I due problemi fondamentali dell’etica (1841) si compone di due trattati:
I problemi affrontati qui da Schopenauer erano tuttavia già stati affrontati in Sulla quadruplice ragione del principio di ragion sufficiente (1813) e nel Mondo come volontà e rappresentazione (1818-1819).
Se il primo trattato può essere considerato un capolavoro scientifico, il secondo si riduce ad una “fenomenologia e apologia” della compassione, che non può essere un problema etico, ma deve essere trattato come un problema metafisico.
Il primo trattato può essere fatto derivare completamente da due principi fondamentali di Kant:
L’intero pensiero schopenauriano ruota intorno ad una intuizione fondamentale di base, l’intuizione dell’eterno - il pensiero del mondo come volontà e rappresentazione - apportando poi delle modifiche (parerga e paralipomena, cioè aggiunte e prosecuzioni) nel corso di tutta la sua vita. Parte dalle idee kantiane, ma approda ad una sua elaborazione originale. Il suo pensiero è in continuo sviluppo, non statico, mosso da una forza interna.
Libertà.
La libertà è l’assenza di tutto ciò che ostacola o impedisce, è un concetto negativo.
Esistono tre generi di libertà:
Il concetto di libertà non va dunque pensato come libertà di potere, ma di volere. Secondo la nozione comune di libertà, sono libero se posso ciò che voglio. Non è un pensiero in rapporto con la volontà, ma con il fare. Ma visto ci interroghiamo sulla libertà del volere, qual è appunto la sua origine?
Per poter rapportare il concetto di libertà alla volontà, si è iniziato a pensare la libertà come assenza di necessità. La necessità è l’elemento positivo che dà significato a quello negativo.
Ma cosa significa necessario? Necessario è, a parole, ciò che non può essere diversamente da com’è; ma se vogliamo dare una definizione rigorosa dobbiamo pensare come necessario ciò che segue da una ragione sufficiente data. In base alla ragione sufficiente da cui è determinata, la necessità potrà essere logica, matematica, o fisica. Ma queste ragioni ineriscono sempre allo stesso modo alle conseguenze. Intendendo una cosa come conseguenza di un’altra, la riconosciamo necessaria. Tutte le ragioni sono necessitanti.
Il contingente non è del tutto opposto al necessario, in quanto nel mondo reale tutte le cose sono determinate da cause. A questo punto, se la libertà è l’assenza di necessità, dovrebbe essere libero ciò che non dipende da nessuna ragione. Questo significherebbe però che la volontà individuale non è determinata da cause, cioè ragioni sufficienti, sarebbe, dunque, senza necessità. Una volontà libera sarebbe una volontà non determinata da ragioni, cioè non sarebbe determinata da niente.
Ma se togliamo il principio di ragione, forma essenziale della nostra facoltà conoscitiva, non riusciamo a pensare in modo chiaro. Eppure dobbiamo farlo, per ora. Questo concetto-limite, la libertà non determinata da nessuna causa, si chiama liberum arbitrium indifferentiae. Secondo tale principio, un essere umano in determinate condizioni può quindi agire in due modi opposti.
Autocoscienza
È la coscienza del proprio sè in contrapposizione alla coscienza delle altre cose (facoltà conoscitiva).
Fanno parte di noi, ma non appartengono strettamente all’autocoscienza, le forme a priori della conoscenza: spazio, tempo e causalità, che permettono la conoscenza oggettiva.
Non sono riferibili all’autocoscienza i moti morali, in quanto si producono solo in base all’esperienza (e quindi alla conoscenza) delle altre cose, e si confondono anche con l’educazione morale e religiosa.
La maggior parte della nostra coscienza è coscienza delle altre cose - la condizione del mondo esterno, reale, che cogliamo con i sensi ed elaboriamo in concetti attraverso il pensiero. Quello che resta se leviamo tutta questa parte è l’autocoscienza.
Cioè, come ottiene l’uomo coscienza di se stesso? Lo fa in quanto essere volente. Se osserviamo la nostra autocoscienza, ci accorgiamo che il suo oggetto è sempre il volere. Questo volere non si manifesta sono nelle volizioni, ma anche attraverso tutti gli affetti e le passioni. Questi ultimi infatti si riferiscono al conseguimento o al mancato conseguimento di ciò che si vuole. Sono affezioni della volontà, che è attiva nelle risoluzioni e nelle azioni.
Tutti i sentimenti di piacere e di dolore sono riconducibili a sentimenti di desiderio o di avversione ,cioè alla volontà. Nel percepire il nostro corpo, ci rendiamo conto che è la sede delle sensazioni piacevoli o dolorose riconducibili alla volontà. Tutte queste emozioni sono motivate e determinate, dal mondo esterno, che è l’occasione degli atti di volontà. Ci troviamo nell’ambito della coscienza - non esiste una volontà staccata dal mondo esterno e rinchiusa nell’autocoscienza.
L’autocoscienza è dunque tutta occupata dalla volontà. Ma l’autocoscienza trova solo nel mondo esterno i dati da cui risulta la volontà, intesa come liberum arbitrium indifferentiae?
Cosa significa volere qualcosa?
La volizione, oggetto dell’autocoscienza, nasce grazie ad un oggetto della facoltà conoscitiva - qualcosa di reale ed esterno - il motivo. Il motivo è la materia della volizione, e cioè a cio la volizione tende. La volizione mira a modificare il motivo, e reagisce ad esso.
Il motivo è causa e materia della volizione. Ma quando il motivo si presenta alla facoltà conoscitiva (intelletto), può la volizione non avvenire? Cioè, la volizione è determinata con necessità dal motivo? O la volontà conserva la possibilità di volere o non volere?
Per analizzare questo problema utilizziamo il concetto di libertà usato sopra, cioè di libertà come negazione della necessità. Dobbiamo cercare i dati per risolvere il problema nell’autocoscienza immediata.
Cartesio aveva affermato che non c’è nulla di più sicuro della nostra libertà. Leibniz aveva invece sostenuto che la libertà non è necessitata dai motivi, ma inclinata: posizione altrettanto insostenibile, dato che se riconosciamo che i motivi sono una forza causale, nel caso di una ipotetica resistenza della volontà dobbiamo solo trovare motivi abbastanza grandi per vincere la resistenza.
L’ autocoscienza comprende solo la volizione Rivolgendoci per risolvere il problema all’autocoscienza naturale, essa afferma: io posso fare quello che voglio. Attesta la libertà del fare; noi non cerchiamo la libertà del fare, ma quella del volere. Grazie ad essa capiamo che il nostro agire dipendente dalla volontà. L’autocoscienza non può analizzare il problema in quanto gli oggetti che determinano il volere si trovano fuori dall’autocoscienza, nella conoscenza delle altre cose. Solo la volizione, uno dei due fattori in gioco, si trova nell’autocoscienza. Noi dobbiamo indagare invece il rapporto di indipendenza (o dipendenza) delle nostre volizioni dalle circostanze esterne.
L’esercizio della volizione nell’azione qualifica la volizione come atto della volontà. Quando la volizione non si è ancora realizzata, è desiderio. Quando è pronta, ma non si è ancora realizzata, è risoluzione.
L’ingenuo confonde la volontà con il desiderio. Desiderare può due cose opposte, volere solo una delle due.
Noi insomma possiamo volere solo una cosa in una determinata circostanza. Non possiamo volere due cose opposte allo stesso tempo e nella stessa situazione, secondo il principio di non contraddizione.
A pagina 173 c’è un ottimo riassunto.
Se consideriamo il problema dal punto di vista della facoltà conoscitiva (cioè l’intelletto), la volontà non può essere oggetto di percezione immediata, come invece avviene per l’autocoscienza: possiamo solo considerare gli esseri come fenomeni esterni conoscibili in modo certo e oggettivo secondo regole universali certe a priori.
Passiamo da studiare la volontà in forma immediata alla volontà in forma mediata.
Non abbiamo a che fare con la volontà, ma con esseri volenti. Possiamo conoscere questi esseri in modo oggettivo dato che ci stiamo servendo delle forme a priori. La forma più generale dell’intelletto è il principio di causalità (vedi nel glossario). Grazie a questo principio si compie l’intuizione del mondo reale esterno, facendoci passare dagli effetti alle cause. Il principio di causalità stabilisce anche che ogni qual volta qualcosa nel mondo qualcosa si modifica (effetto), necessariamente deve essersi modificata qualche altra cosa (causa) - da cui la prima segue necessariamente.
Non si può pensare il mondo facendo a meno di questo principio, quindi non ha bisogno di essere dimostrato.
Non ci sono eccezioni a questa regola in quanto si tratta di un principio a priori.
Il principio stabilisce che quando nel mondo oggettivo-reale-materiale si modifica qualcosa, necessariamente deve essersi modificata anche qualche altra qualcosa. Questo avviene necessariamente.
Si innesca così una catena di modificazioni, quelle antecedenti, dette cause, e quelle conseguenti o posteriori, dette effetti: questa catena riempie il tempo, come la materia lo spazio.
Applicando il principio di causalità agli oggetti che si danno nella realtà, notiamo in essa tre modalità diverse con cui questo stesso e unico principio si applica. La causalità regge tutte le loro modificazioni, pur portando tutto ciò che esiste come corpo a poter essere classificato come inorganico, vegetale o animale.
