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secondo semestre 2024
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Spinoza, Etica, 1963, Bompiani
Buongiorno ragazzi, la filosofia moderna… si bellissima grazie… grande ciao. Bel corso devo dire, dai ragazzi mi raccomando studiate e informatevi.
Si vede ma non si sente, Gesù è qui presente.
Dispositivi concettuali che ci serviranno nel corso:
Oggetto della storia della filosofia è la verita’ storiografica, che
presuppone studio del contesto e circostanze (dibattito fitto) come
strumento per capire i meccanismi teorici (strutture
logico-argomentative) negli scritti filosofici per valutare la portata
filosofica della struttura argomentativa.
Con Cartesio prendono forma idee e convinzioni che segnano un cambio dello spirito del tempo - un cambio di atmosfera culturale, esigenze, problemi e strumenti per risolverli. Inizio modernità si basa su una critica a qualsiasi autorità che non sia quella della ragione, con una radicale affermazione della libertà di pensiero:
1543:
Fine della modernità si ha con la morte di Hegel (sistema autofondato: ragione come punto di riferimento ultimo del reale)
Le scienze naturali abbandonano il finalismo (tranne Leibniz) – a partire da meccanismi che producono effetti intermedi che si compiono nel fine ultimo, l’ alternativa è il meccanicismo, inteso come lo studio delle cause efficienti unito allo studio di ciò che queste cause producono.
La matematizzazione della natura coincide con una sua conoscenza quantitativa; il metodo scientifico verifica di ipotesi di partenza, la natura viene studiata in senso sperimentale.
Perché non ha iniziato da Bruno, Telesio? Il motivo è la nascita, nell’epoca di cui iniziamo a parlare oggi, dello Zeitgeist tipicamente moderno. Con Cartesio si compie la rottura con la filosofia classica (platonico-aristotelica) - e la permanenza di categorie esplicative legate ad una filosofia vecchia.
La modernità nasce con questo stacco, come una nuova maniera di intendere lo studio dei fenomeni naturali grazie a nuovi strumenti euristici e logici dell’indagine filosofica, che trovano una prima formulazione nella filosofia cartesiana.
Cartesio introduce una serie di novità che segneranno l’apertura di una nuova epoca incommensurabile a quelle precedenti. È un dotto polistore dai molteplici interessi disciplinare. È conteso tra gli studiosi: i matematici dicono che sia un matematico, i fisici (naturalisti) dicono che sia un fisico, i filosofi il filosofo. Con Cartesio siamo in una fase ancora incipiente della prospettiva filosofica della modernità.
Cartesio viene da una famiglia borghese, il padre esercita l’avvocatura, la madre muore un anno dopo la sua nascita. Come ogni gagno di buona famiglia viene mandato a studiare dai gesuiti.
In questo collegio si studia:
Nel collegio di La Flèche conosce personaggi che lo accompagneranno
per tutta la vita, tra cui Merin Mersenne, colui che
farà circolare le Meditazioni Metafisiche;
secondo una pratica prettamente moderna, quando questo
testo viene fatto circolare, vengono chieste delle
repliche, che sono corredate all’edizione finale.
Si delinea così l’idea di un sapere come frutto di un’opera
collettiva; una modalità orientata al
pluralismo, l’idea che esprime la particolare
concezione del sapere che non è mai frutto del genio di un solo uomo, ma
richiede la collaborazione di più ingegni. È un’accezione assolutamente
diversa da quella contemporanea di pluralismo
(valoriale): pluralismo nel ‘700 significa necessità di una formulazione
democratica, convergenza di intenti nella formulazione di un
sapere.
Questo pluralismo è contrapposto all’epoca all’egoismo,
inteso come la patologia di colui il quale pone il primo io a unico
giudice delle proprie credenze. Egoismo può essere logico, estetico,
morale. Nel ’700 c’è una grande passione per questo tipo di
classificazioni di questioni filosofiche.
I ricordi di Cartesio sul collegio di La Flèche sono ricordi segnati
da una profonda insofferenza verso una formazione
libresca, formazione difettata in quanto fa diventare la
filosofia una complicazione tecnica, una sofisticheria di scuola, che
compromettono il suo obiettivo principale, quello di dirci qualcosa
sulla vita e sul mondo.
Questa insofferenza è manifestata senza remore da Cartesio.
I grandi autori danno quasi sempre origine a una scolastica (in senso
peripatetico), cioè un manipolo di ripetitori, riformulatori, profeti
del maestro.
Scolastica aristotelica, tomista, cartesiana, kantiana, hegeliana. Oggi
c’è una forte scolastica analitica, che aumenta il livello di tecnicismo
e raffinatezza dello strumentario tecnico, a discapito dell’originalità.
Questo avviene in tutte le stagioni filosofiche. Spesso si esce da
questi tecnicismi quando si smuove qualcosa fuori dalla
filosofia, cioè le discipline con cui essa intrattiene un rapporto
privilegiato, come l’arte e le scienze. In questo senso, possiamo
pensare alla filosofia come meta-riflessione.
Nel caso di Cartesio, a smuovere le acque è la rivoluzione scientifica. Quando i filosofi naturali accantonano le quattro cause aristoteliche per spiegare i fenomeni naturali, la scienza si costituisce, e la filosofia si trova costretta a ripensare i propri presupposti.
La formazione di Cartesio a La Flèche è dotta, erudita, libresca, e
Cartesio fugge, arruolandosi prima nell’esercito del principe di Orange
Maurizio di Nassau, poi tra le truppe del duca di Baviera, vivendo come
soldato. Dopo l’esperienza militare approda in Olanda,
terra di grande tolleranza, in cui convergevano tutti
gli esiliati di tutti i paesi europei: gli ugonotti dalla Francia, gli
eretici, i libertini, eccetera.
L’Olanda diventa un vivacissimo centro di scambio di idee, in cui è
consentito professare tesi che non sarebbero state ammesse all’interno
delle consuetudini culturali di altri paesi. È in Olanda che Cartesio
compone la maggior parte delle sue opere.
Nel Discorso sul Metodo (1637) c’è una riflessione autobiografica sulla propria formazione. Il Discorso sul Metodo è pensato come una introduzione alle Meteore, Diottrica, Geometria. Cartesio compone le sue opere nello stile della meditazione interiore, un cammino introspettivo attraverso le fasi di sviluppo della propria personalità intellettuale.
Adrienne Baillet ha scritto un testo sulla vita di Cartesio, la Vita del Signor Descartes, un racconto sulla vita di Cartesio. Cartesio affida a Baillet il compito di redigere una sua biografia. È un testo che attinge a fonti non più disponibili, e per questo molto prezioso.
Compaiono in Cartesio tutti i tratti distintivi della nuova epoca filosofica.
Questi sono:
In questo senso, la filosofia di Cartesio è essenzialmente democratica, in quanto ha un punto di partenza democratico ed inclusivo. La ragione è distribuita in uguale misura in tutti gli uomini. La ragione appartiene loro per essenza, e dunque è un bene comune.
Il buon senso è la cosa del mondo meglio ripartita. (inizio del discorso sul metodo).
L’espressione lume naturale viene considerata in aperta polemica con il concetto di lume naturale agostiniano. Viene usata la terminologia che rimanda direttamente all’ispirazione agostiniana: la scintilla di Dio che è dentro di noi e ci rende simili a lui, di cui sono dotati gli uomini come esseri razionali. Il lume naturale cartesiano è invece una capacità naturale del tutto secolarizzata, insita alla natura umana.
È una luce intesa come faro, principio di orientamento che non è un dono che acquisisco, ma che fa parte della mia stessa natura. Se noi ci sbagliamo, pur avendo lume naturale, è perché non ci serviamo correttamente della nostra ragione. La ragione è uguale in tutti gli uomini, ma non tutti gli uomini se ne servono in maniera corretta. Il metodo è la via che mi conduce alla verità attraverso il corretto uso della ragione.
Con il Discorso sul Metodo viene introdotto un nuovo genere filosofico: ci saranno, nei secoli successivi, numerosi discorsi sul metodo, numerosi percorsi proposti che la ragione deve percorrere per arrivare alla conoscenza. L’immagine del metodo sarà ripresa anche da Kant, ma ritornerà come topos in tutte le trattazioni filosofiche moderne.
Cos’è un metodo? Una serie di regole e principi a cui la ragione deve conformarsi, ad directionem ingenii, come dicevano le Regole per la conduzione dell’intelletto - una bozza provvisoria - Cartesio aveva individuato 21 regole per la guida dell’intelletto.
Nel discorso sul metodo, le regole sono ridotte a 4:
La 2 e la 3 non bisogna chiamarle analisi e sintesi, perché sono parole che appartengono ad una terminologia posteriore a quella cartesiana. Pertanto la terminologia usata nel manuale è desueta.
Nella regola dell’evidenza è riassunto lo spirito dell’opera
cartesiana.
Evidente è un termine tecnico della filosofia
cartesiana, e significa ‘chiaro e distinto’. La chiarezza e la
distinzione richiamano la metafora della luce delle prime regole del
Discorso sul Metodo: la chiarezza, ci dice Cartesio, è
gettar luce. Vedo qualcosa chiaramente quando lo vedo in un
ambiente sufficientemente illuminato.
La distinzione è la capacità di non confondere questa cosa con
qualcos’altro.
L’occhio della mente guarda i propri contenuti, le proprie idee.
L’oscurità è data dal fatto che le idee non arrivano pure
all’interno della mente, ma sono passate da una serie di
concezioni infarcite di pregiudizi.
Il pregiudizio è uno dei più grandi obiettivi critici della modernità.
Gli idòla di Bacone sono delle immagini precostituite, dei
pregiudizi, che contaminano la nostra produzione di idee.
Cartesio individua e critica 2 tipi di pregiudizi:
Il dubbio è lo strumento della prima regola del
metodo. È lo strumento per verificare che il fondamento del nostro
assenso alle credenze sia razionale. Bisogna sottoporre a dubbio
tutte le nostre credenze, perché solo grazie al dubbio possiamo
capire perché diamo l’assenso a quel tipo di credenza, ossia se
lo facciamo per un pregiudizio o in virtù della ragione.
La ragione può anche confermare i nostri pregiudizi (che possono essere
positivi o negativi). Il pregiudizio non è necessariamente falso, ma è
un giudizio avventato; è qualcosa che ritengo vero o falso non sulla
base della ragione. Il pregiudizio può essere vero: posso ritenere per
pregiudizio che la somma degli angoli interni di un triangolo sia 180
gradi; posso assumerlo per un principio di autorità.
Questa è una pratica di buon senso. Questo è il modello ispirato alle pratiche matematiche: risolvo prima i problemi più semplici, poi passo a quelli complessi.
Cartesio qui ci sta dicendo che il modello di certezza che ha in mente è una certezza di tipo intuitivo: cosa vuol dire risolvere prima i problemi semplici e poi quelli complessi? Significa ricondurre il problema complesso a modelli di evidenza. L’evidenza è sempre una conoscenza di tipo intuitivo, parliamo di intuizione della certezza. Io ho un’evidenza intuitiva di un problema semplice, per esempio la risoluzione di un’addizione in una parentesi tonda.
Risolvere problemi complessi mettere insieme catene di intuizione,
trasferendo la certezza data dalla singolarità dei problemi
semplici, sulla totalità della catena di intuizioni.
Si tratta di ricondurre problemi complessi a problemi semplici
ed evidenti.
Ripetere i passaggi di scomposizione e ricomposizione per controllare di non aver dimenticato nulla.
Due punti fondamentali che ci portiamo a casa dai 4 criteri di evidenza:
L’elemento di dirompente novità era che all’epoca la strumentazione
logica era quella scolastica, cioè sillogistica apodittica. Per gli
scolastici, se un enunciato rientra in una delle 50x possibilità di
sillogismi, allora poteva essere vero.
Ma la certezza della scienza non si ottiene attraverso i
sillogismi, in quanto non permette di fare una cosa che per
Cartesio corrisponde al vero scopo della scienza: scoprire nuove
verità.
Il sillogismo permette invece solo di chiarire ulteriormente verità già
note. La conoscenza che acquisisco nella conclusione del sillogismo era
implicita nelle premesse; la validità delle scoperte
scientifiche invece dipende dalla solidità con cui sono costruite. In
questo senso Cartesio parla dell’edificio della
conoscenza.
La scienza come conoscenza certa va concepita come un edificio, che è solido a due condizioni:
Questa concezione richiede di spostarsi dalla teoria della scienza
alla pratica della scienza. Cartesio non vuole fondare una
meta-filosofia che insegni ai dotti a pensare, ma il metodo è il
risultato della sua personale delusione nei confronti del sapere, dal
bisogno di cancellare tutto ciò che si rende conto di aver appreso in
maniera passiva.
I ricordi di Cartesio sul collegio di La Flèche sono ricordi segnati da
una profonda insofferenza verso una formazione
libresca, formazione difettata in quanto fa diventare la
filosofia una complicazione tecnica, una sofisticheria di scuola, che
compromettono il suo obiettivo principale, quello di dirci qualcosa
sulla vita e sul mondo. Questa insofferenza è manifestata senza remore
da Cartesio.
Vogliamo ridirlo? E allora ridiciamolo:
Il buon senso è la cosa del mondo meglio ripartita. (inizio del discorso sul metodo).
“Ego sum, qua (res) cogitans”, cioè esisto come sostanza pensante.
Si arriverà a teorizzare che il pensiero e l’esistenza sono
la stessa cosa: il pensiero è qualcosa di ontologicamente
determinato.
In termini husserliani, il residuo non ulteriormente riducibile
è l’esistenza del soggetto.
I Saggi di Montaigne hanno una carica polemica, e una apertura alla pluralità, ai punti di vista.
Nella Fenomenologia dello Spirito un intero capitolo è dedicato allo Scetticismo, come punto di cristallizzazione dello Spirito.
Consigli di lettura:
L’elemento soggettivistico è un elemento
della modalità.
Il soggettivismo è un elemento caratteristico della modernità
determinato da una serie di cambiamenti che segnano l’epoca moderna.
Il primo elemento del soggettivismo è la separazione tra soggetto e mondo, la prospettiva che nelle teorie epistemologiche, etiche, ecc. vede contrapposti un soggetto un mondo come due elementi trascendenti. L’origine di questa separazione si trova in Cartesio, e avviene con una mossa che è l’introduzione delle idee all’interno della mente degli uomini. Nella filosofia moderna il vero problema diventa capire come le idee che stanno nelle nostre menti sono in grado di dirci qualcosa di un mondo trascendente, estraneo al soggetto
Questo problema prima non esisteva, perché nella metafisica aristotelico-platonica la corrispondenza tra le idee e le cose non si presenta come un problema, questo secondo le concezioni:
Con Cartesio questo equilibrio si rompe.
Abbiamo da un lato il soggetto che dispone delle idee,
che sono unicamente un contenuto di pensiero; e dall’altro le
cose, che sono delle realizzazioni oggettive di essenze che non
potrebbero sussistere al di fuori di quelle cose.
Manca uno spazio di oggettività cui attingono le
singole esistenze e le menti degli uomini.
