienazione nel processo produttivo.
Per Montesquieu il poter giudiziario è nullo nel senso che non ha un potere politico, o comunque ne ha di meno. In conseguenza di ciò Hegel lo colloca nella società civile e non nei poteri dello Stato.
Si fondano 3 classi o ceti:
Ceto sostanziale, che si occupa della produzione
Ceto formale, l’artigianato e l’industria manifatturiera
Ceto universale, la burocrazia, che si occupa dell’interesse generale
Polizia e corporazione. Quando tra il 700 e l’800 si parla di polizia non si parla di sicurezza, ma di quella parte dell’amministrazione pubblica che si deve occupare dei bisogni primari della collettività: gli ospedali e l’amministrazione in generale.
Nel momento della corporazione, Hegel ne dà una interpretazione che allude ad uno sviluppo successivo. La funzione delle corporazioni è analoga a quella che svolgeranno dall’800 in poi i sindacati: quella di proteggere i lavoratori, in modo che si produca quell’insieme di regole che tutelano il lavoro, lo disciplinano, ecc. Hegel chiama qui la corporazione la seconda radice etica dello Stato (la prima è la famiglia). Tanto la famiglia quanto questo tessuto associativo della corporazione sono i momenti di socializzazione dell’uomo.
Nel sistema dei bisogni, l’individuo sceglie in base al suo arbitrio, ai suoi bisogni, ai suoi capricci. L’amministrazione della giustizia è la cancellazione di una lesione. Ma il diritto che è reale assicura il benessere collettivo. La corporazione interviene nel processo di socializzazione degli individui, facendo crescere in loro la consapevolezza della funzione che svolgono nella società.
Queste pagine riflettono sul pauperismo. Il sistema dei bisogni soddisfa i bisogni in termini astratti, ma è un sistema che genera anche disuguaglianza. Nel sistema dei bisogni si generano le disuguaglianza, e quindi ci saranno quelli che non troveranno lavoro o non avranno nulla: qui la polizia deve intervenire.
L’autorità generale prende presso di te la tutela dei singoli, svolgendo la funzione della famiglia presso i poveri. Occorre un aiuto da individuo a individuo, umano, soggettivo. Qui, malgrado ogni istituzione generale, la moralità trova molto da fare. Vengono dunque costruite infrastrutture per i poveri, come ospedali, ecc., che vanno oltre l’attività caritatevoli. È sbagliato pensare che si possa risolvere tutto con appelli alla morale privata: occorre una struttura pubblica che si faccia carico della condizione dei poveri.
Nella società c’è da un lato una classe che diviene sempre più ricca, e dall’altra avviene invece un processo di estrazione del lavoro, singolarizzazione del lavoro, e a causa di ciò una classe viene messa ai margini. La conseguenza di ciò è la proletarizzazione di una grande parte della società: questo porta la possibilità di concentrare nelle mani di pochi la ricchezza. Questi temi vengono chiaramente ripresi da Marx.
Solo attraverso il lavoro l’individuo può acquisire il senso dell’onore di sè: non possiamo dare gratuitamente ai poveri prendendo dai ricchi. Se dessimo invece lavoro a tutti i bisognosi, aumenterebbero troppo le produzioni, e non ci sarebbe abbastanza poter d’acquisto, quindi ci sarebbe una crisi di sovrapproduzione.
Malgrado l’eccesso della ricchezza, la società civile non è ricca abbastanza: non possiede abbastanza per ovviare alla soluzione della povertà. Questo è il problema di fondo delle società capitalistiche del passato.
Cos’è un classico? Secondo Bobbio, il classico è l’inteprete autentico e unico del proprio tempo. È sempre attuale, lo legge e lo reinterpreta ogni generazione. Il classico ha costruito teorie e modelli di cui ci serve continuamente per comprendere la realtà: modelli che sono diventate categorie mentali.
I classici ci costringono a delle scelte che spesso non riusciamo a fare. Siamo costretti quindi a selezionare e a combinare.