In particolare, negli esseri inorganici come causa, nel secondo caso come stimolo, nel terzo come motivo. Questa varietà tuttavia non pregiudica la necessarietà dell’effetto rispetto alla causa.
La causa in senso stretto è quella in virtù del quale si producono tutte le modificazioni meccaniche, fisiche e chimiche dell’esperienza; riguarda tutti i corpi inanimati, cioè inorganici. Questo tipo di causa ha due proprietà fondamentali:
Il secondo tipo di causa è lo stimolo. Lo stimolo è una causa che non subisce una reazione proporzionata alla sua azione - non c’è nessun rapporto regolare tra intensità della causa e intensità dell’effetto. Il grado dell’effetto non può essere predeterminato. Le piante vivono in base a stimoli.
Il motivo è la causalità che passa per la conoscenza. I motivi si dividono in motivi intuitivi (propri degli animali) e motivi astratti (propri degli uomini).
Riguarda il carattere degli animali, che hanno bisogni più complicati che non si riducono allo stimolo. Negli animali subentra la recettività ai motivi, cioè una facoltà di rappresentazione, un intelletto. Tutti i movimenti che l’animale compie avvengono in base a motivi, cioè a determinate rappresentazioni presenti nella coscienza. In più, negli animali la capacità di formulare rappresentazioni ha infinite gradazioni.
Il motivo semplicemente “incanala” una forza motrice interiore (interna - quindi la vediamo nell’autocoscienza) che è la volontà. La volontà dà la forza al motivo di agire.
Gli animali, per provvedere alle loro funzioni più elementari (mangiare, bere, segzo) , sono mossi da stimoli; ma per tutto ciò che li distingue dalle piante agiscono in base a motivi, a rappresentazioni. Ma il modo in cui agiscono stimoli e motivi è molto diverso.
La differenza tra motivo e stimolo è la seguente: lo stimolo agisce per contatto diretto, e l’effetto ha un rapporto con durata e l’intensità dello stimolo, anche se questo rapporto non è sempre lo stesso; nel motivo invece non c’è nessun rapporto particolare, in quanto l’unica cosa che media il passaggio da volontà ad azione è la conoscenza, cioè il pensiero. L’oggetto che agisce come motivo deve essere solo percepito/conosciuto.
Un ulteriore differenza tra i motivi degli animali e degli uomini è che gli animali colgono intuitvivamente il mondo esterno; l’uomo può anche astrarre i concetti dalle cose (come gli universali), e gerarchizzarli. Il fare dell’uomo può essere determinato da puri pensieri. Questo si vede anche dal fatto che imprime a tutto ciò che fa - diversamente dagli animali - un carattere di intenzionalità e deliberazione.
Gli animali hanno invece solo rappresentazioni intuitive, cioè vivono solo nl presente. Questo significa che hanno pochissima scelta. Il motivo presente più forte determina la loro volontà.
Ma tutti i motivi in quanto cause agiscono sempre con necessità. I fili che legano l’uomo sono più sottili e invisibili, mentre gli animali sono mossi in modo coatto e violento dalla volontà, così legati all’immediatezza. Questa è la libertà relativa di cui gode l’uomo rispetto agli animali: esso si può determinare indipendentemente dagli oggetti presenti. Ma si tratta di una libertà comparativa: siamo sempre determinati da motivi in modo necessario, pure se astratti. I motivi astratti, pure se sono generati da qualcosa di reale, di materiale, che sì da in un certo momento e in un certo luogo, può agire a distanza di tempo, e può modificarsi o corrompersi lungo la strada, o incontrare altri pensieri. Ma tutte queste avvengono sempre in rapporti di causa-effetto.
La risoluzione tra i vari motivi, cioè la loro comparazione, per cui alcuni prevalgono, avviene sempre con necessità. Noi pensiamo di essere liberi perchè in questi motivi astratti la distanza tra causa ed effetto aumenta sempre, e diventa sempre più difficile cogliere il loro nesso. È molto più facile comprendere che una causa meccanica: se dò un calcio alla palla quella si sposta. Ma il meccanismo è il medesimo. Causa ed effetto diventano eterogenei e la loro connessione si fa incomprensibile. Nella nostra coscienza razionale di uomini, i motivi diventano del tutto indipendenti dal presenti e dalla realtà e rimangono celati all’osservatore.
In generale, più gli animali sono intelligenti, più i motivi si allontanano dai loro effetti (le azioni).
P. 215 ti spiega tutto.
Così nasce l’illusione di libertà. L’uomo riesce a figurarsi nella sua fantasia una sola azione possibile, e la sua volontà ne è sollecitata. Questa è la velleitas. L’individuo crede di poterla elevare a voluntas, cioè di poterla eseguire; ma poi si ricorda che ci sono dei motivi che gli impediscono di fare quella cosà, e ritorna a fare quello che stava facendo prima. Il pensiero di tutti questi motivi è sempre accompagnato da “io posso fare quello che voglio”. Ma in realtà quello che diciamo è “io potrei fare quello che voglio - se non preferissi questo altro.
Aspettare che qualcuno faccia qualcosa a cui non è spinto da nessun interesse è come aspettarsi che un pezzo di legno venga da me senza che ve lo si trascini con una corda.
La forza naturale “volontà” non può essere spiegata, è una forza naturale misteriosa inspiegabile e inspiegata, che è il principio di ogni spiegazione. Non è soggetta alla causalità, ma dà ad ogni causa la causalità (p. 227). Le cause determinano solo il quando e il dove delle manifestazioni della forza originaria e inspiegabile, soltando presupponendo le quali esse sono cause che producono effetti.
Ma abbiamo detto che la volontà viene conosciuta da ciascuno nella propria autocoscienza in modo immediato: essa ha una sua natura determinata, differente per ciascuno, per cui ogni individuo reagisce agli stessi motivi in modo diverso. Questo è il suo carattere empirico, conoscibile solo in base all’esperienza.
Il carattere è:
Questo ultimo carattere determina a mio parere un tratto estremamente pessimistico della filosofia Schopenaueriana: nessuno può cambiare: anche l’uomo che ha commesso un crimini o qualcosa che trova disdicevole, se ne rende conto, e dice di ravvedersene, non se ne ravvede, e appena potrà si lascerà nuovamente trascinare.
Solo la conoscenza può cambiare nell’individuo: si può cioè capire che i mezzi che adoperiamo non conducono ai nostri scopi; il sistema penitenziario (americano) funziona così: non prova a cambiare il cuore, ma le idee.
Schopenauer Chopin ci dice (p. 249):
Per il carattere innato dell’uomo i fini in genere che egli persegue invariabilmente sono già in sostanza determinati; i mezzi dei quali egli si serve in tal caso sono determinati in parte dalle circostanze esterne e in parte dal suo modo di comprenderle, la cui esattezza dipende a sua volta dal suo intelletto e dalla sua formazione.
Ogni existentia presuppone una essentia: questo vale anche per l’uomo ed è il carattere. La libertà del volere sarebbe una existentia senza essentia, che viola il principio di non contraddizione.
Prove “secondo il principio di autorità” che il carattere degli uomini è determinato:
Se non ammettiamo la necessaria concatenazione causale di tutto ciò che accade, qualsiasi previsione del futuro diventa assolutamente impossibile, in quanto ne mettiamo in dubbio le condizioni oggettive, riferendoci solo a quelle soggettive.
Ancora, se tutto non fosse determinato in modo necessario, il mondo sarebbe esclusivamente opera del Caso.
In più, è vano rammaricarsi delle circostanze che hanno portato ad un’azione, in quanto esse , essendo cause, l’hanno determinata necessariamente.
Dobbiamo guardare gli avvenimenti, così come si producono, con gli stessi occhi con cui leggiamo gli scritti stampati, ben sapendo che esistevano già prima che li leggessimo.
Religiosi: - Geremia (10.23) - Lutero, che nega il libero arbitrio.
Filosofi/Antichi:
Religiosi antichi :
Ma sostiene il libero arbitrio:
Questa domanda viene ripresa da Lutero, che affermerà (parafrasando): se ammettiamo la prescienza e l’onnipotenza di Dio, ne segue naturalmente che noi siamo stati creati per necessità, e questo è incompatibile con il libero arbitrio individuale.
Kant prende come qualcosa di acquisito la necessità con cui il carattere empirico viene determinato ad agire dai motivi.
In definitiva, *pensare la responsabilità morale della volontà come autonoma da cause esterne, su tutti Dio nei casi che abbiamo esaminato sopra) NON SI PUÒ.
Si è inventata la “volontà libera” proprio per l’incapacità di rispondere al quesito ‘se Dio esiste, allora tutti i peccati sono riconducibili a lui’.
La volontà libera è una bilancia senza pesi: non può mettersi in movimento da sola. Allo stesso modo la volontà libera non può produrre un’azione da sola.
A pagina 285 c’è un ottimo riassunto della questione libertà.
Hobbes è un altro che sostiene l’implausibilità del libero arbitrio, con un ragionamento equivalente a quelli di prima.
Ci sono poi altri tre personaggi (e che personaggi) che hanno capito che la volontà era libera, ma solo dopo essersi opposti ad una simile verità: Spinoza, Priestley e Voltaire.
Anche per Spinoza voluntas non potest vocari causa libera, sed tantum necessaria.
Priestley ha analizzato il problema in modo convincente e completo nel suo The doctrine of philosophical necessity.