In che misura c’è bisogno di una mente che pensi le idee perché queste possano sussistere?
Questo modo di pensare il problema si chiama Way of Ideas,
ed è stata teorizzata all’interno della tradizione di studi lockiani da
John Yolton. A un certo punto, con l’introduzione delle idee
nella mente dell’uomo, si crea una sorta di cortina che separa il
soggetto dall’oggetto trascendente. Ogni tentativo di questo
tipo è sempre mediato da una rappresentazioni. Le rappresentazioni sono
uno schermo invalicabile, in quanto l’unico linguaggio di cui il
soggetto dispone che è di tipo rappresentativo.
Il problema della deduzione trascendentale è questo:
riuscire a dedurre, a legittimare, la pretesa delle nostre
rappresentazioni di riferirsi alle cose; alla luce del fatto che manca
un canale diretto immediato di rappresentazione tra il soggetto e il
mondo.
Ma perché manca questo canale? Perché Cartesio con la sua idea di rappresentazione del sapere chiude il soggetto in una condizione solipsistica. Il soggetto è isolato dal mondo, non ha nessuno strumento per garantire la giustezza dei propri giudizi, perché il mondo gli è trascendente. C’è bisogno di trovare un tramite che verifichi la prima regola, cioè che tutto ciò che mi è evidente sia anche vero.
Gli enti che popolano l’universo cartesiano sono di due specie: estensione e pensiero, res cogitans e res extensa - questi due baluardi del dualismo cartesiano rappresentano un momento di svolta della filosofia. Quando parliamo di dualismo intendiamo delle caratteristiche definite da Cartesio.
Mentre le res cogitantes sono individuali, e ogni mente è
una sostanza pensante, l’estensione o materia è unica
(ciò che è esteso è sempre anche materiale), e i corpi non sono sostanza
in se stesse, ma sono come le onde del mare; i corpi non sono
che configurazioni particolari di questa sostanza estesa, ma non sono
sostanze in se stesse.
Cartesio si servirà di questa teoria per spiegare perché i corpi
periscono e le anime no. La materia in quanto tale non perisce; ma i
corpi sono configurazioni contingenti dell’unica materia, dunque
periscono.
La sostanza sussiste di per sé, cioè è causa sui. La sostanza in senso proprio, cioè, è soltanto Dio, mentre le sostanze create, dice Cartesio, sono per analogia: anch’esse non hanno bisogno di altro, fatta eccezione per il fatto che sono state create. Sono sostanze create e dunque finite. C’è quindi la sostanza eminente, Dio, e la pluralità delle sostanze create. Le sostanze in quanto tali permangono per se stesse.
Lo spazio del mentale è semplice, inesteso, incorruttibile, e per esso non valgono le stesse leggi del meccanicismo che valgono nel mondo materiale. Questa distinzione ha come obiettivo filosofico quello di preservare per il soggetto uno spazio di libertà; se io spiego tutto il reale sui principi di interazione meccanica tra le parti, io escludo qualsiasi spazio di libertà individuale, escludo la libertas indifferentiae, il libero arbitrio. Una delle caratteristiche principali dell’essere umano che vuole elevarsi come specie, cioè con una responsabilità morale. Questo è ciò che Cartesio desidera conservare. Per poter conservare uno spazio di moralità devo riservare per gli esseri umani uno spazio non riducibile alla necessità deterministica del mondo naturale.
Infatti per Cartesio solo gli esseri umani dispongono della res cogitans. Gli animali sono automi, esattamente ciò che sarebbe un uomo se non avesse la ragione. Gli animali non hanno anima, sono composizioni materiali particolarmente raffinate che seguono le leggi meccaniche della natura. Nell’uomo c’è una componente aggiuntiva che lo eleva al di sopra del mondo delle cose finite. Questa componente consente all’uomo di conoscere il mondo, distinguere il bene dal male, il vero dal falso. Interpretiamo i comportamenti degli animali sulla base di nostre categorie; ma per poter conoscere il mondo materiale ho bisogno della ragione.
Cartesio dimostra ciò con due esempi (entrambi nella Seconda
Meditazione).
Il primo è l’esempio della cera: perché io posso conoscere e gli animali
non possono conoscere? Facciamo un esempio di un tipo di conoscenza
basilare. Io ho di fronte a me una candela accesa, e la candela a un
certo punto si scioglie, trasformandosi in un ammasso informe di cera.
Io non ho nessun dubbio che quella cera è la stessa cera della candela,
ma ha cambiato forma.
Allo stesso modo, guardo fuori dalla finestra e vedo degli uomini
passare, e dico: tutti sono vestiti “da pioggia”. Sono conoscenze
sensibili: da un lato ho visto la cera cambiare forma, dall’altro vedo i
passanti vestiti da pioggia. Mi chiedo: mi bastano i sensi per
formulare il giudizio che ho formulato?. Secondo Cartesio
no. Se ci attenessimo alle informazioni che ricaviamo dai
sensi, abbiamo un oggetto e delle qualità che si riferiscono
all’oggetto. Nell’esempio della pioggia, se io mi attenessi ai sensi
direi che vedo passare dei cappelli, degli ombrelli, sotto i quali
immagino che passino degli uomini, visto che non ho mai visto
cappelli andare in giro da soli.
In entrambi i casi, quella che è una conoscenza mediata da una componente intellettuale; entra in gioco il giudizio come strumento di una facoltà intellettuale. Entra in gioco l’intellettuale, che mette insieme le informazioni dei sensi e compone un’esperienza. L’intelletto mi fa vedere da una prima a una seconda configurazione una modificazione dell’estensione; l’intelletto è l’unico organo in grado di percepire la continuità tra le due configurazione, e ciò gli è possibile grazie ad un’idea innata che possiedo e che permette questa facoltà, che è l’idea innata di estensione.
Con Cartesio si introduce una concezione di filosofia che si chiama volontarismo teologico: il Dio di Cartesio è volontarista, perché sulla base del proprio arbitrio stabilisce cosa è bene e cosa è male, cosa è giusto e cosa è sbagliato. Il vero non è in sé, ma il buono è tale perché Dio lo vuole. Cartesio non ammette l’esistenza di verità eterne, pre-esistenti alla creazione.
Giudizio e intelletto sono più o meno considerate due facoltà equipollenti. Io sbaglio quando volontariamente dò l’assenso a un giudizio, senza verificare che l’intelletto abbia applicato il metodo, cioè abbia sgombrato il campo da ogni dubbio.
Dio crea res cogitans e res extensa, operando su una materia imperfetta. Nella tradizione della creazione c’è sempre una caduta, una perdita di perfezione, che si può tradurre in una imperfezione nella macchina perfetta di Dio. Ci sono dei casi in cui la macchina non funziona: un esempio è l’idropico, quello che sente sempre l’esigenza di bere, fino a quando l’esigenza di acqua per quel corpo ne determina la morte. Cartesio si chiede come è possibile che un corpo fatto per funzionare in un determinato modo mandi messaggi che vanno per il suo deperimento. Il corpo come la mente umana possono così risultare imperfetti, e Dio non può che guardare la natura che fa il suo corso.
Il modello di emanazione plotiniana è un modello immanentistico, che in filosofia moderna si ha in tutti quegli autori in cui si ha una sorta di panteismo, in cui c’è una manifestazione di realtà prima. Nel modello cristiano la creazione invece indica sempre uno scarto tra il creato e la creatura.
Quindi vabbè, dicevamo la cera, un intervento del giudizio dell’intelletto, che subentra persino in una conoscenza sensibile che pensavo di poter attribuire esclusivamente ai sensi. Questo porta Cartesio ad affermare che per quanto noi possiamo affermare di conoscere i corpi meglio delle anime, la conoscenza che abbiamo dei corpi, se affidata al solo corpo, non ci consente di giungere alle conoscenze che pensiamo di avere, perché anche in questo processo noi riveliamo la nostra natura pensante: in questo senso noi conosciamo prima l’anima e ci riconosciamo anzitutto come enti pensanti.
Una volta che ho ottenuto il risultato della mia esistenza, devo però trovare un ponte a ciò che è fuori di me.
Cogito ergo sum non è un sillogismo. L’ego cogito è una intuizione immediatamente evidente: quando penso so che sono, e quando sono so che penso. Essere e pensare sono la stessa cosa: la vera traduzione dell’espressione latina sarebbe: penso: sono!. Sottolinea il carattere di intuizione, immediato, di questa consapevolezza. Il soggetto quindi è consapevole di pensare, di pensare le idee.
Le idee di Cartesio sono contenuti di pensiero. Usa idea per riferirsi a tutti i contenuti dello spirito, dice Cartesio. Cartesio non concepisce un pensare senza idee, e non concepisce che la mente possa smettere di pensare. La mente pensa sempre in quanto il pensiero è la sua attività essenziale. Le idee sono l’unica altra cosa di cui il soggetto è certo, oltre alla certezza di sé come sostanza pensante.
È dunque dalle idee che Cartesio parte per cercare di raggiungere il mondo, che potrebbe ancora essere una produzione onirica. Quindi procede organizzando le idee che sono nella mente secondo tipologie.
Compaiono in Cartesio tutti i tratti distintivi della nuova epoca
filosofica.
Il più importante è rifiuto del principio di autorità e
della tradizione libresca. Bisogno di affrancarsi da una formazione
concepita come raccolta di una serie di credenze stabilite da altri. Ma
c’è un altro modo per esplorare le idee; non un’indagine genetica ma
un’indagine ontologica. Studio ontologico delle idee significa capire
cosa sono le idee rispetto alla classificazione degli
enti: sostanze, accidenti, relazioni… cosa sono?
Rispondiamo. Secondo la loro natura ontologica, le idee hanno una realtà formale e una realtà oggettiva (effettiva)
Realtà formale: idee sono tutte diverse Non sono sostanze, le idee, perché hanno bisogno di una mente per essere pensate (non sono mica Platone!), ma sono modificazioni di una sostanza che è il pensiero. Quanto alla loro realtà formale, cioè quanto sono per essenza, le idee sono delle modificazioni della sostanza pensante; sono le onde del mare.
Realtà oggettiva (effettiva): le idee sono tutte uguali Quanto alla loro realtà oggettiva, cioè quanto alla realtà del modo in cui gli oggetti si danno nelle idee, ossia quanto ciò che mi rappresentano, ogni idea ha una realtà legata alla realtà dell’ente che rappresenta. La realtà oggettiva è la realtà degli oggetti che entrano nella mente rispetto alle idee.
Francisco Suarez è uno dei tardi scolastici. Sostiene che la
distinzione concerne solo la natura ontologica
delle idee.
Nell’ontologia scolastica invece la distinzione tra realtà formale e
oggettiva riguardava tutti gli oggetti. Quanto alla realtà formale, le
idee sono delle modificazioni della sostanza pensante. Sono gli
accidenti di una sostanza che è il pensiero. Le idee
sono tutte uguali, cioè sono tutte modificazioni di una stessa sostanza.
La realtà oggettiva concerne il modo in cui gli
oggetti entrano nella mente attraverso la mediazione delle
idee.
Nella Dissertazione del ’70 Kant introduce la distinzione
all’interno della nozione di idea che per noi oggi è consueta, ma non
possiamo spiegare la teoria di Cartesio in termini kantiani.
Per Kant, c’è una materia e una forma delle
rappresentazioni. Fino a Kant le idee non sono una materia che
deve essere informata da una forma - nella filosofia trascendentale le
forme a priori daranno forma a una materia data.
La mente di Cartesio è invece capace di cogliere delle modificazioni, che stanno al sostrato come suoi accidenti. Secondo la realtà oggettiva le idee sono diverse le une dalle altre, e riproducono la gerarchia degli esseri che sta nella natura. Esempio: l’idea di cane ha una realtà meno oggettiva dell’idea di triangolo, che a sua volta ha una realtà oggettiva meno perfetta della realtà di Dio.
Nelle idee avventizie la loro realtà formale è quella di essere modificazioni originate dal contatto con qualcosa che esiste fuori dalla mente. Questo contatto determina la realtà oggettiva dell’idea. Mi formo l’idea di cane perché nel sensibile ho esperienza di un cane.
Ma qual’è lo statuto dell’idea di Dio? È un’idea innata o è una sorta di autoillusione della ragione, che scambia per innata un’idea fittizia? L’idea di Dio è forse una composizione arbitraria della mente, frutto del potere combinatorio che la mente possiede e grazie abbiamo idee di cose che non si sono mai date nell’esperienza?
Polemica con Aristotele: la concezione della materia è tale che essa non è riducibile a pure potenzialità che richiede di essere determinata. La materia è un principio che non è soltanto logicamente separabile dalla forma, ma è realmente separato dalla sostanza pensante. Per Aristotele l’anima è separabile dal corpo soltanto attraverso una astrazione logica, perché ha con il corpo lo stesso rapporto della forma con la materia.
Polemica del modello platonico: immagine del nocchiero nel vascello. L’anima guida il corpo come un nocchiero e il vascello. L’anima porta il corpo verso il mondo delle idee, è in grado di abitare un corpo ricordando il mondo delle idee. In questo modello l’anima sta nel corpo ed ha con esso un rapporto di estrinsecità. L’anima osserva il proprio corpo dall’esterno, è distinta. Ma Cartesio dice: se la chiglia del vascello si rompe, il nocchiero non sente dolore; l’anima non sente il corpo, ma osserva dall’esterno come non coinvolta quello che accade nel corpo.
Nel caso dell’unità sostanziale cartesiana, la connessione tra i due elementi metafisicamente separati ma antropologicamente consente di comunicare. L’anima sente il corpo, il corpo recepisce direttamente le modificazioni dell’anima. Nelle Meditazioni questa contraddizioni è spiegata in termini funzionalistici, cioè finalistici: lo scopo da realizzare è preservare l’unità dell’unità sostanziale. Questa è la parte meno rigorosa, è evidentemente un argomento debole.
Nel 1649, nelle Passioni dell’anima, Cartesio tenta una
spiegazione fisiologica del rapporto di interdipendenza tra
anima e corpo. Il punto di contatto tra res cogitans e res
extensa si trova nella ghiandola pineale, che si trova
tra i due emisferi. Questa sarebbe l’unico elemento non simmetrico
all’interno del cervello degli esseri umani. La ghiandola pineale ha una
membrana esterna estremamente sottile e sensibile che consente la
trasmissione delle informazioni nei due versi corpo-anima anima-corpo;
questa comunicazione si serve dei veicoli che si chiamano
spiriti animali.
Questi sono parti molto rarefatte di materia che scorrono
all’interno dei nervi. Hanno la funzione di trasportare le
informazioni dagli organi di senso alle estremità di questi organi, dove
le sensazioni si producono da fisicità a idea.
Questo tentativo esplicativo è significativo nella misura in cui Cartesio persegue l’ideale moderno della descrizione quantitativa matematizzabile a tutti gli ambiti della natura; ogni ambito del reale inizia a essere pensato come indagabile grazie alle scienze naturali. Il funzionamento meccanicistico della natura viene applicato alla macchina umana. I movimenti degli spiriti animali seguono la causalità della natura.