Bobbio tiene un corso in tema di mutamento politico, in senso realista, analizzando il rapporto tra rivoluzione e riforma.
Il denominatore comune dei classici sarebbe il realismo, che mette al centro il mutamento, una struttura mobile della storia. Il realismo politico viene pensato come una scuola di formazione per formarsi una opinione politica.
Non si fonda su un giudizio deduttivo e non fa ricorso a processi tecnici, ma richiede la maturazione di una capacità di mettere a confronto il possibile e il necessario. Ci insegna a soppesare il grado di probabilità delle possibilità e quindi orientare le nostre scelte.
Secondo Bobbio la rivoluzione aveva effetti collaterali troppo gravi, e dunque alla fine degli anni ’70 la prospettiva era tramontata. Era però anche scettico sul fronte delle riforme: vedeva gli ostacoli dei processi riformisti. Il disincanto in merito alla riforma è soltanto cresciuto, alla generazione che è venuta successivamente.
La teoria dei sistemi di … Lumann - teoria della complessità sociale: non si può governare una società complessa a partire da un centro e da un vertice. Questo è un argomento che è stato usato contro la rivoluzione.
Già Platone è un rivoluzionario quando pensa di poter risolvere tutti i problemi della polis affidando la risoluzione di tutti i problemi al re filosofo iper-accentratore del potere.
Le riforme vogliono andare a toccare la struttura: si differenziano dalla rivoluzione per tempi e modalità - ma sono entrambi tentativi di razionalizzare una complessità sociale a partire da un vertice. Noi constatiamo che il riformismo non è però adeguato ad una società che cambia così velocemente: dunque non solo la rivoluzione presenta effetti collaterali, ma anche i processi riformistici. Hirschmann ha messo in luce l’effetto della futilità: le riforme sono lente, graduali, ben ponderate; non fanno ricorso alla forza pura e poi finiscono per essere futili.
Il corso di Bobbio che riguarda mutamento-riforma-rivoluzione nel 78 è finito nel libro ##. L’anno 1978 sono anni del terrorismo e del rapimento Moro.
Il corso di Portinaro cade nel 2022-2023. Un anno in cui è iniziata una guerra, sostanzialmente tra potenze nucleari; uno smottamento verso destra di molte società europee, compresa la nostra, che sembra preludere alla creazione di nuove maggioranze all’interno dell’Unione; ci saranno cioè cambiamenti futuri nell’assetto dell’Unione.
Dobbiamo ammettere che l’Unione Europea ha funzionato nella maggior parte dei casi, tranne il caso nella Grecia, come stabilizzatore economico, per compensare cioè le oscillazioni che hanno sempre caratterizzato le democrazie, rendendone meno duro l’impatto.
Le costituzioni sono prodotti storici. Quando Machiavelli dice che bisogna tenere le mani sulla cosa pubblica, intende anche e soprattutto sulle istituzioni. Lui ha ritenuto, come Giovanni Sartori, che fosse necessario riformare alcuni principi della costituzione, non imputabili ai costituenti, ma che era necessario cambiare per affrontare i tempi; ciò non è avvenuto. C’è un progetto di riforma in senso presidenziale della costituzione, che sarebbe un errore in un mondo dove il fallimento dei modelli presidenziali è davanti agli occhi di tutti, che è il sistema statunitense, che non è mai stato così polarizzato.
Il realismo politico avrebbe potuto evitarci anche qualche altra deriva: più realismo politico sarebbe servito in tutti i passaggi che hanno seguito il disgregamento dell’Unione Sovietica.
Questo processo è stato destabilizzato e aggravato dalla politica estera americana, che è cambiata con i vari presidenti.
Se i paesi del G7 vent’anni fa facevano il 70% del PIL mondiale, ora ne fanno il 40. Il XXI secolo sarà un secolo in cui l’Occidente pagherà il conto del colonialismo, e questo influenza la politica mondiale contemporanea.
Nel 1992, quando ha iniziato ad insegnare, ha scritto il topo la rondine e il castoro: apologia del realismo politico.
Grazie a tutti. Ciao.