Passiamo ad altro. Schelling ha copiato la teoria di Kant del carattere intellegibile ed empirico (la libertà esiste solo in riferimento al noumeno, ecc. ecc.), spacciandola come propria, nelle Ricerche sulla libertà umana.
L’analisi kantiana del rapporto tra carattere empirico e carattere intellegibile spiega come la libertà delle azioni, testimoniata dalla responsabilità che sentiamo a posteriori per esse, può essere conciliata con la loro rigorosa necessità.
Il rapporto tra carattere empirico e carattere intellegibile si basa sulla distinzione tra fenomeno e cosa in sè. La realtà empirica del mondo dell’esperienza coesiste con l’idealità trascendentale, la necessità empirica dell’agire coesiste con la sua libertà trascendentale.
Il carattere empirico oggetto dell’esperienza è un puro fenomeno, legato alle forme a priori di spazio, tempo e causalità. La condizione e la base di tutto questo fenomeno è invece il suo carattere intellegibile, cioè la volontà come cosa in sè, che ha una assoluta libertà.
Questa libertà è trascendentale, cioè non entra nel fenomeno, ed esiste solo se la astraiamo dalle forme del fenomeno, per arrivare al di fuori del tempo e dello spazio all’essenza interiore dell’uomo in se stesso. Nella nostra facoltà conoscitiva, la volontà si presenta solo come necessità, ma ha una libertà originaria fuori dal fenomeno.
L’intelletto è il medium attraverso cui i motivi agiscono sulla volontà. Se l’intelletto si trova in uno stato normale, la volontà può agire in conformità alla sua natura, cioè le azioni dell’individuo sono il puro risultato di volontà + motivi. In questo caso, può essere considerato responsabile morale e giuridico delle sue azioni: viene detto intellettualmente libero.
Non si dà invece libertà intellettuale quando:
Le leggi hanno a che fare solo con la morale.
Se la volontà subisce la coercizione dei motivi, e venendo da essi tratta in inganno, l’individuo non può essere punito per legge. Dunque tali azioni non sono giuridicamente imputabili all’individuo. In queste circostanze infatti le leggi presuppongono che la volontà non sia moralmente libera. Le leggi sono semplicemente motivi contrari ad azioni delittuose.
Ma in caso di non libertà intellettuale, queste azioni non sono nemmeno imputabili moralmente. Questo perchè non sono un carattere dell’uomo - la sua volontà è stata condizionata da errori o altri elementi casuali impronosticabili.
La libertà intellettuale può essere anche soppressa solo parzialmente: ciò accade negli affetti e nell’ebbrezza.
L’affetto è una violenta e rapida eccitazione dela volontà per una rappresentazione che penetra dall’esterno e diventa motivo. È un motivo talmente intenso e potente che porta a non considerare minimamente le altre possibili rappresentazioni che potrebbero opporglisi come motivi contrari. L’affetto, in quanto immediato e intuitivo, è troppo più forte dei pensieri che gli si possono opporre in modo puramente razionale.
In questi due casi insomma la responsabilità sia morale che giuridica è molto lieve o viene addirittura a mancare.
Coloro che ritengono che data l’inevitabilità di tutte le azioni nessuno debba essere punito, sono in errore. La legge ha infatti lo scopo di dare dei motivi contro il delitto che non è stato ancora commesso. Non si tratta di “ribilanciare il male con un altro male” per ristabilire la giustizia. Nessuno, tra l’altro, avrebbe il diritto di ergersi a giudice assoluto di un altro sul piano morale e punirlo.
Il delinquente subisce la pena in conseguenza della sua natura morale - che ha provocato l’azione (ricorda: azione = (volontà) + motivi + carattere) - questa natura morale rappresenta l’atto intellegibile.
Già secondo Kant l’idea ultima della totalità delle cose deve essere collegata all’agire morale: cioè la morale deve essere fondata sulla metafisica. Tuttavia, l’Accademia richiede una trattazione che consideri il fondamento della morale come sconnesso da un sistema metafisico.
Se si potesse partire da una metafisica data, si arriverebbe per via sintetica al fondamento dell’etica; procedimento, questo, che darebbe molta solidità a questa costruzione. Ma visto che questo non si può fare, visto che il quesito richiede di esporre il fondamento della morale di per sè, bisogna intraprendere un procedimento analitico, che muova
Il fondamento della morale da lui proposto è angusto, quindi delle molte azioni degne di lode possibili agli uomini, solo una piccola parte deriverà da motivi morali, mentre l’altra sarà dovuta ad altri motivi. Questa è una soluzione meno soddisfacente dell’imperativo categorico, sempre disponibile per orientare l’azione.
La fondazione della morale è sempre stata molto problematica. La si è cercata senza risultati dapprima nella natura delle cose, poi in quella dell’uomo.
La volontà dell’uomo è rivolta esclusivamente al proprio benessere, e il massimo del benessere è la beatitudine.
L’indagine di Schopenauer sarà dedicata esclusivamente al tentativo di fondazione etica di Kant, quello più recente e più importante. Nei punti più essenziali, la sua dottrina è diametralmente opposta a quella di Kant. Quindi la pars destruens è la critica a Kant, che viene prima della pars construens, cioè il suo sistema.
Kant si sarebbe “inventato” la legge etica - ormai basta appellarsi alla legge etica per “fondare” una morale, senza chiedersi da dove essa provenga veramente.
La ragione pratica e l’imperativo categorico sono postulati ingiustificati, infondati e fantastici. Il vero principio morale della natura umana è fondato sulla nostra essenza.
Kant ha purificato l’etica da ogni eudemonismo. L’etica degli antichi era eudemonia, quella dei moderni dottrina della salvezza.
Per gli antichi virtù = felicità, secondo il principio di identità, mentre per i moderni la felicità doveva essere una conseguenza della virtù (secondo il principio di ragione). Solo Platone tra gli antichi non ha un’etica eudaimonistica ma mistica; solo per Platone la virtù non è un mezzo ma un fine.
Ma Kant, anche se in apparenza cancella questo legame, sottotraccia lascia che ci sia un legame segreto tra virtù e felicità. Per Kant la condotta umana ha un significata come oltrepassa l’esperienza ed è il vero ponte per il mondo intelligibile.
Kant fonda la sua etica nella Fondazione della metafisica dei costumi, dove si cerca il principio supremo della moralità. La Fondazione ha gli stessi elementi della Critica della Ragion Pratica, ma esposti in modo più rigoroso e conciso.
L’oggetto della Critica della Ragion Pratica era
Il proton pseudos, cioè la prima bugia di Kant è nel concetto stesso dell’etica. Questa infatti secondo Kant:
“non deve dare le ragioni di ciò che accade, ma le leggi di ciò che deve accadere, anche se non accadrà mai”.
Ma chi dice che ci sono delle leggi a cui il nostro agire deve sottoporsi? Perchè deve accadere ciò che non accadrà mai?
Secondo Schopenauer invece la filosofia deve accontentarsi di spiegare ciò che è dato , per arrivare a comprenderlo effettivamente.
Nella Prefazione quindi Kant suppone arbitrariamente che esistono leggi morali pure. Queste leggi diventano il fondamento di tutto il suo sistema.
Le leggi possono essere:
L’unica legge dimostrabile e inviolabile secondo Schopenauer è la legge di causalità o di motivazione, espressione del principio di ragione sufficiente. Non possiamo invece provare allo stesso modo che esistano leggi morali inviolabili.
Se Kant afferma che queste leggi si devono compiere con assoluta necessità, questa necessità assoluta non raggiunge mai però i suoi effetti. Come si può allora parlare di necessità se alla legge morale “assoluta” non mentire non segue quasi mai l’effetto?
Un’altra petizione di principio in cui Kant cade è quella di dovere, che viene accolto senza essere giustificato.
I concetti di dovere, legge, comandamento provengono in realtà tutti dalla morale teologica cristiana, che è un’etica imperativa. Separati dai loro presupposti teologici, questi concetti perdono significato. Questa etica imperativa proviene in ultima istanza dal Decalogo e si fonda sul presupposto della dipendenza dell’uomo da un’altra volontà.
Questo tipo di concezione va bene per la teologia, ma non può essere trascinata di nascosto nella filosofia.
Secondo Locke, ogni obbligo di legge o un dovere va sempre pensato in rapporto ad una punizione, o ad una ricompensa. Il dovere ipotizzato da Kant è in realtà quindi un dovere ipotetico. L’obbedienza al dovere sarà dunque sempre interessata e quindi priva di valore morale.
La ricompensa promessa dal rispetto dell’imperativo categorico sarebbe quindi il sommo bene, costituto da virtù e beatitudine. Ma in questo modo la morale ritorna ad avere come obiettivo la beatitudine, e quindi a una forma di eudaimonismo. Il dovere quindi non è più condizionato, assoluto, ma è in vista di qualcosa.è in vista di qualcosa. Tutto ciò che avviene in vista di qualcos’altro, compreso questo, è un agire egoistico privo di valore morale.
Anche l’obbligo è legato ad una condizione. Il dovere può basarsi anche solo su una costrizione, mentre l’obbligo prevede anche l’assunzione dell’obbligo. Ma ogni obbligo presuppone anche un diritto. Lo schiavo non ha obblighi perchè non ha diritti, ha solo un dovere. Un esempio di obbligo è il contratto tra governo e cittadini, che si obbligano nei confronti del sovrano.
Kant proclama da un lato doveri verso gli altri, dall’altro verso noi stessi.