L’anima con le proprie idee può mettere in vibrazione la membrana della ghiandola pineale, facendo partire gli spiriti animali che scorrono nei nervi e producono le reazioni fisiche che noi compiamo tutte le volte che noi imponiamo qualcosa al nostro corpo: così funzionano tutte le volizioni. Io ho un’idea che attraverso il movimento degli spiriti animali determina il movimento del mio corpo, cioè il mio atto.
L’origine delle volizioni e dei desideri si sottrae alle leggi
meccanicistiche del movimento.
Questo modello di rapporto tra anima e corpo si chiama
influssionismo diretto.
La storia della filosofia moderna è una lunga nota a piè di pagina al
dualismo cartesiano, irrisolto, incompiuto e insoddisfacente.
I filosofi d’età cartesiana hanno come primo obiettivo correggere
Cartesio su questa cavolatina della ghiandola pineale.
Le soluzioni vanno o nella soluzione di dimidiare il dualismo, rinunciando alla sostanza estesa, o alla sostanza pensante; prospettive cioè o di tipo spiritualistico o di tipo materialistico, con una diffusione capillare.
Considerare la sostanza pensante un epifenomeno della sostanza materiale (Leibniz); concepire la sostanza come un sostrato su cui si delineano le varie determinazioni (Spinoza); rinunciare alla possibilità di affermare qualcosa circa la natura ultima degli enti (cautela metafisica), prospettiva che sposta la filosofia dalla prospettiva fondativa delle filosofie dogmatiche, verso un obiettivo pragmatico. Nota che i dogmatici hanno delle teorie positive rispetto alla natura del reale.
Nel corso seguirà questa spartizione:
Dio:
La morale non può essere una scienza esatta. La
morale di Cartesio rimane una morale provvisoria, una
morale che guarda a come si può vivere una vita migliore possibile; ma
sono regole di buon senso, come non essere di detrimento a sé o agli
altri; non è una fondazione che ci permette di sapere cos’è bene e cos’è
male.
Il bene e il male sono sempre legate al modo in cui rispondo per
interazione le due parti dell’individuo.
Cartesio non arriverà mai a una vera e propria scienza morale: perché non è possibile arrivare a un sapere matematico certo in ambito morale. I valori che orientano lo spazio della moralità sono troppo mutevoli come sono mutevoli le azioni degli uomini.
Nel caso della morale io non ho un metodo, una serie di regole che mi portano a distinguere.
Abbiamo concluso Cartesio: riassumiamo.
Cartesio è il rappresentante delle nuove riflessioni introdotte nella
filosofia moderna. Riflessioni che consistono nell’esigenza di una
fondazione del sapere su basi oggettive, su fondamenta
universali necessarie. Questa fondazione si radica all’interno
della capacità razionale del soggetto. La ragione non è solo una
facoltà, ma una determinazione metafisica del soggetto;
la ragione è una sostanza, quindi appartiene a un
dominio ontologico peculiare agli esseri razionali. Cartesio introduce,
sulla base della affermazione per cui ciò che è conosciuto
chiaramente e distintamente sussiste anche separatamente, un dualismo
metafisico.
Un dualismo delle sostanze che ha la funzione di mantenere appagate le due esigenze della filosofia:
Il problema di questo dualismo e della fondazione del sapere nell’individualità del soggetto razionale è duplice:
La filosofia cartesiana è quella che nella modernità dà luogo alla
scolastica più nutrita; la scuola dei cartesiani (sfumature
interne) è una scuola potente, che lascia percepire la sua
presenza fino ad anni tardi della modernità.
La circolazione delle opere cartesiane è immediata. Uno dei tratti
peculiari della cultura moderna è la dimensione pubblica del
sapere. La diffusione delle opere avviene
grazie all’istituzione di enti deputati alla diffusione del sapere al di
fuori dei circuiti ufficiali delle università; tra questi enti troviamo
le accademie dei dotti.
Le accademie sono istituzioni che non fanno capo a nessuna autorità,
quindi circolazione del sapere può mettersi a riparo da censure.
L’esempio più celebre di un cenacolo che ha grande estensione e che
riguarda dotti di tutta Europa è la République des Lettres: una
repubblica sovranazionale di dotti che scrivono nelle rispettive lingue
nazionali. Uno scambio di idee senza far capo a nessuna autorità locale.
Würstel dotti incarnano l’ideale moderno dell’uomo cosmopolita,
cives mundi, dell’uomo che non so riconosce come cittadino di
un paese determinato.
Questa circolazione dei testi che non passa per vie ufficiali conosce
una sua forma embrionale nell’idea di Cartesio diffondere le sue
Meditazioni attraverso la mediazione dell’amico
Mersenne, il quale fa circolare manoscritto di Cartesio e
raccoglie le obiezioni. Tra queste obiezioni ce ne sono alcune
significative per noi, tra cui quella di Hobbes.
Hobbes è un contemporaneo di Cartesio. Nasce nel 1588 e vive 90 anni.
È inglese ma trascorre gran parte della vita in continente. È un
sostenitore della corona inglese. Hobbes va in esilio volontario, gira
l’Europa (molti anni in Francia ma anche a Firenze, dove incontra
Galileo).
Viene interpellato da Mersenne e gli viene chiesto un parere sulle
Meditazioni Metafisiche. Con Cartesio non c’è un buon rapporto:
Hobbes è convinto che gli abbia plagiato il suo trattato di ottica.
Questo pregiudizio fa sì che i rapporti tra i due inizino male. Cartesio nelle risposte alle obiezioni di Hobbes tiene un atteggiamento sprezzante. Hobbes non avrebbe capito nulla di che cos’è la metafisica e di che tipo di fondazione questa abbia bisogno. Hobbes deve fare lo scienziato dei corpi naturali, non occuparsi di metafisica.
C’è una leggenda per cui Mersenne avrebbe organizzato un incontro tra
Cartesio, Hobbes e Gassendi.
Gassendi è un autore importante all’epoca (al pari di Cartesio e
Hobbes), però sta fuori dal canone della filosofia. Recupera l’eredità
epicurea, lucreziana e la introduce nell’Europa moderna.
Modern epicurianism, C. Wilson.
L’atomismo è un’ipotesi fisica molto discussa nella
modernità. Uno dei termini del disaccordo tra Cartesio e Gassendi
riguarda la costituzione ultima della materia in termini di atomi o di
corpuscoli.
Gassendi è atomista, Cartesio è corpuscolarista. La differenza consiste
nell’ammettere o meno l’esistenza del vuoto:
Riabilitare Epicuro non è cosa da poco. Gassendi riesce a farlo mettendo insieme le teorie materialistiche e atomistiche di Epicuro con una apologia della cristianità. Gassendi riesce a essere allo stesso tempo:
La filosofia di Gassendi è un “collage di teorie”
che Gianluca Mori ha mostrato essere uno di quei casi di compromesso che
gli autori moderni alle volte dovevano stringere per poter consentire la
circolazione dei loro testi e al contempo riservarsi uno spazio di
circolazione clandestina che stesse al di là della individuazione della
censura. Attraverso questa costruzione apologetica della cristianità,
Gassendi riesce a far passare una serie di tesi che altrimenti non
avrebbero potuto circolare. Uno stratagemma per aggirare la censura che
fa parte dell’opera di trasmissione di contenuti, che di per sé non
sarebbero stati accolti, attraverso forme letterarie fittizie: per
esempio, si pubblicavano confutazioni dei testi ateistici e
materialistici al solo fine di farli conoscere.
La confutazione era solo un infingimento strumentale affinché
determinate tesi potessero circolare.
Anche Spinoza circola in questo modo: stralci della sua opera confutati
ad hoc.
Leo Strauss è un teorico della “lettura tra le righe”: i testi dei filosofi moderni vanno letti tra le righe, perché molti dei messaggi che i filosofi moderni fanno passare appartengono a un circuito che non può essere quello ufficiale. La lettura tra le righe consente di far passare un messaggio attraverso un codice cifrato che i frequentatori di certi ambienti riuscivano a cogliere.
In questo contesto Hobbes è un personaggio strano. È un personaggio pubblico: pubblica tutte le sue opere e lo fa a suo nome. Riesce a evitare la censura - l’unico episodio pericoloso è la pubblicazione da lui non autorizzata di un epistolario con il vescovo Bramhall, in cui Hobbes ammette che se Dio deve esistere allora sarà un corpo anche lui. Hobbes infatti è materialista.
Nota bene: le etichette hanno solo una funzione di orientamento. Ma se arriviamo a porre un’etichetta è perché prima di tutto un autore dice certe cose. Cos’è il materialismo? Una posizione filosofica che concerne una tesi metafisica. Non è una tesi epistemica, né una teoria morale. Il materialismo è la tesi che afferma che non esiste altro che materia = tutto ciò che è reale deve essere necessariamente materiale.
Il materialismo è una vecchia tesi filosofica, non l’hanno inventata
i moderni, anche se i moderni hanno inventato il nome “materialismo”. Il
nome viene inventato dal filosofo neoplatonico Cudworth, della
scuola di Cambridge.
I neoplatonici sono importanti nella filosofia inglese-post
hobbesiana.
Cudworth è il padre di Lady Masham, la donna presso la quale Locke
trascorrerà gli ultimi anni della sua vita.
Secondo Cudworth, nella storia della filosofia ci sono buoni e
cattivi materialisti:
Lo spazio della libertà morale è necessariamente connesso con
lo spazio della fede, quindi con l’ambito del religioso. Se ho
una teoria fisica materialistica devo negare all’anima
un’esistenza diversa da quella del corpo, devo negare che
l’anima possa sottrarsi a principio di corruttibilità, quindi devo
negare l’immortalità.
Se nego l’immortalità chiudo i conti con la mia
moralità con la vita terrena, e Dio non mi serve più a
nulla. Se non posso agire moralmente (perché nego lo spazio di
libertà), un Dio come giudice morale non mi serve a niente.
Il detrattore della morale diventa anche detrattore della
religione, quindi ateo non virtuoso.
Frequentatore di circoli libertini che affidavano le loro idee alle
circolazioni manoscritte.
A un certo punto Bayle dice che forse Spinoza era un “ateo
virtuoso”.
È possibile scindere l’affermazione dell’esistenza di Dio
dall’affermazione di una pratica di vita virtuosa.
La virtù è qualcosa che si giustifica in se stessa. La virtù, come la
verità, è premio a se stessa. Non c’è bisogno di pensare a un Dio che
possa premiare o punire le azioni umane. L’uomo si punisce o si premia
in questa vita sulla base di un proprio comportamento morale. Esistono
gli atei virtuosi.
Come arriva Hobbes al suo materialismo?
Le Obiezioni alle Meditazioni di Cartesio risalgono
agli ultimi anni ‘30, verso il ‘39. Nel ‘39 Hobbes non aveva ancora
scritto il suo De Corpore, che fa parte di una terna di opere,
l’Elementa philosophiae (De Corpore, De
homine, De cive).
Nel presentare queste opere al lettore Hobbes segue un ordine di
incremento della complessità:
Il De cive è l’acme della riflessione hobbesiana e riguarda
l’oggetto più complesso: la società.
Il minimo comune denominatore di queste tre opere è il
fatto che trattano sempre di corpi.
Solo i corpi sono conoscibili perché solo i corpi mi consentono
di applicare quel modello di conoscenza (rivisitazione dell’insegnamento
aristotelico) che è lo scire per causas, cioè
conoscere attraverso l’individuazione delle cause.
Le cause sono solo cause efficienti. La conoscenza è
sempre una conoscenza di corpi perché i corpi sono sempre qualcosa di
prodotto, e io posso ripercorre il cammino della generazione dei corpi
dalle cause agli effetti e dagli effetti alle cause. Io conosco
qualcosa quando so vederlo come effetto di cause determinanti o
quando dalle cause determinanti arrivo a quell’effetto.
Es. io so che la figura davanti a me è un circolo quando mi rendo
conto del fatto che la circonferenza è composta da punti equidistanti
dal centro o quando mi rendo conto del fatto che è il risultato della
rotazione di un segmento intorno a un punto.
In entrambi i casi si tratta di processi generativi,
cioè della capacità della nostra mente di
ripercorrere le tappe di generazione che sono
riconducibili a un rapporto causa-effetto.
I corpi sono sempre qualcosa di generato, di composto, che si
forma per aggregazione, mai semplici (lo dice già
Cartesio).
I corpi possono essere conosciuti verum ipsum facto = è vero
ciò di cui conosco le cause generative; la verità consiste in questa
capacità di riprodurre le cose che si conoscono. Il corpo è
l’unica realtà soggetta alla conoscenza ma anche come unica realtà
possibile. Ciò che non è corpo, ammesso che ci
sia, non si potrebbe neanche conoscere, non avrei
strumenti per accedere a quel tipo di natura. Non avendo gli strumenti
per accedere a quel tipo di natura, che mi importa di conoscerla? Posso
pensare di avere una conoscenza di Dio? Posso applicare la mia
capacità conoscitiva a qualcosa che non è generato?
Hobbes ha una concezione della ragione diversa da quella di Cartesio.
In Cartesio la ragione è il lume
naturale, il buonsenso, la dotazione
originaria che ognuno di noi possiede; la ragione denota come
sua proprietà essenziale la res cogitans = dominio metafisico.
Cartesio arriva a dire questa attraverso l’argomento del genio maligno:
se il genio mi inganna io devo esistere, e la mia essenza è pensiero
(quindi io sono una sostanza pensante, sono ragione). Questo argomento
di Cartesio è valido?
Nella obiezione che Hobbes fa alla seconda meditazione, ricostruisce in
modo abbastanza fedele le tesi di Cartesio.
La fallacia individuata da Hobbes è quella di
passare dall’individuazione di una facoltà o di una
proprietà di un ente alla determinazione della natura di questo
ente. Il fatto che il soggetto abbia la capacità di
pensare non significa che il pensare determini l’essenza di
quell’oggetto; può essere una sua proprietà essenziale ma non
l’unica o può essere una delle sue proprietà che emerge da altre
proprietà essenziali. L’argomento di Cartesio, secondo Hobbes, non è in
grado di sconfiggere la tesi secondo la quale tutto ciò che è è corpo,
perché ciò che non è corpo è qualcosa che cade fuori dal mio
ambito di percezione. Non sono in grado di conoscere nulla
fuorché corpi: questo significa che la mia metafisica sarà di
tipo monistico, in cui riconosco la presenza di una sola specie
di sostanze, quelle materiali.
Nell’epoca cartesiana incontriamo una serie di
autori che dimezzano il dualismo, con l’obiettivo di evitare le
difficoltà della comunicazione tra le sostanze
cartesiane.
Hobbes è uno di questi. Nella metafisica materialistica di Hobbes
tutto è corpo, quindi tutto funziona secondo i
principi della meccanica: non ci sono che materia e movimento,
e attraverso i principi di materia e movimento posso spiegare
tutto.