I doveri verso gli altri si dividono in doveri giuridici (di giustizia) e di carità. Ma i doveri giuridici verso noi stessi sono impossibili, perchè non è un torto se uno lo vuole.
In definitiva, tutti i doveri che secondo Kant dovremmo avere verso noi stessi, come evitare il suicidio, non praticare la pederastia, l’onanismo, la bestialità, non sono riconsucibili all’etica. La pederastia al contrario ricade sotto la giustizia, in quanto riguarda anche qualcun altro.
Kant ha raggiunto il risultato massimo in metafisica, perchè è riuscito a comprendere la distinzione tra l’a priori e l’a posteriori della conoscenza umana. Ma ne deduce che anche l’etica dovrà comporsi di una parte a priori e di una a posteriori; e la seconda risulterà inadeguata ad una fondazione dell’etica, che deve essere una scienza a priori.
Kant suppose che che come noi conosciamo a priori le leggi di spazio tempo e causalità, i criteri morali ci fossero dati a priori.
La legge morale di Kant dovrà così essere:
La legge non può:
Quindi la sua legge non può essere basata su nessun fatto della coscienza.
Il principio deve essere valido per tutti gli esseri ragionevoli, quindi per accidens anche per gli uomini. Per questo si fonda sulla ragione pura, e non sui sentimenti umani.
La ragione pura non viene pensata come una facoltà dell’uomo, ma come qualcosa che c’è di per sè.
Ma noi conosciamo l’intelligenza solo perchè la vediamo negli animali, e non siamo autorizzati a pensarla come qualcosa che sussite di per sè. Parlare di esseri ragionevoli che non siano animali è come pensare oggetti pesanti che non siano corpi.
Kant forse stava pensando agli angioletti. C’è una tacita presupposizione di un’anima razionale contrapposta all’anima sensitiva, che sussista anche dopo la morte. Soprattutto nella Critica della ragion pura, c’è sempre sullo sfondo l’idea che l’intima essenza dell’uomo sia nella ragione. Ma per Schopenauer la ragione appartiene al fenomeno, e l’intima essenza dell’uomo è invece la volontà.
Kant aveva dunque considerato la morale paragonabile alle forme a priori della conoscenza. Ma si tratta di cose del tutto diverse! La nostra esperienza deve sempre corrispondere all’esperienza, mentre la legge morale, come abbiamo visto prima, è continuamente contraddetta dall’esperienza.
Tra l’altro, se la legge morale fosse veramente a priori, sarebbe solo una forma del fenomeno e lascerebbe intatta l’intima essenza delle cose.
Per Kant una azione ha autentico valore morale quando è compiuta esclusivamente per adempiere al dovere. Questa è una apoteosi del disamore: aiuto gli altri non per essere filantropo, ma solo per ottemperare a un dovere.
Dalla Ragione pratica: “La disposizione che l’uomo deve avere per obbedire alla legge morale è quella di obbedirle per dovere e non per inclinazione spontanea nè per un’iniziativa che non sia comandata”. Dev’essere comandata.
E ancora: “Gli stessi sentimenti di compassione e di pietosa partecipazione riuscirebbero molesti alle persone benpensanti”.
Il valore di un’azione non starebbe dunque nell’intenzione, ma nell’obbedienza a una massima.
I tre postulati di Kant per la costruzione dell’imperativo categorico sono:
– p 417, 419 da fare –
Il principio di un’etica è il modo di agire a cui essa riconosce un autentico valore morale. che cosa. Il fondamento di un’etica è la ragione di quella raccomandazione. Bisogna distinguere attentamente tra queste due cose. Il principio è facile da indicare, il fondamento è difficile: per questo troppo spesso vengono ricondotte ad un unico principio.
Kant invece esprime il principio in una formula artificiosa, poi deduce questo principio come una conclusione da premesse date; per cui il lettore si illude di aver conosciuto la cosa e la ragione della cosa.
Di solito in quest’ordine.
In Kant:
Schopenauer vuole trattare le due cose in modo distinto. Secondo lui, tutte le morali concordano in merito al principio, che si può riassumere nella formula: Neminem laede; imo omnes, quantum potes, iuva!. Che tradotto significa Non far male a nessuno; ma per quanto possibile fa’ bene a tutti. Tutte le etiche si affanno a fondare questo principio, quando esso è in realtà la base. Questa è la conseguenza di cui si esige la premessa, di cui si esige il perchè, che è il nostro obiettivo.
La formula neminem laede è universale, perchè si pone come la conclusione di ogni altro principio morale, se lo poniamo come premessa. È ad esempio la conseguenza della massima Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te; Ama il prossimo tuo come te stesso.
Kant ha invece collegato in modo artificioso il principio della sua morale con il fondamento.
Abbiamo detto che il principio è l’imperativo categorico, puramente formale. Ma come possiamo derivare da pur concetti a priori senza alcun contenuto empirico delle leggi che non sono vuote?
Ripetiamo ancora una volta per gli insipientes (pun intended) che l’imperativo categorico non può essere considerato come un fatto immediato della coscienza, altrimenti sarebbe fondato empiricamente e antropologicamente. Non si può stabilire empiricamente se questo imperativo esista. Ma molti discepoli di Kant avevano pensato che l’imperativo categorico venisse giustificato come fatto immediato della coscienza. Reinhold e Schiller avevano inteso l’imperativo come fatto originario dell’autocoscienza.
Ma l’imperativo categorico non viene giustificato; quindi è ingiustificato.
Kant elimina ogni principio empirico, oggettivo o soggettivo, su cui fondare la legge morale. In questa legge, dunque, non gli rimane quindi nulla che non sia la forma, che è l’obbedienza alla legge, cioè la sua validità universale.
Nella sua prima formulazione: “Agisci soltanto secondo la massima che tu possa volere che diventi legge universale per tutti gli esseri ragionevoli”.
pp. 433-439 fatto schema
I due principali difetti dell’imperativo categorico sono:
In generale, per i successori di Kant, Reinhold e gli idealisti, l’imperativo categorico (cioè l’autonomia) è un fatto della coscienza e non è riconducibile a nient’altro, in quanto si manifesta con una coscienza immediato. L’autonomia è ciò che fonda ed è fondato da se stesso, non bisognoso di nessun’altra fondazione e ragione (intesa nel senso di causa lol). Ci cerca questa ragione fuori dalla fondazione così proposta, la scuola fichtiana-schellinghiana lo accusa di non poter fare filosofia, lo liquida.
Da quel momento in poi secondo Schopenauer il metodo filosofico diventa quello della mistificazione, allo scopo di nascondare la verità iperfisica dell’imperativo categorico.
La ragione inizia a essere considerata come la facoltà di percepire il “soprasensibile”; invece la ragione è la capacità tipica degli animali e degli uomini di formulare delle rappresentazioni astratte.
L’intelletto consiste invece nella coscienza immediata della legge di causalità, cioè la forma stessa dell’intelletto tipica anche degli animali. Da essa dipende tutta l’intuizione del mondo esterno. I sensi sono capaci solo della sensazione, che non è mai intuizione, ma materia di quest’ultima.
L’intuizione nasce perchè noi riferiamo spontaneamente (per questo è a priori) la sensazione degli organi di senso alle loro cause.
L’azione ragionevole è ovunque considerato l’agire da pensieri e concetti; ma si può agire in modo ragionevole e coerente secondo una massima egoistica o ingiusta. La vera ragionevolezza sta invece nella comprensione dei rapporti di causalità; e la virtù ne è comunque distinta.
Solo con Kant virtuoso e ragionevole diventano una cosa sola. Si può essere ragionevoli e malvagi, o irragionevoli ma nobili d’animo.
È assurdo dire, come fa Jacobi, che la ragione percepisce immediatamente il soprasensibile, cioè sia un organo metafisico fatto per conoscere in modo immediato ed intuitivo le ragioni ultime di ogni cosa. Se fosse così, tra gli uomini regnerebbe un accordo perfetto in merito alle verità metafisiche, e della matematica, e della geometria. Non ci sarebbe religioni e sistemi filosofici del tutto diversi.
La concezione metafisica di Kant ha senza dubbio la sua origine nella psicologia razionale di Platone, secondo cui l’uomo è composto da due sostanze eterogenee, il corpo materiale e l’anima immateriale. Secondo questa concezione, l’anima è un entità conoscente, e dunque un’entità volente.
Ma se nell’anima si dava il pensiero puro, puramente intellettuale, che conosce gli universali, qualora essa agisse in sintonia con il corpo la sua attività sarebbe stata pregiudicata, e sarebbe stato possibile solo il pensiero intuitivo, cioè imperfetto. Inoltre, la volontà determinata dal corpo era considerata inferiore, e cioè cattiva, mentre la volontà pura era quella dell’anima immateriale.
Cartesio ha poi ripreso questa concezione dividendo tutta la sostanza tra res extensa e res cogitans, sostanza materiale e spirituale. Le teorie cartesiane vengono però confutate da Spinoza, che afferma l’unicità di tutta la sostanza; e da Locke, che nega l’esistenza di idee innate, spiegando che tutta la conoscenza proviene da dati sensibili.
Kant in ultima istanza deriva da Platone la teoria della autonomia della volontà, con la ragione pura pratica che detta la legge per tutti gli esseri ragionevoli in quanto tale, secondo motivi solo formali, opposti a quelli materiali.
Abbiamo detto che il fondamento della morale kantiana è l’imperativo categorico.
Chi è che deve realizzare questo imperativo? L’egoismo.
Il vero principio morale è la massima di cui io posso volere che tutti agiscano secondo essa.
Ma che cosa posso volere? Dove trovo questa info? Nell’egoismo, una norma immediata e facile da trovare, che vive in tutti gli atti della nostra vita e della nostra volontà. La regola di Kant si basa sul presupposto che io debba volere ciò che ritengo.
Ma non posso soltanto pensare di poter esercitare le mie massime sugli altri come parte attiva; devo anche pensare a cosa succede quando sono la parte passiva; per questo mi muovo per la carità e la giustizia.
Infatti a un certo punto Kant si mette a spiegare cosa posso volere e cosa non posso volere (p.469): posto infatti che ognuno desidera di essere aiutato, l’obbligazione morale è fondata sulla reciprocità, è dunque egoistica.
Una volontà, ad esempio, che scegliesse la massima del disamore, qualora diventasse la parte passiva, la revocherebbe e quindi entrerebbe in contraddizione.
Ecco perchè l’imperativo di Kant non è categorico ma ipotetico: la condizione è che *la legge che stabilisco deve valere per me come agente attivo **e come agente passivo*, dunque non posso assolutamente volere l’ingiustizia e il disamore.
Ma se egoisticamente scelgo (se potessi per qualche motivo farlo) di essere parte attiva, potrei elevare a massima universale l’ingiustizia e il disamore.
Il vero contenuto dell’imperativo categorico, posto che non vogliamo subirlo, è quindi il classico non fare agli altri…., che può essere riformulato con il Neminem laede…, contenuto a cui, abbiamo detto, alla fine si riduce il contenuto di ogni morale.
Ma su cosa è basata questa esigenza? Boh
Kant divide in doveri giuridici o di giustizia (perfetti) e doveri di virtù (o di carità). Ma i doveri giuridici se fossero tali riposerebbero su una massima il cui contrario non può neanche essere pensato senza contraddizione; mentre per i doveri di carità potremmo pensarlo, ma non volerlo.
La massima dell’ingiustizia e il dominio della forza è la legge che regna nella natura.
Per esempio, Kant giustifica i doveri giuridici affermando il dovere verso se stesso di non porre fine alla propria. Questa massima sarebbe anche solo impossibile da pensare come legge di natura universale.
Ma il suicidio, in quanto unico gesto che non può essere impedito dallo Stato con una legge, è legge di natura universale, e questo ce lo dimostrano i fatti.
Questa seconda formulation introduce in modo vago i concetti di fine e mezzo:
“Agisci in modo da trattare l’umanità, tanto nella tua persona quanto in quella di chiunque altro, sempre come fine e mai come mezzo”
Fine e mezzo non vengono definiti in modo chiaro, ma la loro corretta definizione sarebbe:
Quindi fini e mezzi esistono solo in funzione di una volontà.
Kant dice che “l’uomo esiste come fine in sè”, ma fine in sè è una contraddizione. Alla base di quando dico ‘in sè’, sotto sotto c’è il pensiero teologico.
Non c’è nessun valore assoluto: ogni valore è una grandezza comparativa, più precisamente ha carattere:
Osservazione mia: guarda qui la vicinanza con Nietzsche!
Comunque, in ultima analisi, è una riformulazione del principio non fare agli altri…; questa massima contiene le premesse per la conclusione, che è il vero principio di ogni morale.
Gli animali possono essere trattati come mezzi. Si può avere pietà di loro solo per esercitarsi nei rapporti con gli altri uomini.
Questo disprezzo per gli animali come abbiamo già visto deriva dalla concezione arabo-ebraica. Gli animali diventano cose; non viene riconosciuto l’essere eterno che scorre in tutto ciò che è in vita.
Questa formulazione mette in luce l’egoismo come un tratto caratteristico. Il nostro primo istinto quando incontriamo qualcuno, è intendere quella persona come mezzo per i nostri fini.
Appena qualcuno non può essere per noi qualcosa, per noi è un nulla. Ma, posto che noi usiamo le persone, non pensiamo se la persona soffre per questo. Quando chiediamo un consiglio a qualcuno, perdiamo qualsiasi fiducia quando vediamo che il suo giudizio è condizionato da un interesse: pensiamo che si serve di noi come mezzo per raggiungere i suoi fini, agendo non secondo la sua cognizione, ma secondo la sua intenzione (per Kant l’etica si dà nell’intenzione).
Se uno mi chiede cosa devo fare? noi traduciamo immediatamente la domanda in cosa devo fare per me? - la volontà detta subito la risposta.
Questa non è una regola fissa: ci sono sicuramente caratteri superiori che usano gli altri come fini e senza interessi; ma è proprio la grande diversità etica dei caratteri che testimonia la vera essenza dell’essere, cioè la volontà.
“La volontà di ogni essere ragionevole è legislatrice universale per tutti gli esseri ragionevoli”
Sembrerebbe che nel volere per dovere, il volere si svincoli da ogni interesse. Un interesse che può essere proprio o estraneo. Ci potrebbero essere azioni quindi che non si fondano su nessun interesse.
Ma interesse significa motivo. Il Regno dei fini sarebbe popolato solo da esseri razionali in abstracto, che vogliono solo quello che vogliono, cioè che vogliano.
Attraverso l’autonomia dell’uomo, che si dà la sua legge da solo, arriviamo a concludere la sua dignità. La dignità sarebbe un valore incondizionato e incomparabile.
Alla fine della sua esposizione Kant si chiede: come può la ragione pura, il mero principio della validità universale di tutte le sue masime come leggi, costituire un movente per se stesso senza alcun oggetto della volontà? Nessuna ragione umana può spiegarlo.
Quindi non si può spiegare nè con la ragione nè con i fatti e le dimostrazioni empiriche; dobbiamo quindi necessariamente concludere che una cosa che non può essere nè concepita come possibile nè dimostrata come reale non può essere considerata esistente.
Ma se anche ci immaginassimo qualcosa di simile, di un uomo che agisca per il dovere e solo per il dovere, senza inclinazioni nè desideri, non avremmo una immagine fedele dell’uomo, bensì una sua distorsione in senso teologico.
L’etica kantiana manca dunque di qualsiasi solido fondamento.
500-509 da rivedere.
La ragione pratica guidata dall’imperativo categorico sarebbe imparentata con la coscienza.
L’imperativo categorico parla prima dell’azione, mentre la coscienza dopo. La coscienza può parlare indirettamente prima dell’azione mediante la riflessione, ricordando i casi precedenti. Ci sono quindi dei motivi che intervengono, pensieri, maldisposizioni, ricordi del passato che intervengono.
Dalle proprie azioni si impara a conoscere in modo empirico se stessi. La coscienza prende la sua materia sempre dall’esperienza, cosa che l’imperativo categorico non può fare, essendo a priori.
A §13 dei Principi Metafisici della dottrina della virtù Kant espone la concezione della coscienza, facendo impressione con termini latini e istituendo un vero e proprio tribunale della coscienza. Ma se questa concezione fosse vera, nessuno sarebbe così stupido da agire contro la coscienza, che incuterebbe un tremendo timore. La coscienza sarebbe fortissima; ma nella realtà vediamo che è debolissima, tanto da dover essere continuamente supportata da religioni e filosofie.
Dobbiamo pensare un giudice dentro di noi, pensarlo come un altro, onnisciente e onnipotente.
Il giudice vince sempre: l’accusatore perde sempre la causa, quando il giudice e l’accusato sono la stessa persona, secondo Kant. Questo non è vero secondo Schopenauer.
Il merito più grande di Kant in fatto di etica è stata la teoria della coesistenza della libertà e della necessità, esposto nella Critica della Ragion Pura e ripreso nella Critica del Ragion Pratica.
Kant, dopo che Hobbes, Spinoza, Hume, Holbach e Priestley avevano dimostrato e stradimostrato la necessità di tutte le azioni, considera quest’ultima come cosa certa e irrefutabile. Si capisce perchè sempre della libertà dal punto di vista teoretico.
Le nostre azioni sono comunque accompagnate da:
Ma dato che la responsabilità presuppone la possibilità di agire diversamente, noi sentiamo in qualche modo anche la libertà. Come conciliamo questa percezione con la realtà dei fatti?
Kant lo fa distinguendo fenomeno e noumeno.
L’individuo fa parte del fenomeno: è strettamente determinato dalla legge di casualità, cioè dalle motivazioni. È nel tempo e nella successione degli atti, secondo una legge di natura che produce i suoi effetti con totale necessità.
La cosa in sè è invece una, immutabile, perchè fuori dallo spazio e del tempo. La sua natura è il carattere intelligibile, presente in tutti gli atti dell’individuo, in senso originario, che ne determina il carattere empirico. Questo è il carattere immutabile di ciascuno.
Il principio è sempre quello: operari sequitur esse. Tutte le manifestazioni di ciò che sono sono contenute in me potentia, e aspettano solo di diventare actu, mosse dai motivi.
La libertà appartiene al carattere intelligibile: se, nel mondo fenomenico, il suo agire è necessitato dal carattere empirico, la sua libertà si trova nel suo esse. Avrebbe potuto essere un altro. Anche se noi veniamo determinati necessariamente dai motivi e dal nostro carattere, non possiamo giustificarci per questo delle nostre azioni, perchè sappiamo che sarebbe stata possibile una azione diversa se fossimo stati diversi. Noi ci sentiamo responsabili di essere noi stessi; dalla coscienza viene incolpato l’esse in occasione dell’operari.