Posso spiegare anzitutto la
conoscenza, che avviene attraverso un sistema di
stimolazione nervosa analogo a quello descritto da Cartesio. La
conoscenza richiede sempre un passaggio sensibile, quindi che qualcosa
tocchi i miei sensi. L’urto che viene prodotto sui miei sensi dal
contatto con l’oggetto viene trasmesso attraverso il sistema
degli spiriti animali che portano ai nervi, fino agli organi
ricettivi.
In Cartesio a questo punto c’era la ghiandola
pineale, che trasformava il movimento in idea,
facendo passare l’informazione da un dominio ontologico ad un altro
dominio ontologico.
In Hobbes non c’è il dominio ontologico quello della mente come
sostanza. La ragione è una capacità, una
funzione logica che può venir esercitata da un soggetto
materiale, corporeo. Il possesso della ragione non mi
determina come ente immateriale. Il processo fisiologico di
spiegazione del funzionando delle percezioni, che sono le uniche
conoscenze di cui dispone la nostra ragione, avviene sempre
all’interno del dominio del corpo, per cui ciò che che
in Hobbes chiamo “idea” è un movimento, non ha una natura
ontologica distinta dai movimenti che occorrono nei corpi. Ciò che
chiamò “idea” è un’immagine che si forma quando questo corso di spiriti
animali che scorrono nei nervi e che arrivano a colpire il cuore o il
cervello (a seconda che si tratti di un affetto o di un contenuto
conoscitivo).
Ma il soggetto hobbesiano non è solo passivo come
quello cartesiano.
Il soggetto hobbesiano, come tutti i corpi, ha una capacità di
resistenza che fa “rimbalzare” questa pressione che subisce: la
fantasia. Questo movimento estroflesso mi illude del fatto che
l’immagine stia fuori di me. Questa fancy (fantasia, immagine)
è qualcosa che ha la natura del movimento; un movimento che
parte dal soggetto ed è rivolto verso l’esterno. Io mi
illudo che questo movimento mi raffiguri qualcosa fuori
di me, ma è un al soggetto stesso (al cervelloal cuore del
soggetto).
Questa immagine è ciò che i cartesiani
chiamavano idea. Cartesio si sbagliava a dire che abbiamo idee
avventizie, fattizie e innate; non esistono le idee
innate.
Le idee innate non avrebbero posto dove stare in Hobbes.
Questa è la seconda grande obiezione di Hobbes a Cartesio. In questi
anni Hobbes non ha ancora dato alle stampe le sue opere, quindi le
Obiezioni alle Meditazioni rappresentano il laboratorio
dei fondamenti filosofici delle posizioni che Hobbes
svilupperà.
Modello di trasmissione della percezione in termini meccanicistici: + con l’organo di senso entro in contatto con un oggetto esterno che mi urta; + il movimento generato da quest’urto viene trasmesso dai nervi all’interno del corpo umano + fino ad arrivare ai due punti di approdo dei nervi, corpo e cervello.
Corpo e cervello non trasmettono più oltre come in
Cartesio, dove questi organi muovono la membrana della
ghiandola pineale consentendo il trapasso di una informazione materiale
in un dominio immateriale.
In Hobbes tutto questo non c’è: una volta che questi movimenti arrivano
a cuore e cervello, si fermano e vengono respinti. C’è un
conatus, ossia uno sforzo di resistenza.
Anche in Locke e Spinoza ci sarà questa idea di una forza di resistenza
interna ai corpi che si impone verso l’esterno.Questo conatus,
che devia il corso del movimento proiettandolo verso l’esterno del
soggetto, è quello che intendo come immagine, come idea di quella
cosa.
Mi illudo che l’idea mi rappresenti quella cosa fuori di me, ma l’idea altro non è che un movimento che in quanto tale è tutto interno ai miei organi di senso e che mi informa soltanto delle proprietà della cosa che lo ha generato. La cosa ha una costituzione materiale tale che quando interagisce con i miei organi di senso produce questo tipo di immagini. Le qualità delle cose, che conosco per via percettiva, sono modi di interagire della costituzione materiale delle cose con la costituzione materiale dei miei organi di senso.
In filosofia questo atteggiamento si dice fenomenistico: io conosco le cose nel modo in cui le cose mi appaiono. Il filtro dei miei sensi consente il passaggio dell’informazione esclusivamente per quello che riguarda quelle proprietà delle cose che i miei sensi sono in grado di cogliere. C’è un’interazione tra come sono fatto io e come sono fatte le cose che mi fa apparire le cose in un determinato modo.
Il modo in cui le cose mi appaiono non è necessariamente essere il modo in cui le cose sono: il modo in cui le cose sono appartiene a una zona che mi rimane preclusa, perché l’unico canale di informazione che ho per cogliere le cose è quello sensibile. È come se i sensi fossero il filtro attraverso cui possono passare le informazioni del mondo. Non ho sensi per cogliere altro che le qualità sensibili delle cose. Fenomenismo significa che la mia conoscenza è sempre una conoscenza costruita su apparenze e quindi non pretende di giungere alla costituzione reale, ultima delle cose.
Invece secondo Cartesio la struttura delle cose è esprimibile
in termini matematici, e la ragione cartesiana possiede
gli strumenti per correggere i sensi e arrivare alla natura
propria delle cose.
Al contrario, la ragione hobbesiana è una capacità
logica. Non è una capacità che tutti noi possediamo in maniera
fatta e finita: la ragione è un’industria, cioè uno
sforzo continuo di aumentare una potenzialità che
abbiamo ma che possiamo anche non sviluppare. La ratio
di questa soluzione filosofica è quella di poter spiegare anche un
processo conoscitivo - che è un qualcosa che Cartesio aveva detto
svolgersi in una zona non corporea - in termini corporei.
Però tutti abbiamo idea di cose che non abbiamo esperito, di cose che
sembrano stare al di là delle nostre capacità dei sensi. Queste idee
sono innate per Cartesio. Invece Hobbes le spiega in un’altra
maniera.
Nella sua obiezione cita direttamente Cartesio: aveva detto
effettivamente qualcosa di giusto, cioè che le idee hanno una natura un
po’ pittorica: sono come quadri che ho nella mente. Ci sono dei casi in
cui mi rappresento qualcosa che è caduto realmente sotto i sensi (uomo);
ci sono dei casi in cui la mia ente compone immagini di cose che sono
cadute sotto i sensi (chimera); e ci sono casi in cui la mia mente
riempie dei nomi altrimenti vuoti di immagini arbitrarie rispetto alle
quali io so che non pretendo una rassomiglianza con un archetipo
originario (ossia con quella cosa che ho visto o avrei potuto
vedere).
Nel caso delle sostanze che si sottraggono a qualsiasi tipo
di esperienza sensibile (ministri di Dio, Dio stesso, e tutte
le chimere che riguardano le nature immateriali), io non
dispongo propriamente di idee, perché le idee sono
sempre e soltanto quelle immagini che arrivano attraverso il
processo di impressione degli organi di senso. In quei
casi io non dispongo di idee ma di nomi.
Il nome mi inganna, perché mi illude
di denotare qualcosa che non c’è: l’idea. Io credo,
suppongo, immagino che ci siano delle entità di cui non posso
avere idee e quindi riempio i nomi di quelle identità con idee
arbitrarie (a cui attingo dalla mia esperienza) e mi
illudo di avere dei contenuti che rispondono alle mie
denominazioni.
Il concetto di idee innate in Cartesio non è che un corredo vuoto, fatto di soli nomi, che sono funzionali a supportare un pregiudizio (cioè una opinione infondata) nei confronti dell’esistenza delle sostanze immateriali, non corporee. Tutte le idee propriamente dette sono quei fantasmi che ci arrivano per vie sensibili. Queste idee non sono solo umane; le hanno anche gli animali, i quali dispongono di un apparato percettivo che funziona come il nostro.
In Cartesio gli animali non avevano idee perché non avevano quella zona in cui stanno le idee. Ma se le idee sono movimenti, allora non c’è motivo di negare agli animali il possesso di queste immagini. Al livello dell’esperienza che si forma con la sedimentazione delle immagini nella memoria, la mente degli uomini è uguale alla mente degli animali. Anche gli animali hanno quindi quello che Hobbes chiama un discorso mentale, cioè una connessione di immagini che mi derivano dall’esperienza. Dall’esperienza mi derivano le immagini e le connessioni tra le immagini.
La ragione viene definita da Hobbes come capacità di
calcolo, cioè capacità di addizione e sottrazione di
immagini.
Io ragiono quando metto insieme più immagini o quando sottraggo ad
alcune immagini altre immagini. Nel Leviatano, Hobbes descrive
il modo in cui si procede per calcolo in ogni ambito del
sapere. Es. Quando mi formo il concetto di uomo come
animale razionale, addiziono delle immagini
(animale + razionale). Invece quando mi formo il concetto di animale,
sottraggo (uomo - razionale). Così funziona anche nella geometria: per
formarmi l’immagine di triangolo equilatero devo addizionare tutte le
immagini che rientrano all’interno di questo concetto più ampio, e devo
sottrarle per formarmi l’immagine di triangolo scaleno, rettangolo,
ecc.
La concezione della ragione come procedimento di addizione e
sottrazione funziona su più livelli: ad un
livello base che condividiamo con l’animale, ma anche ad un livello più
raffinato che è tipicamente è umano: quando la connessione non è tra
immagini ma tra nomi (i nomi che do alle immagini). Gli umani
possono fare cioè addizioni e sottrazioni anche con le
immagini.
I nomi hanno il potere di far andare oltre una conoscenza
prudenziale, ossia pragmaticamente efficace,
che mi dice come agire nell’immediato). I nomi mi consentono di
astrarre, generalizzare,
concepire dei casi che sono validi sempre, e in questo
modo mi consentono di prevedere quello che accadrà
(questo l’unico aspetto per cui è utile possedere una scienza).
Questa forte spinta pragmatica della filosofia
hobbesiana è uno dei tratti caratteristici della filosofia
britannica moderna. Grande interesse rispetto alla commisurazione dello
sforzo per il risultato che voglio ottenere.
Per Hobbes la filosofia non è un tentativo di innalzamento della ragione umana a vette divine, ma la capacità di sviluppare una conoscenza sufficientemente certa del mondo da consentirmi di muovermi in esso in maniera efficace. L’immagine è una configurazione fisica. Una configurazione della materia del mio corpo che si dispone in un certo modo e mi fa pensare che ci sia qualcosa che ha le proprietà che riconosco in quell’immagine. Per immagine si intende un movimento che accade all’interno del cuore o del cervello. Quando il discorso mentale viene innalzato a discorso verbale, allora la connessione non avviene più tra le immagini ma tra i nomi, e i nomi hanno il potere di consentire una generalizzazione, quindi di innalzare l’esperienza a un grado di universalità. I nomi consentono di introdurre uno scarto tra la ragione animale e la ragione umana. La parola è ciò che rende la ragione umana una ragione superiore a quella animale, perché la parola apre uno spazio di conoscenza che agli esseri non parlanti non è consentito; è lo spazio della scienza.
La scienza non è una conoscenza solo prudenziale ma è una
conoscenza certa.
È vero che Hobbes può essere definito “empirista”, ma la capacità di
calcolo della ragione ha una sua validità che va oltre
l’approvvigionamento dell’esperienza. La ragione costruisce delle
connessioni tra le proprie idee (tradotte in linguaggio verbale), che
può poi verificare o smentire nel confronto con l’esperienza, ma che
costituiscono una struttura di cui essa dispone a priori, sulla base
della sua capacità di legare e slegare tra di loro le nostre idee.
De Corpore, parte II. C’è l’esperimento mentale della
ficta sublactio mundi = fittizia annichilazione del
mondo.
Immaginiamoci che a un certo punto il mondo scompaia. Il
soggetto dispone di materiali che gli sono provenuti attraverso
la sensibilità, che compone e scompone nella
propria mente attraverso l’esercizio della ragione: attribuisce loro dei
nomi, costruisce concetti. Tra i concetti che costruisce ci sono quelli
di spazio e tempo.
Per Cartesio lo spazio è un’idea innata.
Per Hobbes, quella di spazio è un’idea che la ragione si procura
da sé attraverso l’esperienza dei sensi e del corpo. Lo spazio
altro non è che la rappresentazione di un corpo a me esterno senza
specificare le qualità di quel preciso corpo. Quando io dalla
rappresentazione del corpo astraggo la peculiarità di quel singolo
corpo e gli do il nome di “corpo”, io posso
rappresentarmi quell’esperienza svuotandola delle qualità sensibili del
corpo che occupa quella porzione di esperienza e
ricavo, a priori (anche se sollecitato dall’esperienza),
l’idea dello spazio.
Allo stesso modo, il movimento è l’esperienza che mi consente di ricavare del tutto a priori il concetto di tempo.
La ragione, una volta rifornita di materiali su cui esercitare le sue capacità attrattive, costruisce delle regolarità o delle connessioni tra i fenomeni che altro non sono che le congetture della scienza, le ipotesi scientifiche, che potrebbe continuare a elaborare anche qualora il mondo si annichilisse. La ragione non si accorge che il mondo è svanito fintanto che non va a controllare se le congetture che ha formulato sono vere. La nostra ragione, una volta che dispone del materiale da comporre, esercita le proprie capacità senza più bisogno di riferirsi del mondo. Fintanto che non avesse bisogno di nuovo materiale o di controllare la rispondenza tra le sue ipotesi e la realtà, il soggetto non so accorgerebbe dell’annichilimento del mondo.
Sulla base di questa concezione della ragione come
strumento di calcolo, Hobbes costruisce
un’antropologia.
Non solo la ragione, ma la natura umana funziona in questo modo. C’è un
corpo umano, le cui attività rispondono sempre alle stesse leggi ma si
manifestano in ambiti che noi classifichiamo variamente (ambito della
conoscenza, abito morale, ambito estetico, ecc.). La stessa volontà
sottostà ai meccanismi necessari che regolano i movimenti dei corpi.
All’interno del corpo, l’avvicendarsi di pulsioni/appetiti è anch’esso spiegato nei termini dell’avvicendamento delle forze dei corpi, quindi nei termini della fisica meccanica: tra due forze contrapposte se ne genera una terza, che annulla le precedenti e che io denomino volontà. La volontà è l’appetito più forte, è quello che ha la meglio sugli altri appetiti. La volontà non è libera: anch’essa avviene all’interno delle dinamiche di interazione tra le parti del corpo.
La filosofia di Hobbes è sensualistica (oggi diremmo “empiristica”). La categoria di empirismo viene introdotta in filosofia da Kant. Prima di Kant l’empirismo è la scienza degli empirici, dei filosofi della natura - i medici in particolare, che lavorano a stretto contatto con la sperimentazione. Quello che noi chiamiamo empirismo (= filosofie che riconducono all’esperienza l’origine delle nostre conoscenze) al tempo si chiamava sensualismo, concezione per cui la conoscenza arriva tutta dai sensi.
Il sensualismo è uno dei tratti distintivi di tutte le filosofie materialistiche, e questo perché il materialismo - che ammette soltanto l’esistenza della sostanza materiale - non può ammettere una zona in cui fossero contenute delle nozioni primitive originarie che avevano una genesi diversa da quella del contatto dei nostri organi di senso con la realtà esterna.