Poichè abbiamo coscienza della nostra libertà solo tramite la responsabilità, e questa si riferisce all’esse, la libertà è nell’esse.
L’operari è nel dominio della necessità. Non abbiamo nessuna conoscenza a priori del nostro carattere; impariamo a conoscerci mentre agiamo.
La teoria della metempsicosi di Platone, come viene esposta nel mito di Er, sarebbe un rimaneggiamento di questa teoria, che Platone avrebbe preso da Pitagora, che l’avrebbe presa dai sacerdoti Egizi, che l’avrebbero presa dai brahmani, che al mercato mio padre comprò.
Nel Sistema della dottrina dei costumi di Fichte l’imperativo categorico viene trasformato in imperativo dispotico: la ragione legislatrice che obbliga diventa un fatum morale una necessità inevitabile; e dunque per l’uomo diventa impossibile non agire secondo questo principio assoluto.
“L’impulso morale è assoluto”, “Obbliga assolutamente, per nessun altro scopo che per se stesso”, “Ognuno è fine in quanto mezzo della ragione”.
Ma soprattutto molto divertente: “Ogni corpo umano è strumento per la realizzazione del fine razionale; perciò la massima utilità possibile di ogni strumento deve essere per me un fine in tal senso; pertanto devo prendermi cura di ognuno”.
“Agire in base agli impulsi della simpatia, della compassione e della carità non è assolutamente morale, ma in quanto tale contrario alla morale”.
Afferma anche il libero arbitrio.
Abbiamo appurato che l’’etica di Kant è senza fondamento ed è solo un ribaltamento della morale teologica. Tutte le etiche precedenti hanno fallito perchè si sono basate su concetti eccessivamente astratti, combinazioni, regole, proposizioni adeguate a fare un esercizio di acume ma inadeguate ad orientare il vero comportamento degli uomini.
Una nuova etica che voglia veramente impattare la vita degli uomini anche non filosofi, deve richiedere:
Guardando ai tentativi di trovare una morale naturale, tutti falliti, sembrerebbe emergere che non esiste una morale naturale, ma che essa sia un artefatto legato alle situazioni umane. Questo spiegherebbe l’incapacità nella storia di trovarne un fondamento.
Come sostenevano i pirroniani:
“Non esiste nè un bene nè un male di natura”
Ma allora perchè ci comportiamo bene con gli altri?
La giustizia non è sempre motivata dalla morale. L’agire secondo le leggi, guardando alla pratica, è sempre guidato in realtà da 2 fattori:
Solo a queste due cose è dovuta l’onestà degli uomini, e non a qualche legge morale naturale. Molti infatti sperano continuamente di potersi sottrarre alla giustizia o alle regole sociali. In definitiva, quindi saremmo guidati da un interesse.
Non dobbiamo avere paura di metterci in una prospettiva in cui giustizia e onesta non siano in fondo solo convinzioni.
Anche le azioni caritatevoli sono spesso motivate da un interesse. Spesso sono motivate da:
quindi in definitiva da motivi egoistici.
Quando troviamo un’eccezione a questa regola, cioè una persona mossa da motivi disinteressati: ci emozioniamo perchè in cuor nostro sappiamo che si tratta di una eccezione.
Tutto questo ci porta ad avere una visione scettica degli atti buoni
Di fronte a questa visione, proviamo ad appellarci alla coscienza, intesa come la vocina che ci dice hai sbagliato.
Ma possiamo avere dei dubbi anche sull’origine naturale di questa: possiamo considerare anche la coscienza mossa da un interesse: il pentimento che proviamo per ciò che abbiamo fatto spesso non è altro che paura di ciò che ne può derivare, paura delle conseguenze delle nostre azioni.
Possiamo considerare la coscienza anche come la paura di infrangere canoni esterni. La trasgressione di canoni esteriori, arbitrari, e insulsi, affligge molti con intimi rimproveri, come farebbe la coscienza stessa.
Ognuno di noi, interrogandosi sinceramente sulla coscienza, vedrebbe che è composta, magari:
Niente di naturale, niente di a priori.
Le persone religiose spesso intendono per fede i dogmi e i precetti della loro religione.
Questi dubbi non negano l’esistenza di una moralità, ma moderano le nostre aspettative rispetto alla possibilità di fondare una morale naturale. NON C’È UNA MORALE NATURALE, MA QUESTA È LEGATA A INTERESSI, MOTIVI, DESIDERI UMANI.
Lo Stato è un potere che costringe tutti a rispettare i diritti di tutti gli altri: l’egoismo di tutti e la loro crudeltà vengono domati dalla costrizione e non si possono esprimere, o meglio vengono mascherati negli atteggiamenti di cui sopra.
Viviamo quindi, grazie alle leggi del vivere civile, illudendoci che le persone abbiano un cuore e una moralità; ma quando lo Stato viene meno e non può proteggerci, ci troviamo faccia a faccia con il male e l’egoismo. Gli uomini sono come tigri e lupi le cui zanne sono bloccate da una robusta museruola.
Se lo Stato non potesse imbrigliare i veri impulsi morali degli individui, emergerebbe l’incredibile varietà dei caratteri.
Ribadiamo che l’unica via per fondare l’etica è quella empirica: dobbiamo cercare se esistono azioni a qui possiamo attribuire un autentico valore morale - queste saranno le azioni di giustizia spontanea, di pura carità, di verà nobiltà d’animo.
Considerando l’azione come un fenomeno, dobbiamo spiegare un tale fenomeno rettamente, riportando le azioni ai loro veri motivi, trovando la “molla” che spinge l’uomo a particolari azioni piuttosto che ad altre.
Anche se non sarà infallibile, elegante, assoluta per tutti gli esseri ragionevoli, questo è l’unico modo per fondare l’etica.
Questa molla è l’egoismo (Egoismus - egoismo guidato dalla ragione, capace di perseguire i suoi fini conformemente ai suoi disegni).
Questo egoismo è l’essenza più intima di ogni individuo. L’egoismo non conosce confini: l’uomo vuole conservare la sua esistenza, e la vuole libera dal dolore; vuole il benessere, e vuole ogni godimento di cui è capace.
A causa del suo egoismo, tutto ciò che non è riducibile ai suoi interessi cercherà di annientarlo.
Ognuno fa di sè il centro del mondo, riferisce tutto a sè e al proprio interesse, prima di ogni altra cosa. Ognuno di noi ritiene davvero reale soltanto se stesso; considera gli altri come meri fantasmi (solipsismo).
Ciascuno si ritiene possessore di ogni realtà. Questo perchè ognuno si percepisce in via immediata, mentre gli altri possono essere conosciuti solo in via mediata tramite la rappresentazione; e sopratttutto; la rappresentazione appartiene al soggetto.
L’io, soggettivamente, è gigantesco, ma dal punto di vista oggettivo è uno tra tantissimi. La sua morte equivale alla fine del mondo, alla fine del suo mondo.
La cortesia che si ha nei rapporti quotidiani, è una negazione convenzionale e sistematica dell’egoismo, e viene ad esso preferita: l’egoismo è così brutto che non lo si vuole vedere, pur sapendo che esiste.
Il fine dell’egoismo è il bellum omnium contra omnes, quindi si forma lo Stato che interviene per ristabilire l’ordine tra gli individui. L’egoismo è la più importante forza che l’impulso morale è chiamato a combattere. L’egoismo, come impulso originario, si contrappone a delle virtù. La giustizia è prima forza ad opporsi all’egoismo.
Alla virtù della carità si oppone invece la malevolenza o la animosità.
L’invidia è una delle fonti principali della malevolenza, che ha vari gradi e varie origine, che non approfondiremo. Dopo aver indagato tutte queste “affezioni”, a p. 569 Schopenauer si pone il problema di come possiamo trovare un “antidoto” all’egoismo, se è una molla così forte, innata, e comune a tutti gli uomini.
Queste risposte, come abbiamo ripetuto ottocento volte, non possono essere cercate nella morale religiosa, che non si basa su un autentico sentimento morale disinteressato, ma promette una ricompensa a chi si attiene alle sue leggi. Sta alla filosofia invece trovare una soluzione indipendente da tutte le interpretazioni mitiche e i dogmi religiosi.
A questo punto dobbiamo cercare di chiarire se si incontrino nell’esperienza effettivamente azioni di giustizia spontanea e disinteressata. Dobbiamo dedurre che sì, una volta ogni mille anni nella massa degli iniqui (e degli stronzi) incontriamo quella persona che agisce solo in vista del rispetto delle obbligazioni contratte con gli altri, e non pensano solo a fare la loro parte, ma si impegnano attivamente proprio perchè l’altro non subisca un torto. Ci sono le persone che prestano e rinunciano senza altro scopo che l’aiuto del prossimo.
Deduciamo che esiste quindi il concetto di aiuto disinteressato esiste effettivamente come fenomeno che ci sta di fronte e che possiamo analizzare. Possiamo procedere il discorso solo se ammettiamo questa realtà; altrimenti il discorso sulla morale rimarrebbe senza oggetto.
Quindi, se non sei d’accordo con Schopenauer su questo fatto, smetti di leggere e torna pure alla tua bluepill. Non passerai l’esame e mille sciagure si abbatteranno su di te.