Hobbes, nella cornice materialistica delle sua filosofia, è un sensualista, cioè è convinto che tutto ciò che rappresenta un nostro contenuto di pensiero debba avere un’origine sensibile. Questa origine sensibile è mediata e immediata. Dalla sensazione arrivano nei nostri pensieri delle informazioni relative alle qualità delle cose (questo tipo di impostazione porta con sé una teoria di conoscenza di carattere fenomenistico = conosco delle cose solo le qualità ma non la loro costituzione interiore).
Ci sono delle nozioni che hanno un’origine empirica
(perché derivate da un lavorio della mente su nozioni empiriche
originarie) ma che non sono frutto di un’esperienza
diretta: è il caso delle nozioni di spazio, di tempo,
di sostanza. A queste nozioni arrivo attraverso un procedimento
logico, mentale, a partire dalle esperienze sensibili, che sono l’unico
orizzonte della mia conoscenza.
Nella fattispecie, per le nozioni di spazio e tempo, la mia mente si
trova a possedere dei contenuti che le arrivano dai sensi e che sono
contenuti relativi ad oggetti esperiti.
L’idea di spazio è il frutto di un’operazione di sottrazione della mente su un’idea, un’immagine che la mia mente ottiene per via empirica.
Quindi nella costruzione dell’idea di spazio abbiamo queste fasi:
A questo contenitore vuoto do il nome di spazio; questo nome è il segno che denota quella particolare idea, che è frutto di un’operazione mentale.
Lo stesso accade con il tempo.
Nell’ontologia di Hobbes, ci sono solo due protagonisti: i
corpi e i movimenti tra corpi.
Il movimento dei corpi è il tipo di conoscenza diretta a partire dalla
quale la mia mente si produce l’idea del tempo. Il tempo è la
rappresentazione del movimento a cui sottraggo i corpi che si
muovono.
Allo stesso modo procedo con l’idea di sostanza: la sostanza è
il corpo privato delle qualità individuali. La mia esperienza è
sempre puntuale; non faccio mai esperienza di
universali. Quindi le mie idee universali sono sempre e solo
idee spogliate delle determinazioni particolari che hanno
nell’esperienza puntuale che ne faccio, alle quali assegno un nome.
Differenza tra prudenza e scienza (due livelli di sapere): la prudenza è una previsione verosimile; la scienza è una previsione certa. Il passaggio da prudenza a scienza avviene attraverso l’assegnazione di nomi alle immagini. I nomi mi consentono di spostarmi su un piano di generalità e universalizzazione che mi toglie dall’esperienza particolare.
La sostanza è ciò che permane sotto il variare degli accidenti. Non ho esperienza di una sostanza. In Hobbes sostanza = corpo. Per Hobbes parlare di sostanza incorporea è una contradictio in adiecto; è come parlare di un ferro ligneo: si mettono insieme cose che non possono stare insieme sulla base del principio logico della non contraddizione. La mia conoscenza è sempre conoscenza di corpi e in particolare di proprietà dei corpi. La mia conoscenza è sempre fenomenica, non ho mai l’esperienza della sostanza. Alla nozione di sostanza ci arrivo con un’operazione razionale che consiste nella sottrazione dall’immagine che mi sono formato di tutto quegli elementi che ne rappresentano le qualità. A questo punto mi rimane un’immagine che non è una nozione empirica ma che è il frutto di ragionamenti su nozioni empiriche: la nozione di sostanza.
Ricapitolando. Le critiche di Hobbes a Cartesio si concentrano intorno a due momenti delle Meditazioni cartesiane:
Possibilità di inferire dall’osservazione di una capacità
di pensiero la natura pensante del soggetto in grado di esercitare
quella capacità.
Questo porta Hobbes a criticare il dualismo: la sostanza
pensante è una presupposizione inutile; non è il caso di
ipotizzare una sostanza pensante per spiegare qualcosa che può essere
spiegato nei termini di movimenti tra i corpi. È una fallacia quella che
mi consentirebbe di dedurre dalla presenza di una facoltà alla natura
metafisica della sostanza che esercita quella facoltà.
Critica alle idee innate. Per Hobbes “idea” è sempre un qualcosa che rientra nell’unico dominio ontologico disponibile, quello dei corpi. La differenza tra le idee di Cartesio e le idee di Hobbes sta nel fatto che le idee di Hobbes si chiamano idee ma ci si riferisce a qualcosa che non è metafisicamente qualificato come mentale. Il linguaggio mentalistico non deve trarci in inganno: si parla di idea anche in Hobbes ma le idee in Hobbes sono movimenti. Fuori dal movimento non c’è nulla.
Le idee che Cartesio ritiene provenire direttamente dalla
costituzione originaria della ragione (idee innate),
non sono altro che momenti in cui la nostra ragione si
inganna e scambia un nome per un’idea.
La nostra ragione scambia un sistema denotativo con un contenuto
mentale, cioè un movimento effettivamente esperito
dalla nostra costituzione fisica. Sotto il nome di
sostanze immateriali noi congiungiamo idee che
provengono dai sensi, che hanno una loro natura
materiale, ma che nella loro composizione vanno a costituire un
qualcosa che in realtà non è mai stato esperito e che quindi non può
appartenere al dominio delle idee.
La verifica della corrispondenza tra nomi e origine
sensualistica/empirica delle idee è la verifica della validità
oggettiva delle nostre conoscenze, cioè il fatto che le nostre
conoscenze si riferiscano effettivamente alle cose.
Nella filosofia hobbesiana un altro elemento di distacco da Cartesio
è rappresentato dalla nozione di ragione. La ragione di
Cartesio è connotata metafisicamente:
è la res cogitans appartenente agli esseri razionali e che
qualifica una determinata porzione dell’essere.
Invece in Hobbes la ragione è una funzione logica, una
capacità che non è distribuita tra tutti gli uomini ma
è una capacità che va incentivata, sviluppata; la ragione è
industria, sforzo. Lo sforzo della ragione è comune
agli animali e agli uomini perché consiste nella
capacità di riprodurre nella mente l’ordine delle cose che
esperiamo hanno nell’esperienza . Questa capacità di riprodurre
l’ordine può essere molto aderente all’esperienza come accade agli
animali, oppure può distaccarsi dall’esperienza attraverso l’utilizzo
linguaggio.
Distinzione tra discorso mentale (= progressione nelle connessioni delle immagini all’interno della nostra mente) e discorso verbale (= proprio della scienza). Con Hobbes si profila una concezione di esperienza che avrà effetti prolifici nel corso della filosofia moderna. L’esperienza è la rappresentazione che ci facciamo della realtà esterna. Questa rappresentazione è conservata nella nostra memoria nei termini di immagini legate da connessioni. L’esperienza comincia ad abbandonare l’immagine classica di un tutto dato e precostituito di fronte al quale il soggetto si pone come uno spettatore, per diventare frutto di un’interazione tra il soggetto e il mondo. Con Hobbes, pur all’interno di cornice di tipo sensualistico, comincia a profilarsi l’idea per cui l’esperienza si costruisce attraverso una forma di interazione tra soggetto e mondo.
Cartesio, poi, riconosce all’individuo uno spazio di libertà, cosa
che lo costringe a introdurre un ulteriore dominio ontologico. In Hobbes
invece cade lo spazio per la libertà intesa come libertas
indifferentiae, quindi libertà di arbitrio, libertà in positivo di
determinarsi, di sottrarsi alla connessione necessaria di causa e
effetti che c’è in natura.
La volontà non è libera ma è determinata come tutti i movimenti
dei corpi. Anche la volontà cade nel dominio
dell’estensione.
La volontà è l’ultimo appetito, ossia il
movimento che ha la meglio sugli altri movimenti interni al mio
corpo. Quando io penso di aver deciso di fare qualcosa invece
che qualcos’altro, quindi di essermi determinato ad agire in un modo o
in un altro, in realtà prendo atto del fatto che si è
concluso un processo di deliberazione.
La deliberazione è il momento in cui si assiste all’avvicendarsi dei
diversi appetiti (= pulsioni all’interno del nostro corpo), che hanno
tra loro un rapporto governato da leggi
meccaniche.
Si chiama deliberazione perché quello è il momento in cui sono ancora
libero, potrebbe ancora dominare uno o l’altro appetito. Ma
l’imposizione dell’appetito dominante mi toglie possibilità
alternative.
Questo ultimo appetito è la volontà. Io faccio qualcosa non sulla base
di una scelta di tipo finalistico, non oriento il mio agire
sulla base di un fine che determino io stesso, ma agisco sulla base di
un meccanismo di causalità efficiente.
La concatenazione causa-effetti non lascia spazio ad
eccezioni.
Concezione della realtà come qualcosa di identico a uno spazio di
estensione; una realtà che è corpo, che è
materiale.
Questa concezione sta a fondamento dell’idea che Hobbes ha della
conoscenza come scienza delle cause generatrici. Conosco qualcosa quando
ne conosco le cause generatrici, che posso ripercorrere nelle due
direzioni (da effetti a cause e da cause a effetti). Esempio del
cerchio. Generazione come percorso che devo seguire nella conoscenza
delle cose: questo mi conferma il fatto che tutto ciò che può essere
conosciuto deve essere corpo. Ciò che si sottrae alla
generazione (ammesso che possa esserci) non può essere
conosciuto, perché mi manca quella via di accesso
conoscitiva unica che è quella delle cause generatrici.
I corpi si dividono in corpi naturali e
corpi politici.
Dei corpi naturali (mondo della natura, dominio della
fisica) si dà una conoscenza solo a posteriori. Sono
più semplici. Invece dei corpi artificiali, che produco
io (figure geometriche, enti della matematica, corpo politico) ho una
conoscenza a priori. Conosco a posteriori leggi della
natura ma conosco a priori le leggi, es. dello Stato.
Sono più complessi.
Guardare alla teoria politica di Hobbes permette di vedere come questa
impostazione materialistico-meccanicistica abbia una controparte a
livello di una concezione di Stato come macchina.
La corrispondenza tra costituzione corpo politico e
costituzione dei corpi in generale è evidente nel
Leviatano (1651) è il punto di riferimento della fondazione
teorica del pensiero assolutistico. In quest’opera c’è una descrizione
efficace del corpo statale nei medesimi termini in cui, sia Hobbes nel
De corpore sia Cartesio nel suo Trattato sull’uomo,
descriveva il funzionamento del corpo umano. A questa altezza della
storia della filosofia non è ancora consolidata la distinzione in
termini di organizzazione tra corpo vivente e corpo non vivente, quindi
quindi tra macchina e organismo. Noi, a partire da Kant e poi con la
filosofia romantica, pensiamo all’organismo come un corpo organizzato in
maniera tale da realizzare una funzione interna che non ha bisogno di un
intervento esterno.
La filosofia pre-kantiana anti-aristotelica (quella filosofia che
abbandona la psicologia delle forme sostanziali, ossia l’idea
che ogni funzione svolta da un organo sia la realizzazione di una
potenza attraverso l’esercizio di una forma deputata ad attualizzare
quella potenza) abbandona il paradigma ilemorfico e
diventa una filosofia meccanicista (la materia e i movimenti
della materia possono essere spiegati esclusivamente nei termini delle
leggi della meccanica).
In questa filosofia, ciò che differenzia un orologio da un corpo vivente è il livello di complessità della struttura. I corpi viventi sono in grado di svolgere funzioni che il corpo artificiale non è in grado di svolgere soltanto perché sono più complessi nella loro organizzazione. In entrambi i casi non c’è un principio finalistico e funzionalistico interno che ne determina l’esecuzione di una determinata funzione.
In Cartesio la res cogitans non è il principio che dà vita
al corpo inanimato. Il corpo è in grado di svolgere tutte le sue
funzioni senza bisogno dell’anima.
In Hobbes non c’è anima; il corpo e le sue funzioni si spiegano sulla
base dei movimenti che accadono all’interno del corpo. Il corpo è una
macchina, cioè un insieme di parti regolate da rapporti fisici. Allo
stesso modo per Hobbes funziona anche il corpo politico, che è spiegato
nei termini della cooperazione delle diverse parti, quindi delle diverse
funzioni che vengono svolte dalle istituzioni politiche come se fossero
le parti di un corpo vivente.
Il Leviatano (= mostro biblico composto da molti individui,
simbolo del fatto che dell’autorità statale risiedono i diritti di tutti
i cittadini) è un corpo che funziona sulla base di leggi
meccaniche.
Il corpo politico è organizzato in modo tale che le sue articolazioni
interne sono necessarie come quelle che occorrono tra le parti della
materia. Fin dalle prime pagine è evidente questo elemento della
composizione del corpo politico come composizione di tutti
individui, che sono gli ingranaggi della macchina.
Il Leviatano inizia parlando di come funziona il corpo umano; è anche un’opera politica che segna un momento di passaggio nelle teorie politiche moderne giusnaturalistiche.
Giusnaturalismo è la teoria politica che
afferma l’esistenza di diritti naturali. Esistono dei diritti
naturali, quindi dei diritti che sono connaturati all’uomo,
essenziali.
Trattato teologico-politico di Spinoza: se vogliamo togliere la
libertà di pensare agli uomini, allora uomini ridotti ad animali.
Il giusnaturalismo ha una lunga storia che affonda radici nella
filosofia greca classica. Secondo alcuni la matrice del
giusnaturalismo è la filosofia stoica (= scuola di pensiero
secondo cui gli esseri umani, in quanto partecipanti del logos
universale, hanno caratteristiche che trovano riscontro
nell’esplicazione della loro esistenza nel mondo reale e non
possono venirgli sottratte).
Giusnaturalista è anche la teoria politica medievale (agostiniana e
tomista). Nel giusnaturalismo cristiano c’è l’idea che
ci siano diritti inalienabili. In entrambi i
casi, l’origine di questi diritti che rendono l’uomo tale trascende
l’uomo stesso. In un caso c’è il principio intellegibile del
logos che conduce i volenti e trascina i nolenti, e questo
principio trascende l’essere umano. Anche la volontà divina, che crea
l’uomo con determinati diritti, trascende l’essere umano.
Il tratto distintivo del giusnaturalismo moderno (Grozio e Pufendorf)
è la convinzione che questi diritti non provengano da un
principio trascendente.
Questi diritti sono parte della natura umana sulla base dei suoi
stessi principi, senza bisogno di ricorrere a entità astratte.
### Grozio L’olandese Ugo Grozio in particolare è uno dei primi
proponenti dell’atteggiamento filosofico “come se non ci fosse un Dio”:
noi dobbiamo riuscire a spiegare le cose come se non ci fosse un Dio.
Ovviamente Dio c’è, ma non deve diventare principio euristico nella
spiegazione delle faccende umane.
All’interno della natura umana, nel suo carattere immanente, si riconosce la presenza di diritti inalienabili. Nella teoria classica del giusnaturalismo ci sono delle variazioni, ma c’è un tratto comune che tiene insieme le diverse posizioni filosofiche.Ipotizza una storia della società civile articolata in tre momenti:
Stato di natura e Stato civile sono i due poli tra cui si muovono le filosofie politiche di impronta giusnaturalistica della modernità. Lo Stato di natura può essere inteso in maniere diverse.