Ma se invece convieni su questo punto - ti è rimasto un briciolo di speranza nel genere umano - continua pure e arriva alla fine del racconto.
Il criterio che rende un’azione morale è l’assenza di ogni motivazione egoistica.
Ciò posto, chiediamoci che cosa spinge gli individui ad azioni di questo tipo.
Prima di iniziare la dimostrazione dell’unica forza di impulsione morale possibile, vengono posti 9 postulati:
Da 3. risulta che il bene e il male alla base di ogni azione è o quello dell’agente stesso o quello di chi lo subisce.qualcun’altro implicato. Quando il bene a cui si mira è quello dell’agente, l’azione è egoistica, cioè ha un motivo interessato alla base. Questo vale:
C’è solo un caso il bene non è nel bene o nel proprio male: quello in cui il motivo ultimo di un’azione è nel bene di qualcun altro. In questa azione il motivo immediato deve essere il bene dell’altro: altrettanto immediato di quanto l’egoismo mi fa percepire il mio bene.
Ma com’è possibile che la volontà dell’altro muova immediatamente la mia volontà, cioè che sia il mio motivo diretto? L’altro deve diventare il fine ultimo della mia volontà. Questo presuppone che di fronte al suo male, io soffra con lui, cioè che io soffra il suo male come soffrirei il mio. Questo implica che io mi sia identificato con lui, cioè che annulli ogni differenza tra me e lui, differenza (vale la pena notarlo) su cui si basa tutto il mio egoismo. Ma poichè io non posso andare fisicamente dentro la pelle dell’altro, devo decidere di annullare la nostra differenza nella mia rappresentazione.
Questa è la compassione: la vera base di ogni giustizia spontanea e di ogni carità autentica.
La compassione è il fenomeno originario dell’etica, anche se si tratta di un fatto assolutamente misterioso, che può essere affrontato solo dalla metafisica e davanti al quale un approccio “fenomenologico” come quello usato finora può solo fermarsi. In questo fenomeno vediamo crollare il muro che ci separa dagli altri, che separa Io e Non-Io, che ci fa percepire la nostra individualità come distinta dal mondo. Ma questa è la parte metafisica più intrippata che affronteremo solo nell’ultima sezione, nell’appendice metafisica che Schopenauer ha aggiunto ma che nessuno gli aveva chiesto di aggiungere - mi sa che tra le altre cose non hanno accettato il suo testo anche per questo, anche se si tratta effettivamente della roba più figa.
Cerchiamo ora di capire come le azioni di giustizia spontanea e di carità sgorghino da questa forza che iniziamo ad intravedere, che non possiamo spiegare e che si mostra nella compassione.
Le azioni umane hanno 3 motivi fondamentali:
Posto che le azioni morali esistono, devono necessariamente derivare da uno di questi tre motivi.
Ma le azioni morali:
La partecipazione alla vita dell’altro è limitata al dolore; non è cioè eccitata allo stesso modo dal piacere. Questo perchè il dolore è una forza “positiva”, cioè è percepita immediatamente. Al contrario, il piacere è una forza negativa, data cioè dalla cessazione del dolore. In altre parole, bisogno e desiderio sono condizione di ogni godimento.
Per questo la sofferenza e il dolore dell’altro risvegliano la nostra partecipazione in modo naturale. L’uomo contento, in quanto tale, ci lascia abbastanza indifferenti. Ci rallegriamo del godimento degli altri solo perchè la loro sofferenza e privazione ci aveva prima rattristati.
Ma anche per noi stessi solo la sofferenza - di cui fa parte ogni mancanza - suscita la nostra attività; uno stato di appagamento ci lascia in una pigra quiete.
Nella compassione ci sono due gradi distinti che corrispondo alle due virtù cardinali:
La giustizia può essere riassunta nella formula neminem laedere, la carità con sed imo omnes iuvat, e insieme costituiscono il principio a cui mira ogni morale, come abbiamo detto già molte molte volte.
Ricordiamo che la compassione appartiene alla coscienza in modo essenziale ed è un fatto innegabile che non è determinato da dogmi, credenze, miti, religiosi, Kant, superstizioni, ecc. Siamo esseri naturalmente portati alla compassione.
Da queste due virtù, radicate nella compassione naturale, quindi facenti parte della natura umana, possiamo poi derivare tutte le altre.
Il primo grado, la giustizia, è quindi negativo, perchè mi trattiene. In primo luogo siamo tutti infatti portati a sbroccare, perchè le nostre sofferenze invadono immediatamente la nostra coscienza; in origine siamo tutti inclini alla violenza. Quando avrò visto una volta che un’azione ingiusta arreca sofferenza a qualcuno, la riflessione razionale la eleva al proposito di rispettare i diritti di ognuno sempre. Anche se la ragione non può essere l’unica fonte della condotta morale, è comunque utile per poter conservare l’immagine della sofferenza altrui e poterla richiamare al momento giusto; la ragione ci aiuta, in altre parole, a fissare dei principi con cui regolare il nostro agire. L’osservanza dei principi costituisce il dominio di sè. L’animale, invece, non ha capacità di avere propositi nè principi, cioè non ha dominio di sè, dunque non ha una moralità cosciente.
Anche la giustizia ha origine nella compassione; la giustizia comune tra gli uomini, quella delle buone maniere e ello Stato, non è che da un lato una sua contraffazione, dall’altro il frutto di una costrizione che non presuppone un agire morale.
L’ingiustizia consiste invece nel danneggiare qualcun altro. Il concetto di torto è positivo, e quello di diritto è negativo, e quest’ultimo indica le azioni che si possono compiere senza ledere gli altri, cioè senza far torto.
Questi due principi sono precedenti ad ogni legislazione positiva; esiste quindi un diritto puramente etico o di natura.
La giustizia è negativa: dice, cioè, “niente torto”. L’ente che assicura in modo coercitivo la protezione è in questo senso lo Stato, che deve proteggere gli individui gli uni dagli altri.
La giustizia è sempre qualitativamente dello stesso tipo, cioè è un torto fatto ad un altro nella sua libertà, nei suoi beni, nel suo onore. È invece molto diversa per quantità; può essere ciò, più grande o più piccolo. Lo stesso succede con la giustizia; e ciò può essere constatato nella vita reale come il livello di biasimo che un’azione ingiusta genere.
Esiste anche la doppia ingiustizia, che equivale al tradimento: quando cioè qualcuno si è obbligato su qualcosa con l’altro, ma oltre a non rispettare l’obbligo danneggia l’altro in ciò su cui si era obbligato.
Ma visto che si è parlato di obbligo, che cos’è il dovere? Il dovere è l’azione la cui omissione costituisce un torto; non è semplicemente un modo di agire lodevole. Quando mi sono impegnato a fare qualcosa per qualcuno, e non la faccio, avevo il dovere di farla. Ogni dovere è basata su un accordo.
Ci sono due modi per commettere ingiustizia:
L’astuzia è la costrizione mediante la motivazione. Ogni menzogna è uno strumento di ingiustizia; dunque la giustizia esige la veracità verso tutti.
Il secondo grado della compassione è quello positivo, quello, cioè, che mi motiva ad agire attivamente, e non solo mi trattiene dal danneggiare l’altro: la carità, che mi fa vivere come motivo morale immediato la sofferenza dell’altro.
La partecipazione istintiva alla sofferenza degli altri ci porta a compiere azioni morali, azione, cioè, prive di qualsiasi fine egoistico. Questo gesto presuppone che io mi sia identificato con l’altro, che la barriera tra Io e non-Io sia caduta, il suo dolore diventa così un motivo per me. Questo è un fenomeno misterioso, di cui la ragione non sa dare direttamente conto.
La differenza tra i caratteri è innata e inestirpabile. Kant ha chiarito per primo che alla base del carattere empirico sta il carattere intelligibile, cioè il modo di essere della cosa in sè di quel fenomeno, indipendente dalle forme a priori. La virtù per questo è innata.
Il principio di ragion sufficiente vale esclusivamente nel mondo della rappresentazione. Esiste in quattro forme:
Infatti, dal Mondo, ¶24:
“La quarta classe di rappresentazione stabilita nella dissertazione sul principio di ragion sufficiente dovrà servire come chiave per arrivare a conoscere l’essenza intima delle rappresentazioni della prima classe.”
L’etica di Schopenauer è sentimentalista (è un’etica basata sulla compassione) e potrebbe essere detta descrittiva, in quanto ha un approccio analitico (a priori).
In generale possiamo affermare che la filosofia di Schopenauer è immanente: non può spiegare il perchè il mondo sia così, fermandosi ai fatti dell’esperienza. In particolare non può spiegare il perchè del principio di ragione e della volontà. La filosofia deve tuttavia superare il principio di ragione - parte da un principio immediatamente noto, quello della volontà.
Il primo elemento centrale della sua filosofia è questo: l’etica dipende dal sentimento. Lo vedremo nella compassione.
Già il primo Schopenauer sosteneva che l’elemento morale si esprime attraverso la coscienza migliore, cioè quel principio che non può essere dedotto dalla ragione ed è espressione di ciò che sta oltre all’empirico. La coscienza migliore sarebbe nell’eternità e si contrappone alla coscienza empirica, che è nel tempo.