Per Rousseau è un principio euristico, un’idea, un’ipotesi da fare per spiegare l’origine della società. Si tratta di uno stato ideale che non si è mai dato, ma che dobbiamo presupporre fatto in un certo modo per spiegare come gli uomini ad un certo rompono quell’originaria condizione di eguaglianza. Rousseau arriva però 100 anni dopo il Leviatano.
Hobbes ritiene che ci sia uno stato di natura,
che non si è dato storicamente (non c’è nessuna preistoria della
modernità). Piuttosto, si tratta di una fenomenologia ideale. Il
passaggio da stato di natura a società civile non coincide con
la scansione temporale della storia degli uomini.
Ci sono oggi popoli che vivono in uno stato di natura,
essendo in una condizione perpetua di guerra. Uno dei
motti della filosofia hobbesiana è il bellum omium contra
omnes.
Hobbes è il teorico della condizione di guerra in
cui vivono gli uomini.
Con “condizione perpetua di guerra” non si intende il fatto che siamo in
una stabile condizione di belligeranza ma che viviamo continuamente in
una condizione dove non c’è garanzia di pace;
la guerra è sempre una minaccia reale. Questo accade
anche in civiltà regolamentate da istituzioni civili.
Nello stato di natura si ha una condizione di
guerra perpetua, determinata dal fatto che l’uomo
agisce sulla base dei propri impulsi e sulla base di essi
esercita il proprio diritto naturale. Questo diritto
naturale è uno ius in omnia = diritto su tutte le cose.
Nello stato di natura io ho un diritto che si estende fino a quando si
estende la mia potenza. Finché io posso procurarmi qualcosa assecondando
il mio appetito sono legittimato a farlo; il diritto naturale è
perfettamente aderente alle capacità che l’uomo ha di assecondare i
propri appetiti.
Hobbes, in un passo del Leviatano, risponde all’accusa di avere un’immagine troppo negativa dell’uomo dicendo: “Ma voi quando andate a dormire chiudete la porta?”. Realismo hobbesiano.
Negli uomini c’è una naturale sospettosità nei confronti dei
prorpisimili. Questa sospettosità è data dal fatto che
siamo vanagloriosi e pensiamo che anche gli altri
vogliano prevaricarci come noi vogliamo prevaricarli; e questo
fa sì che andando a dormire chiudiamo la porta.
Nello stato di natura vige invece un legittimo ius in omnia =
diritto su tutte le cose, con una mancanza di misura. Questo conduce a
una condizione di reale o potenziale belligeranza, in cui l’uomo diventa
lupo per l’altro uomo (homo homini lupus). L’uomo è lupo per
l’altro uomo perché se può se lo mangia.
Ma lo stato di natura non è uno stato di pura istintintualità: l’uomo è in grado di esercitare, pur in maniera rudimentale, la facoltà di calcolo e previsione degli eventi che è la ragione, che gli fa capire che il pericolo imminente è quello della morte violenta. La morte in sé è già un male, ma la morte violenta risponde a quella condizione brutale in cui non c’è limite nell’esercizio del diritto. Questo timore della morte violenta conduce gli uomini a stipulare il patto, che è il momento di transizione tra lo stato di natura e lo stato civile.
Il patto è un accordo al quale i contendenti sono vincolati. Si passa dall’essere contendenti all’essere contraenti. Il patto è un sistema per tutelarsi dalla morte violenta. In questo patto si stabilisce che l’unico diritto che viene mantenuto è il diritto alla vita. L’unico diritto davvero inalienabile è il diritto alla vita, che è inalienabile nella misura in cui è per tutelare la vita che si entra nel patto. Quindi non è vero che il cittadino hobbesiano aliena tutti i suoi diritti: c’è un diritto fondamentale che non viene alienato, quello alla vita, che è il vero senso dell’entrare in società e che se potesse essere alienato allora si potrebbe rimanere nello stato di natura.
È l’urgenza di tutelare questo diritto che rappresenta il motore
dell’evoluzione civile dell’individuo.
Rispetto alla tradizione classica del giusnaturalismo, in Hobbes
c’è una deviazione, che consiste nella maniera in cui si
concepisce il patto. Il patto classico è articolato in due momenti:
Questi due momenti del patto li troviamo in tutti i filosofi
moderni e garantiscono un diritto fondamentale in tutti gli
Stati di diritto, ossia il diritto /di
resistenza.
Questo diritto mi permette di togliere il potere all’autorità
quanto questa viene meno ai diritti che aveva assunto nel
patto. Quando un governante si sottrae ai compiti affidatigli,
allora la comunità può resistere e destituirlo. Questo
è possibile se il patto è articolato nei due momenti. La comunità rimane
tale, ma rompe il patto di assoggettamento, quindi rivede i termini del
proprio contatto con il potere sovrano.
Nel caso di Hobbes i due patti sono coincidenti:
il patto di unione coincide con il patto di
assoggettamento.
Gli individui si uniscono e insieme si assoggettano. È
un patto che viene stipulato tra i soli individui, i
quali, nel decidere di unirsi decidono di alienare i propri diritti
nella persona di qualcuno che li tutelerà, ma il sovrano non è
un contraente del patto.
Il sovrano non è vincolato dal patto, il patto è fatto tra gli individui. Il sovrano è assoluto, nel senso di absolutus, di legibus solutus = sciolto dalle leggi. Quindi in Hobbes non è concepibile un diritto di resistenza, perché questo prevederebbe che il sovrano fosse vincolato a svolgere dei compiti che non è chiamato a svolgere per contratto.
Il soggetto politico, che sia una rappresentanza o
una persona, viene investito dei diritti dei cittadini senza
però alienare nessun suo diritto. Il diritto alla vita è
l’unico diritto che mi autorizza a non obbedire al potere sovrano.
Quando in un sistema civile come quello hobbesiano non obbedisco al
sovrano, esco dalla società.
Quando un sovrano manda i suoi sudditi a morire, condannandoli a morte o
mandandoli in campagne di battaglia prevedibilmente disastrose, ecco che
la società civile si rompe e ci si ritrova in uno stato di
natura, in una condizione in cui non è tutelato il proprio diritto alla
vita. La rottura del principio di sottomissione è quindi anche
la rottura del patto di unione tra i cittadini.
Il sovrano che mi condanna a morte non sta violando un patto che ha fatto come me, ma rende vano il patto che ho fatto con i miei concittadini. Il sovrano in questo senso non è contraente del patto: non deve rendere conto ai propri sudditi delle proprie decisioni.
Si rompe il patto nel momento in cui questa istituzione, che è stata
pensata per il diritto alla vita, non è più funzionale. Non si
rompe il patto con il sovrano, con il quale non c’è nessun
patto; ma questo sovrano non avrà più una comunità su cui
esercitare il proprio potere, perché la comunità si
sarà sciolta, essendo il principio di unione anche un principio
di assoggettamento.
L’unica ragione per cui i cittadini stanno assieme è per essere tutelati
rispetto alla minaccia di morte, e se non si è più
tutelati allora non ha più senso stare insieme. Se non sono tutelato
nella salvaguardia della mia vita vengo ricacciato nella condizione di
stato di natura e devo ripercorrere l’intero cammino.
I diversi Stati nazionali che non riconoscono
un’autorità sopra di loro di fatto si trovano in una condizione
di Stato di natura. Gli individui a capo di comunità non
possono stringere un patto che li assoggetti a qualcun altro, perché
sono fuori dal patto. La politica internazionale è una
condizione di guerra perpetua dove ogni Stato pretende di poter
esercitare il proprio diritto su tutto.
La soluzione escogitata da Kant sarà quella di una confederazione di
Stati, dove nessuno è sovrano rispetto agli altri e si stringe un patto
di tutela dell’incolumità nazionale. Questo è il progetto della pace
perpetua. Si dovrebbe arrivare a un punto in cui ognuno è cittadino del
mondo, nel senso che fa parte di una realtà nazionale, che però è un
pezzo di quella confederazione mondiale in cui ognuno è tutelato su
diversi livelli di tutti i propri diritti.
Rousseau compone le sue opere politiche cento anni dopo quelle
hobbesiane, ma lo scenario è analogo. Generalmente si dice che Rousseau
abbia un’antropologia più ottimistica di quella di Hobbes (buon
selvaggio, stato di natura idilliaco di pace, ecc.). In realtà nel
Discorso sull’origine della diseguaglianza fra gli uomini
Rousseau dice che il buon selvaggio è buono e vive in pace con i
suoi simili perché è completamente autonomo.
Il buon selvaggio non ha bisogno di nessuno, dal
momento che ha bisogni elementari, ma anche perché la natura è
generosa con lui. In questo stato di natura originario l’uomo
vive in un paradiso terrestre, quindi chiaramente non ha
conflitti.
L’uomo rousseauiano è mosso da una passione, l’amor di
sé, ossia la conservazione della propria esistenza. Le
cose diventano pericolose quando per cause fortuite l’uomo si trova ad
aver bisogno degli altri. Quando non riesco più a provvedere da
me ai miei bisogni, ecco che le disuguaglianze naturali diventano
fondamentali e si comincia ad esercitare il proprio potere secondo il
principio della legge del più forte.
L’istituzione della proprietà privata è il primo passo dell’origine della diseguaglianza. Diseguaglianza non è preambolo della minaccia di morte ma violazione della dignità umana. Quando si vive in una condizione di sopruso si rinuncia alla propria dignità di esseri umani. Quando ci si assoggetta ad altri si rinuncia a pensare, a decidere, a rendersi responsabili delle proprie azioni. Questo è ciò che contraddistingue gli esseri umani rispetto agli altri esseri viventi. L’uomo esce dallo stato di natura per affermare la dignità umana, per riconquistare quell’uguaglianza che è l’unico elemento che gli consente di vivere una vita dignitosamente umana.
Come si esce dall’inasprimento delle diseguaglianze? Con un patto: il
contratto sociale.
Il contratto sociale è una patto di unione degli individui, i quali
decidono di ristabilire l’eguaglianza. Gli individui decidono che
l’assoggettamento ai simili è una condizione disumana e si assoggettano
a un soggetto politico democratico, la volontà generale.
La volontà generale è un soggetto metafisico, che poi
può essere esercitato da un soggetto politico reale. La volontà
generale è quella volontà in cui si raccolgono sublimandosi le volontà
dei singoli. Non è la somma delle volontà di
tutti, che renderebbe difficile una combinazione funzionale. È
una volontà in cui, con una forma di sintesi sublime, si mantengono gli
elementi individuali senza irretire le opposizioni tra essi.
Assoggettandosi alla volontà generale il cittadino rousseauiano
si assoggetta a se stesso, poche in quella volontà generale
riconosce l’espressione della propria volontà individuale.
Per questo Rousseau teorizza il “paradosso della libertà”.
Nello stato civile di Rousseau si realizza il paradosso della libertà,
ossia si viene costretti a essere liberi quando ci si
sottrae ai comandi della volontà generale. Se mi sottraggo al comando
della volontà generale mi sottraggo a un principio di libertà, che è
fare quello che comanda la mia stessa volontà, quindi vengo costretto ad
assoggettarmi a quella volontà che solo mi rende libero.
In altre parole, la volontà generale è un soggetto politico
in cui confluiscono le volontà individuali perdendo le loro connotazioni
particolari. Quando ci si assoggetta alla volontà generale ci
si assoggetta all’espressione sublimata della propria volontà. Quando si
fa quel che si vuole si è liberi (= libertà di, di dare corso al proprio
arbitrio).
Se all’interno di un sistema politico mi sottraggo ai comandi
dell’autorità politica, quindi della volontà generale, io sono costretto
a conformarmi, cioè obbligato ad essere libero. Rousseau teorizza un
sistema utopico, quello della democrazia diretta (no rappresentanti, i
cittadini rappresentanti di se stessi).
La democrazia diretta è la massima espressione della voce del singolo
all’interno degli organi della comunità politica. Polis greca. Ogni
cittadino nell’assemblea dice il proprio parere.
Dalla prossima lezione iniziamo Spinoza. Nuovi punti di orientamento. Anche Spinoza si confronta con il modello della filosofia cartesiana. Iniziamo con l’Etica, opera che non viene pubblicata e la cui stesura viene interrotta per comporre e dare alle stampe il Trattato teologico-politico (in anonimato).
Spinoza, nascita e morte; 1632-1677
Consiglio libro: Lo spettro di Spinoza, l’immagine icastica di un modo di fare filosofia di rottura con la tradizione. Spettro di Spinoza come minaccia di riduzione della religione ai termini razionali naturali da cui essa è germogliata, di materialismo - negazione degli apparati su cui si costruisce la religione giudaico-cristiana, fatalismo necessitaristico.
Spinoza è una figura già controversa a suo tempo, almeno fino agli
anni ’80 del ’700 quando Spinoza viene miracolosamente riscoperto dai
primi movimenti romantici, che trasfigurano l’immagine storica di
Spinoza trasformando la filosofia deterministica di Spinoza nella
filosofia del panteismo dinamico che ispira le
filosofie romantiche.
Hegel dice: o Spinoza o nessuna filosofia. A un certo punto nella storia
del pensiero si costruiscono figure dei filosofi
stereotipate ma funzionali e particolarmente adatte
alle esigenze delle nuove epoche. Si incontrano quindi tanti Spinoza,
che valgono tutti come elementi di rottura rispetto alla
tradizione consolidata.
Spinoza nasce nel 1632 ed è membro di una famiglia di ebrei sefarditi
(portoghesi), che erano fuggiti dal Portogallo nel 1497 quando il Re
Ferdinando aveva emanato un decreto di espulsione degli ebrei marrani
che non si erano effettivamente convertiti. Una delle mete predilette di
tutti gli esuli europei era appunto l’Olanda, una terra di grandi
libertà. Lavora come molatore di lenti.
Frequenta la scuola latina di Franciscus Van Der Hende e frequenta la
comunità ebraica, dove incontra grandi maestri, ma che assecondano la
volontà dei capi della comunità di emanare nel 1656 un herem
una scomunica nei confronti del nostro.
L’unica opera che dà alle stampe con il suo nome (in vita) sono i
Principi di filosofia cartesiana, ai quali inserisce dei
Cogitata metaphysica. Cartesio è il grande interlocutore di
Spinoza, tutta la filosofia di Spinoza è una risposta ai problemi
lasciati aperti da Cartesio.
Amsterdam, Leida, all’ Aja, Cartesio legge Cartesio, Hobbes, Cirnaus(?)
- iniziatore della filosofia sperimentale in Germania - , conosce Boyle,
Oldenburg - segretario della Royal Society e uno dei suoi principali
corrispondenti -
Einaudi ha appena pubblicato Le vite di Spinoza, una raccolta di 3 biografie di contemporanei su Spinoza. Altro libro importante è Spinoza e l’Olanda del ’600 di Steven Nadler: biografia intellettuale di riferimento di Spinoza. Nadler è un autore importante negli studi spinoziani, perché riesce a coniugare rigore e spirito divulgativo. Altro importante di Nadler è Un trattato forgiato all’inferno, testo sul Trattato Teologico-Politico.
La circolazione manoscritta di parti dell’Etica all’interno di circoli che Spinoza pensava fossero sicuri e privati porta alla sua scomunica. L’accusa principale insieme ad alcune più specifiche, è di ateismo; oltre a tutte le altre tipo l’attribuzione del pentateuco a Mosé, la qualifica degli ebrei come popolo eletto…
Spinoza nega il fondamento di ogni religione: la trascendenza di Dio rispetto al mondo. La trascendenza di Dio è il presupposto di ogni teologia creazionistica. A metà della composizione dell’Etica, Spinoza inizia la composizione del Trattato Teologico-Politico, scritto con il fine di convincere i filosofi che la sua filosofia non è una filosofia atea.
Il Trattato Teologico-politico, vuole mostrare che
la libertà di pensiero e la libertà di culto non soltanto non
sono di detrimento allo stato, ma sono i loro ingredienti
fondamentali. Se non si concede la libertà di culto le comunità
statali ed ecclesiastiche sono comunità ipocrite e costrittive.
Il Trattato Teologico-politico viene pubblicato anonimo nel
1670. La prima edizione integrale delle sue opere
(contenente l’Etica) arriverà alla morte del filosofo nel 1677.
Gli amici di Spinoza capeggiati da J. Jelles pubblicano tutte le sue
opere.
Spinoza era in contatto con i grandi dotti d’Europa. Cirnaus chiede se può far leggere i primi due capitoli dell’Etica a Leibniz (mi sembra di aver capito che sia andato in Olanda apposta), e Spinoza non glielo consente perché lo deve ancora finire.
L’Etica è la formulazione compiuta e finale del suo sistema. La prima formulazione è contenuta nel Breve Trattato, che introduce i temi dell’Etica. Quest’ultima, a differenza del Breve Trattato, compie l’intero itinerario della mente verso Dio.
L’Etica viene composta negli anni ’60 del ’600. È pronta nel 1675, due anni prima della morte di Spinoza. Tra il ’65 e il ’75 viene collocata la redazione del testo. In Francia c’era Luigi XIV, Carlo I era appena stato decapitato e c’era stata la dittatura di Cromwell; in Olanda c’erano gli Orange, e una fazione repubblicana potentissima: quella dei fratelli De Witt. I De Witt avevano in Spinoza il loro ideologo; colui che formulò le giustificazioni teoriche della loro tentata riforma repubblicana.
L’Etica si chiama Ethica, more geometrico
demonstrata. L’ordine geometrico rappresentava il modello base del
metodo da applicare nelle scienze. Il ‘600 è detto secolo
geometrico, perché è il secolo in cui la filosofia decide di
importare il metodo della geometria, un metodo deduttivo che
parte da premesse certe. Spinoza si riferisce esplicitamente
agli Elementi di Euclide.
Si parte da preposizioni immediatamente certe, definiscono tutti i
termini di cui si servono; enunciano teoremi a cui seguono
dimostrazioni, prevedono corollari come implicazioni dirette di ciò che
si è osservato, e scolii, osservazioni marginali che vengono riferite
all’oggetto della dimostrazione. Il metodo geometrico consiste in questa
struttura formale che Spinoza impone al suo oggetto. Non gliela impone
come una veste esteriore che forza il contenuto in un contenitore, ma
perché la natura del reale ha un ordine geometrico.
L’ordine geometrico non è solo espositivo, ma
corrisponde all’ordine reale dela sostanza.
La realtà come realitas (non realtà effettuale o esistenza in senso pragmatico) equivale alla sostanza. La realtà ha una struttura geometrica. Le proprietà della realtà sono già tutte contenute in essa, al di là del fatto che io le scopra o meno; sono legate una all’altra attraverso uno sviluppo immanente. Nella struttura del triangolo stanno tutte le proprietà del triangolo e tutte le proprietà a cui io arrivo mediatamente e per via dimostrativa. Per dirla in altre parole, il teorema di Pitagora era vero pure prima di Pitagora. La realtà di Spinoza è un tutto le cui proprietà possono essere ricavate attraverso un processo deduttivo a partire da elementi immanenti.
La sostanza di Spinoza è potenza, cioè una potenzialità esplicativa delle proprie qualità, esattamente come un triangolo è la potenza di esprimere tutte le proprietà di coloro che dedurrano poi queste proprietà dal triangolo. La sostanza è l’orizzonte in cui tutto si svolge, è una totalità che non lascia nulla fuori di sé; in questo senso parliamo di immanenza. Il sistema di Spinoza è un sistema monistico, ammette, cioè, l’esistenza di una sola sostanza.
Fermiamoci un momento sui titoli delle cose: i titoli sono
significativi.
Se guardiamo all’Etica, pensiamo che si definisce lo spazio
della morale, del dovere morale come distinto dal dovere dettato dalla
necessità; uno spazio in cui si presuppone una sorta di libertà staccata
dalla necessità naturale.
L’Etica è un’opera che tratta per 3/5 di metafisica. Ma allora
perché il titolo è “Etica”? Se si parla di Dio, della sostanza,
dell’anima, degli affetti? Questo è un altro dei segni del fatto che il
sistema di Spinoza è un sistema concluso:
immanentistico anche nel senso che le diverse parti
della filosofia si fondano tutte su un medesimo principio. La
sua teoria della sostanza è lo strumento essenziale per poter elaborare
una teoria della libertà.
Le cinque parti dell’Etica sono:
Questa progressione lascia intendere che l’eroe dell’Etica Spinoziana non è l’uomo buono, ma l’uomo libero. Colui che compie il cammino realizza la virtù fondamentale, la libertà, che è sia una libertà metafisica - un principio di affermazione di sé come non condizionato da altro - sia una libertà civile - la libertà di poter esercitare il proprio pensiero.
Leggiamo la prima definizione: causa sui. Una definizione perfettamente coincidente con la definizione tradizionale: qualcosa che ha in sé il principio della propria esistenza - con se concipitur, la sua essenza implica l’esistenza. Non ha bisogno di ricorrere ad altro per essere compreso.
Questa è la definizione che aveva dato CartesioCartesio della sostanza. La sostanza è ciò che è concepibile di per sé. Pertanto, Cartesio sosteneva che sostanza in senso proprio fosse soltanto Dio; res cogitans e res extensa sono sostanze create e finite, in sostanze in senso derivato che non hanno bisogno di altro che Dio per essere concepite. Questo era il fondamento del dualismo di Cartesio.
Finita nel suo genere è una cosa che può essere limitata da un’altra
di sua stessa natura.
La serie dei pensieri e la serie dei corpi seguono strumenti di
limitazione distinti. I corpi si delimitano l’un l’altro come
modificazioni della sostanza estesa. I pensieri si limitano come
limitazioni della sostanza pensante. I corpi limitano i corpi, le idee
limitano le idee. Sono due domini ontologici separati.
Per Cartesio le sostanze pensanti, le anime, si limitano tra loro perché sono create.
Sostanza è ciò che si concepisce in sé, che non deve
essere formato di nessun altro.
Ciò che Spinoza aveva concepito causa di sé è in realtà la sostanza.
Nel mondo di Spinoza ci sono anche altre cose di cui dobbiamo tenere conto: il primo è l’attributo.
L’attributo è quella cosa che io percepisco come
costituente l’essenza della sostanza.
Se non ci fossero gli attributi io non potrei conoscere la
sostanza. Attraverso l’attributo riconosco la sostanza.
Nel caso di Cartesio, la res extensa esprime l’essenza di quella sostanza; nella res cogitans il pensiero è l’attributo essenziale di quella sostanza. L’attributo è un elemento che non si può separare dalla sostanza stessa.
Il modo è modificazione. Il modo è ciò che è in
altro e per mezzo del quale è anche concepito.
Le modificazioni non sussistono di per sé come gli
attributi; i modi sono modificazioni, sono affezioni, con
Aristotele sono accidenti. Hanno bisogno di
altro per essere concepiti.
Qui c’è un lento e progressivo spostarsi di Spinoza dall’ontologia cartesiana: se il riferimento ontologico dell’ontologia cartesiana era ancora aristotelico - Cartesio era convinto che la sostanza fosse quella cose in cui si danno gli attributi che gli sono essenziali, gli accidenti che non gli sono essenziali - esattamente come pensava Aristotele, cioè che la sostanza, il substratum, “stesse sotto” agli attributi che gli ineriscono in maniera essenziale, e gli accidenti che gli ineriscono in maniera inessenziale, accidentale.
Cartesio credeva insomma che l’attributo fosse contenuto
nella sostanza, come essenza. L’essenza è
saturata dall’attributo, l’essenza è contenuta
nell’attributo.
Sostanza estesa e sostanza pensante sono essenzialmente
diverse. La sostanza si determina a seconda
dell’attributo che la riempie. La sostanza pensante è sostanza
allo stesso titolo della sostanza estesa, ma in quella sostanza
sta la spazialità. Per questo motivo Cartesio non può percepire
un corpo pensante se non c’è una res cogitans (finirebbe in una
contradictio in adiecto); questo mi costringerebbe ad ammettere
che in una sola essenza stesse l’essere pensante e in esteso; questo
significherebbe includere in una sola essenza due predicati
contraddittori, e questo per Cartesio è impossibile e
contraddittorio.
L’idea di Spinoza invece è che la sostanza abbia una sola
essenza che si esprime attraverso gli attributi; l’attributo
esprime e manifesta la totalità della sostanza.
In una sola sostanza io posso avere molteplici attributi anche
contraddittori, perché se l’attributo non occupa
l’essenza ma esprime la totalità dell’essenza, io posso pensare che la
totalità dell’essenza possa essere guardata da prospettive
diverse che sono i diversi attributi.
Posso cioè concepire la sostanza secondo l’attributo dell’estensione e
mi apparirà corporea, ma posso concepire la sostanza secondo l’attributo
del pensiero e la sostanza mi apparirà pensante. Gli attributi
esprimono l’essenza di una sostanza di per sé
indeterminata, ma che ha bisogno di un attributo per poter essere
concepita. L’attributo non è un ingrediente costitutivo
dell’essenza, ma è una modalità di espressione,
qualcosa che qualifica l’essenza in modo da renderla comprensibile.
L’essenza della sostanza di per sé non è determinata in un modo
nell’altro, ma l’unico modo con cui posso accedere alla sostanza
è trovando un attributo che ne esprima l’essenza.
L’attributo esprime la totalità dell’essenza.
Pensiero ed estensione sono secondo Spinoza gli unici
attributi di cui l’essere umano dispone per cogliere la
sostanza.
L’individuo non è per forza una delle due essenze; è entrambe. Spinoza
adotta un approccio epistemico alla questione della sostanza. Spinoza
presenta un soggetto che deve conoscere la sostanza secondo le sue
modalità conoscitive. Ma essendo quello di Spinoza un modello
immanentistico, l’uomo risulta essere parte della sostanza.
L’ente assolutamente infinito, la sostanza
che consta di infiniti attributi, ognuno dei quali esprime
un’essenza eterna e infinita.
Altra affermazione in piena consonanza con la tradizione. Ma se Dio è la
sostanza assolutamente infinita, significa che Dio è l’unica
sostanza.
Vediamo gli argomenti che lo hanno portato a formulare la tesi della unicità della sostanza, confutando il dualismo cartesiano.
La dimostrazione è una dimostrazione per assurdo, che parte dalla tesi cartesiana dell’esistenza di più sostanze finite. Finito è ciò che può essere delimitato da altro nella stessa natura. Ammettiamo che esistano sostanze finite. Queste sostanze si limitano tra loro, e per limitarsi devono avere in comune una natura, cioè appartenere al medesimo genere. Se questo genere che assumiamo è una proprietà accidentale, significa che queste sostanze non si delimitano essenzialmente, ma accidentalmente, quindi non sono davvero sostanze finite. Allora, se dico che sono finite, questa limitazione riguarda la loro essenza. Ma se riguarda la loro essenza queste sostanze devono condividere la propria essenza. Ma due sostanze che condividono la stessa essenza sono la stessa sostanza.
Esempio. Due corpi. Due corpi si limitano, si limitano secondo il principio di impenetrabilità; non posso attraversare lo spazio di un altro corpo. Come posso delimitarmi? Entrambi condividiamo la proprietà di essere estesi. Apparteniamo, cioè, alla stessa sostanza, abbiamo la stessa essenza, siamo la stessa sostanza.
L’errore di Cartesio è pensare che enti che
appartengono allo stesso dominio ontologico possono essere sostanze
finite.
Nelle Meditazioni c’è scritto che i corpi sono tutti
modificazioni dell’unica sostanza estesa. Il loro essere finiti si
spiega nel fatto che sono modificazioni dell’unica
estensione. Ciò significa che i corpi possono
corrompersi senza che si corrompa la loro essenza (come le onde del
mare). Cartesio cade in contraddizione: non
rimane coerente con le premesse del suo discorso (se delle sostanze si
limitano appartengono alla stessa sostanza; ma gli interessa dire che
l’anima è una sostanza separata perché è immortale! E quindi devia dalle
premesse del suo discorso.
La sostanza infinita è Dio. Infatti Cartesio aveva ragione a dire che
si può parlare solo di un’unica sostanza in senso eminente, solo
di Dio in senso eminente.
Per cui Deus sive natura; tra Dio e la natura non c’è un
rapporto di trascendenza; ma c’è un’unica realtà infinita che
non può contemplare nulla fuori di sé (non è limitata); questa
unica sostanza infinita la possiamo concepire come Dio, vedendola in una
certa prospettiva o come natura.
Ricapitolando, i tre livelli ontologici:
Se noi dovessimo concepire prescindendo dalla connotazione di
attributo e modo (cosa che non possiamo fare in quanto gli
attributi sono l’essenza della sostanza), astraendo e
pensando all’essenza della sostanza come qualcosa che non sia l’infinità
dei suoi attributi, noi avremmo questo ordine di
sviluppo: principio di causalità logica fatto
di inferenze, una concatenazione logica che noi però
possiamo percepire sotto gli attributi del pensiero e estensione.
Nella sostanza c’è un ordine logico necessario che si
esprime, quando lo considero sotto gli attributi, come principio
causale.
Il principio di implicazione logica così come si dà dalla
realtà è la versione visibile (tramite gli attributi) della
struttura di base della sostanza. Questo principio è un
principio dinamico.
Posso considerare la sostanza sia guardandola a partire dal fulcro di
implicazione (principio extra-temporale) sia
guardandola a partire dalle modificazioni finite che sono il
riflesso inserito all’interno del tempo di quelle
implicazioni logiche che all’interno del tempo significa
implicazioni causali.
Io posso considerare la sostanza sub specie temporis e
sub specie aeternitatis. Eternità non significa tempo
finito, ma eternità è fuori dal tempo, una dimensione
contrapposta al tempo. Spinoza chiama infatti il tempo
durata. La durata è quella condizione in cui a cause
seguono effetti che sono cause di altri effetti.
La sostanza si articola in una catena logica di momenti, che se considerati dal lato dell’estensione sono dei corpi, se considerati dal pensiero sono delle menti.