Dagli Scritti giovanili:
Il perfetto filosofo rappresenta in modo puro, teoreticamente, la coscienza migliore; il santo fa la stessa cosa sul piano pratico.
Vengono individuate due vie per la coscienza migliore, che non è altro che la volontà 1.0:
Provo a riordinare tutto.
Nel 1813 Schopenauer scrive Sulla quadruplice ragione del principio di ragion sufficiente. Il principio di ragion sufficiente, secondo qui ogni cosa ha una causa, è un principio che vale per il mondo fenomenico, e non può essere spiegato.
Infatti, negli Scritti giovanili leggiamo: “Tutto il filosofare erroneo ha la sua essenza nello spiegare il mondo in base al principio di ragion sufficiente”. Non possiamo spiegare la vera essenza di ciò che è in base a questo principio, che è un principio “di ragione”, e dunque legato alle forme a priori della conoscenza (spazio, tempo e causalità); ma possiamo spiegarci il mondo fenomenico. Il mondo fenomenico, dice Schopenauer, funziona secondo questo principio intoccabile, perchè è evidente.
Questa è una prima differenza importante con Kant, secondo il quale si poteva parlare del mondo solo all’interno del fenomeno, in quanto le forme a priori della conoscenza ci “relegano” a questo mondo, che è oggettivo ma frutto di una rappresentazione trascendentale. Se Kant ci parlava di come possiamo conoscere il mondo, emerge fin da subito il carattere mistico della filosofia di Schopenauer, per cui *esiste un altro mondo**.
Schopenauer, in disaccordo con Kant, sostiene che l’essere umano è al tempo stesso fenomeno e noumeno, in quanto si percepisce in modo immediato come volontà (noumeno), vera essenza di tutto ciò che è, all’interno dell’autocoscienza, ma si intuisce anche come fenomeno, in forma mediata dalle forme a priori.
Dal Par. 55 del Mondo:
“La volontà è la realtà prima ed originaria: la conoscenza è un puro epifenomeno, uno strumento di cui la volontà si serve per le sue manifestazioni. In seguito al sopraggiungere della conoscenza, l’uomo si rende conto di ciò che è, impara a conoscere il proprio carattere”
Spariamone un po’ sulla volontà:
Qui dobbiamo fare un passo indietro. Kant nella critica della ragion pura si era interrogato sull’origine della libertà, e nella Terza antinomia aveva constato l’impossibilità di conciliare il fatto che tutte le azioni fossero necessitate (e quindi non libere) e la libertà individuale, necessaria per seguire l’imperativo merdacategorico. Aveva cioè bisogno di un fondamento che coinciliasse la libertà noumenica con la causalità necessaria fenomenica. Questo fondamento viene rintracciato da Schopenauer nella volontà.
La volontà conosce se stessa attraverso la conoscenza (ragione): attraverso le rappresentazioni, ogni individuo scopre il suo carattere immutabile, che è l’essenza della sua volontà ed è ciò che muove tutte le sue azioni. Ma come vengono prodotte le azioni?
Queste sono il prodotto del carattere (espressione della volontà), mosso dai motivi. I motivi non godono di una loro autonomia ma semplicemente indirizzano la volontà. In virtù del principio di ragion sufficiente, se accettiamo che tutti gli effetti che esistono hanno una causa, ovvero che una causa agisce necessariamente producendo un determinato effetto, applicando questo principio anche alle nostre azioni dobbiamo accettare che tutte le nostre azioni vengono determinate necessariamente dai motivi esterni (es. motivo 1: sta crollando la scuola, allora esco dalla scuola; 2. mi sta antipatico Melchiorre, allora gli tiro un pugno). I motivi “combattono” tra loro e prevalgono sempre quelli più forti.
La nostra autocoscienza, dove ha sede la volontà, si sente libera di fare, affermando “io posso fare quello che voglio”; ma non può non volere quello che vuole; non dobbiamo confondere la volontà con il desiderio; alla fine siamo sempre costretti a fare un’unica scelta. Un altro elemento di difficoltà nell’accettare di essere necessitati nei nostri comportamenti, e quindi di esseri, è dato dai motivi, che non sono sempre chiari, neanche a noi stessi, e soprattutto negli esseri umani - a differenza che negli altri animali e nelle piante - vengono mediati dall’intelletto, cioè rappresentati in modo puramente astratto, e quello e il loro campo di battaglia, il luogo dove noi prendiamo le decisioni. Ma lì è tutto sfumato e non si capisce niente.
Per fare un esempio. Abbiamo detto che tutti gli esseri agiscono perchè sono mossi da determinate cause, che chiamiamo cause negli esseri inorganici, stimoli nelle piante, e motivi negli animali e negli uomini. Ma ci sono molte sfumature di capacità di rappresentazione, che partono dagli animali più elementari e trovano la loro massima capacità negli uomini, che hanno facoltà di rappresentazione più complessa : il cane si alza sempre per andare in cucina a prendere la bistecca che gli regala Marilù. Si alzera il lunedì, il martedì, il mercoledì sera, per prendersi la sua bistecca. Invece Giorgio, alla vista di una bistecca, non è detto che la prenderà; saranno presenti in lui diversi motivi: magari ha fame (motivo 1), ma magari è troppo impegnato a studiare per l’esame di filosofia morale e si sta cagando sotto (motivo 2), e non ha tempo di mangiare, ma magari c’è nonno a cena e non lo vediamo mai nonno allora vieni a mangiare con noi (motivo 3: c’è nonno), e chi più ne ha più ne metta; tutti questi motivi entreranno in contrasto, e il più forte prevarrà.
Quindi, negli animali i motivi sono mediati (e modificati) dalla conoscenza, cioè dalla rappresentazione, che sta tra volontà (impulso originario a cui non possiamo sottrarci) e l’azione. Se potessimo conoscere perfettamente carattere e motivi di una persona, potremmo predire tutte le sue azioni.
Se non accettiamo questa visione, pensando di essere del tutto liberi, non accettiamo il principio di ragion sufficiente; questo significa che le cose possano prodursi senza una causa; sosteniamo un liberum arbitrae indifferentiae. Come vedremo, questo tipo di libertà si dà solo nel noumeno, nel mondo della volontà non mediata e non frammentata dalle forme a priori.
Se accettiamo la libertà del volee, ogni atto dell’uomo diventa un miracolo inspiegabile.
Il corpo fisico è oggettivazione (o oggettità) della volontà. Dunque si può dire che la volontà è conoscenza a priori del corpo, mentre il corpo è conoscenza a posteriori della volontà.
Il mio corpo è la volontà oggettivata; tutto il mondo empirico è una oggettivazione inadeguata (perchè attraverso le forme a priori) della volontà.
Se astraiamo il corpo dalla rappresentazione (cioè dalle forme a priori della conoscenza) il corpo è soltanto la mia volontà. Ma anche tutto il resto è volontà - intendiamo corpo come corpo del mondo. Cioè che è conoscibile a posteriori è la traccia della cosa in sè. Il velo di Maya è l’illusione che ci fa credere di essere tanti Io separati da non-Io, quando facciamo parte di un unico grande tutto. Ma ci arriveremo.
Qui c’è una analogia con Schelling, in cui la natura è spirito visibile, mentre lo spirito è natura invisibile.
Atto di volontà e azione del corpo non sono in una relazione di causa e effetto. Sono la stessa cosa, ma una ci è data immediatamente, l’altra come intuizione dell’intelletto.
In questo di conoscenza Io e non-Io si fondono.
La volontà (nell’autocoscienza) è immediatezza, non viene conosciuta in senso intellettuale, ma è quanto di più immediato ogni essere umano prova. La conoscenza della volontà, per dirla in altre parole, non passa dalle forme a priori di spazio, tempo e causalità. In parte attraverso quella di tempo, in quanto noi conosciamo ciò che sentiamo per tutto il tempo in cui lo sentiamo.
Possiamo affermare che il soggettivo è immediato - e da questo deriva la nostra capacità di percepire il nostro vero essere come volontà- mentre l’oggettivo (il mondo, che è una nostra rappresentazione) è mediato dalle forme a priori.
La volontà , inoltre, dà unità:
Il concetto è astratto, discorsivo, determinato nel suo ambito, afferabile con la sola ragione, comunicabile con le parole, esaurito nella propria definizione.
L’idea è intuitiva, rappresenta un’infinità di singole cose. Può essere contemplata solo dal puro soggetto del conoscere, che è il tipo di conoscenza fuori dal principio di ragione sufficiente. Può essere comunicata solo in modo condizionato, cioè a ognuno secondo il proprio valore intellettuale.
L’idea è l’unità infranta nella pluralità (unitas ante rem), mentre il concetto è l’unità astratta dalla pluralità ricostituita. Dal concetto nulla può essere tolto mediante giudizi analitici. I concetti sono universalia post rem, la musica universalia ante rem, la realtà gli universalia in re.
La specie è il corrispettivo empirico dell’idea.
Nella volontà soggetto e oggetto non si distinguono chiaramente.
La vita è dolore perchè:
Ci sono 2 tipi di egoismo:
egoismo pratico, per cui ognuno persegue i suoi fini. Questo proviene dall’autocoscienza e quindi direttamente dalla volontà immediata, che dice “io voglio”.
egoismo teorico (solipsismo), per cui ogni corpo è fantasma è percepiamo erroneamente il nostro Io come opposto a tanti non-Io, quando in realtà facciamo tutti parte della stessa volontà in modo indistinto.