Le menti non sono altro che la medesima modificazione che io
pensavo sotto l’idea del corpo, ma sotto l’attributo del
pensiero. In questa visione, l’essere umano che Cartesio
teorizzava essere una unità sostanziale, è un falso problema, è un
problema determinato da un’ontologia dualistica erronea.
L’essere umano non è altro che un punto di articolazione della
sostanza che si può pensare come mente o come corpo.
La mente è il modo in cui io chiamo il corpo. Non c’è un problema di
parallelismo psico-fisico di Spinoza. Ci sono delle modificazioni che io
posso considerare in un modo o in un altro. Ciò non toglie che i modi
siano in un rapporto che è sub specie temporis di
causazione (connessione tra le idee per il pensiero),
sub specie aeternitatis di implicazione
logica.
L’ordine e la connessione delle idee è la stessa dell’ordine e la connessione delle cose. Alzare il braccio: dal punto di vista dell’estensione è il movimento del braccio; dal punto di vista del pensiero è l’idea di alzare il braccio. Non c’è rapporto tra queste due cose. In una prospettiva monistica, non si pone il problema del rapporto tra queste due cose.
La sostanza può essere concepita come la connessione logica
tra due modificazioni, o come la loro connessione
causale. Posso considerarla come l’irradiarsi di tutte
queste connessioni logiche (sub specie aeternitatis,
cioè fuori dal tempo) o a partire dagli effetti di
tutte queste connessioni (sub specie temporis, a partire dai
modi).
Questo per Spinoza significa considerare la natura come natura
naturata, cioè a partire da tutte le modificazioni, che si danno
sempre e solo nel tempo, oppure come natura naturante, cioè
considerata dal punto di vista dell’eternità a partire dal fulcro da cui
tutto si irradia.
Questo tipo di concezione della realtà implica una specifica concezione della libertà. Se tutto è condizionato dalla:
La libertà non si dà. Tutto sta in una connessione che non lascia scampo. L’unica cosa libera è la sostanza, che si sviluppa seguendo le leggi della propria natura. Segue il corso del proprio sviluppo e dalla propria natura. La sostanza è legge a se stessa; obbedisce a se stessa e al suo ordine. L’unica libertà è libertà a coatione, libertà di potersi condizionare senza condizionamenti. Questa libertà compete alla sostanza nella misura in cui non ha nulla fuori di sé.
Nell’Appendice a Etica I - che devi leggere - Spinoza
denuncia il pregiudizio teleologico, la causa di tutti
i mali - quello che mi fa supporre che le cose del mondo funzionino
secondo fini. Il finalismo è un ingrediente
fondamentale di tutte le etiche deontologiche, cioè che determinano il
loro oggetto secondo fini.
L’individuo che ritiene di essere padrone delle proprie azioni
si illude che la volontà sia realmente determinata dai
fini. L’esperienza della volontà che riteniamo essere libera ci fa
costruire un sistema di cause finali che noi estendiamo a tutta la
realtà.
La natura risulta buona (Bene) se si confà ai fini che riesco a
perseguire, cattiva (Male) se non mi permette di raggiungere il mio
utile; e questa natura che mi permette di raggiungere i miei fini è
necessariamente creata da un Dio che aveva in vista il mio utile; ciò
che si conforma al suo decreto è buono, ciò che non si conforma è
cattivo.
Dio avrebbe un intelletto che funziona tramite mezzi e fini, e una
volontà di realizzazione di questo progetto. La costruzione di un Dio
personale dotato di volontà e intelletto rappresenta il risultato finale
e parossistico del più grande equivoco: la libertà dei nostri atti di
volere. Noi confondiamo le cause efficienti con le cause finali.
Questa prospettiva ci porta a costruirci un’immagine della
realtà e di ciò che la trascende che è mortificante e
umiliante; l’uomo si condanna ad obbedire
all’intelligenza di un essere superiore.
I valori morali che si ritengono stabiliti da Dio (sia
in maniera volontaristica - Cartesio - che come verità eterne - Leibniz)
sono risultato di vedere il mondo attraverso le lenti illusorie del
finalismo. Bene e Male sono concezioni relative legate all’esperienza di
vantaggio e utilità che ciascun singolo individuo stabilisce come
assoluti. Non esiste un bene e male fuori dall’utilità
dell’individuo.
Come nei corpi c’è necessità, anche nelle idee c’è necessità; la
volontà non è altro che quell’atto volitivo
determinato da una causa efficiente, esattamente la stessa
causalità che spinge il pesce a mangiare l’altro.
Volontà e intelletto sono frutto dell’immaginazione degli uomini, delle
loro astrazioni. Neanche gli uomini hanno intelletto:
noi abbiamo una serie di idee che possiamo raccogliere sotto i generi
intelletto e volontà, ma che di per sé sono soltanto
idee.
A questo punto del nostro percorso c’è una ambiguità del significato di idea: viene usata nel senso cartesiano tradizionale, psicologico ,come qualcosa che sta nella mente degli uomini. Ma in termini ontologici, l’idea è il modo in cui io chiamo le modificazioni del pensierow.
Io come individuo sono il mio corpo, e l’idea del mio corpo.
L’idea del mio corpo, la mia mente, è in grado di costruire una serie di
connessioni tra le idee degli altri corpi; questo è possibile perché
ogni corpo ha un’idea ad esso corrispondente. Quando conosco qualcosa
colgo il corrispettivo ideale di quel determinato modo
finito; colgo l’idea di quel determinato individuo. Passerò dal
conoscere quel corpo come corpo al conoscere l’idea di quel
corpo.
La mente di Dio è l’insieme di tutte le idee che
corrispondono a tutti i corpi.
Vale a dire: l’attributo pensiero considerato nella sua infinità
contiene tutte le idee di tutti i modi nell’estensione, che
si diano o non si diano nel tempo, attuali o essenziali.
Questo perché il corpo dell’essere umano non è un corpo semplice, ma è un insieme di modi finiti, un insieme di corpi semplici, a cui sul piano del pensiero corrisponde un insieme di idee finite.
Cosa fa sì però che io mi riconosca come individuo? Il fatto che nei
modi finiti si manifesta la potenza della sostanza che si esprime
manifestandosi in questi movimenti, il conatus - stesso
termine che usava Hobbes per descrivere lo
sforzo del nostro corpo per produrre le immagini dei corpi -
racchiude l’insieme di questi elementi in un’unica idea di mente che in
questo modo comprende come fenomeno unitario l’insieme dei modi
finiti.
Il conatus tiene insieme le parti,
manifestando l’unità originaria della sostanza.
Il conatus è uno sforzo, una forza che tende ad esprimersi,
in maniera logica e ontologica, e si manifesta nei
modi, che hanno una loro individualità nella
misura in cui tengono insieme una spinta unitaria della sostanza.
Così come a ogni modo dell’estensione corrisponde un modo del pensiero,
negli individui c’è un’unità individuale che tiene insieme i modi finiti
raccolta intorno a un conatus che si esprime come
istinto conservativo. Questo si esprime attraverso una
pluralità. Tiene insieme mente e corpo facendo emergere l’idea
di individuo.
Alla modificazione di uno di questi modi finiti che compongono l’unità individuale, così cambiano anche le mie idee, le stesse modificazioni che occorrono sotto i modi finiti considerati dal punto di vista del pensiero. Non è concepibile per questo una conoscenza che non passi dal corpo; ogni idea infatti corrisponde ad una modificazione del corpo. Così si caratterizzano i vari tipi di conoscenza:
L’idea vera è un’idea che ha un corrispettivo nel suo ideato
- è vera la mia idea quando tutte le sue proprietà corrispondono alle
proprietà reali; cioè un’idea che rappresenta in maniera
concettuale l’oggetto a cui si riferisce,
l’ideato.
Le idee vere non sono il grado più alto di conoscenza a
cui si può giungere, in quanto considerano solo una parte
isolata del reale. Sono idee che frammentano la realtà in parti
atomiche e cioè sono corrispettivi puntuali della realtà, ma non del
posto che quella realtà occupa all’interno della serie delle
implicazioni logiche/cause.
Il grado più alto di conoscenza è quello che mi
consente di giungere alle idee adeguate. Le
idee adeguate non sono soltanto vere, ma restituiscono la realtà
nella connessione causale che la determina ad essere
com’è.
La conoscenza adeguata non può mai “estrarre un pezzo” dalle connessioni
della sostanza; la conoscenza adeguata restituisce il posto che l’ideato
occupa all’interno della connessione causale di cui esso è parte.
Concepisco qualcosa in maniera adeguata se lo riconosco come
effetto di una causa e causa di un effetto. Mi permette
di riconoscere che il numero delle cause che agiscono sul nostro corpo è
uguale al numero di tutti i modi finiti che agiscono sul nostro
corpo.
Considerando la realtà come una catena di elementi connessi da legami
causali, ogni elemento potrà essere compreso in maniera adeguata
solo se lo riconosciamo come effetto di una pluralità di cause e causa
di una pluralità di effetti.
Non posso estrapolare dal reale delle parti.
Spinoza è uno dei pochi autori pre-romantici che ammette la superiorità dell’intelletto rispetto alla ragione, ritenendo che l’intelletto sia una conoscenza immediata, non caratterizzata da una mediazione logica. L’intelletto mi fa cogliere la sostanza non come una natura naturata, ma mi consente di cogliere la connessione delle cose a partire dal fulcro da cui questa connessione si determina. Colgo intuitivamente l’ordine della sostanza e con esso l’articolazione di tutti i suoi modi. La conoscenza mi restituisce le connessioni di tutti modi esattamente come essa è nella mente di Dio, cioè esattamente come essa è nella sostanza.
A differenza di tutti gli altri autori della modernità,
l’uomo che sa usare le proprie facoltà conoscitive è capace di
una conoscenza identica a quella di Dio, perché si pone dal punto di
vista di Dio.
Mettersi nel punto di vista di Dio non significa divinizzarsi; ma se
vogliamo chiamare Dio la realtà infinita, la massima potenza (la sua
essenza implica l’esistenza), allora quando io raggiungo una
conoscenza adeguata della natura di questa realtà mi riconosco come
parte di un tutto onnicomprensivo del quale ho la stessa conoscenza che
il tutto onnicomprensivo ha di se stesso; riesco, cioè, a
coglierla nella sua totalità.
Non c’è un innalzamento, una fusione mistica. Non c’è ascetismo,
mescolamento, immedesimazione con un ente trascendente; perché
non c’è nessuna trascendenza; c’è una concezione della sostanza
tale che permette di essere colta nella totalità di connessioni nella
maniera più completa. Se vogliamo identificare con la potenza di Dio la
conoscenza più perfetta di tutta la realtà, io sono in grado di
riconoscere quella potenza anche solo dal mio punto di
vista attraverso l’intelletto.
Tutta l’Etica di Spinoza è un cammino della mente
verso Dio.
Trasforma la meditatio agostiniana in una fenomenologia, sta
parlando del cammino interiore dell’individuo che viene condotto ad una
totalità; nel caso cartesiano e agostiniano era un
cammino che arrivava ad una mente trascendente, nel
caso della fenomenologia è un cammino che si riscopre parte di
un tutto che lo includo, un tutto immanente. Nota come l’uomo
esprime un grado di perfezione della propria potenza superiore; e può
ampliare il proprio sguardo in questo senso.
Dato che a ogni corpo è identica un’idea, ogni nostra conoscenza
implica una azione o una passione.
Una modificazione fisica sul piano delle idee si traduce in una
teoria degli affetti, di letizie e tristezze che
accompagnano le modificazioni del corpo e traducono nel
linguaggio mentale una modificazione soltanto fisica.
Letizia si ha quando nel corpo c’è un aumento di
potenza, tristezza quando c’è una diminuzione di
potenza. Ogni passione che io subisco a livello fisico, ogni volta che
io sono passivo nei riguardi di un ente, io subisco una
diminuzione della mia potenza, perché quell’ente mi limita.
Questa diminuzione di potenza è una
tristezza. Quando io mi affermo nella mia realtà, ho
invece una letizia, un senso di accrescimento e di
appagamento.
In Etica III, degli affetti, Spinoza afferma esplicitamente che parla di affetti e non di passioni (come Cartesio 1649), perché non tutti gli affetti sono passivi, non tutte le modificazioni che avvengono nell’ambito del pensiero sono passivi. Così come nei movimenti fisici distinguo azioni e passioni, faccio questa distinzione anche considerandole dal punto di vista della Mente.
Ogni volta che io sono causa adeguata di qualcosa, agisco, e aumenta la mia potenza e la mia gioia. Quando io sono effetto di qualcosa, patisco, e diminuisce la mia potenza, aumenta la mia tristezza.
Per essere causa adeguata di qualcosa, cioè non
generare un effetto atomizzando il reale e considerandone una minima
parte, ma essendo una causa a cui sono riconducibili tutte le
modificazioni di quel corpo, io esercito la mia potenza al grado
sommo: quando io ho in me il principio della potenza di
qualcos’altro, io sono massimamente potente.
La causa inadeguata mi spiega soltanto un pezzetto di ciò che avviene
nell’effetto, al quale concorreranno altre cause che messe tutte insieme
costituiranno una causa adeguata.
Si ha un’idea adeguata di qualcosa quando si è causa adeguata di
qualcosa, cioè quando ho in me il principio che
determina qualcosa ad essere esattamente quello che è, nella sua
connessione con tutto il resto.
La conoscenza propriamente adeguata è solo quella che
raggiungo attraverso l’intuizione intellettuale.
L’idea adeguata è una condizione esistenziale, è la condizione che mi
porta a considerare la realtà dal punto di vista del fulcro di potenza
che genera tutta la realtà, e quindi mi rende una sola cosa con
Dio, io sono l’intera realtà considerata dalla
prospettiva di quel modo finito.
Non è vero che i modi finiti possono avere solo una conoscenza
finita, limitata e inadeguata. Quando gli anelli si
concepiscono come anelli di una catena complessiva, io posso vedere
tutta la catena.
C’è discordia tra gli uomini quando le connessioni che stabiliscono tra le cose (le catene di causalità) sono frutto dell’immaginazione; questo ci spiega perché l’immaginazione è il terreno su cui attecchisce la superstizione, che crea connessioni arbitrarie tra le proprie azioni e gli effetti delle loro azioni. Nel mondo dell’immaginazione, ognuno vive nel proprio mondo. Gli uomini che raggiungono una conoscenza adeguata, invece, non potranno che concordare.
La verità è premio a se stessa, è luce a se stessa, dice Spinoza. Quando io colgo qualcosa in maniera vera e adeguata non ho bisogno di un atto di assenso, una conferma.
Ma dobbiamo capire come da questi aspetti ontologici ed epistemologici si arriva al problema dell’Etica. Il problema dirimente diventa: come possiamo dominare le passioni? La soluzione prospettata da Cartesio nelle passioni dell’anima era: la mente deve generare nel corpo una passione contraria attraverso le sue idee. La mente, riuscendo a muovere la membrana della ghiandola pineale deve suscitare un movimento contrario a quello che si vuole contrastare. Ma le passioni non ascoltano la ragione, bisogna parlare il linguaggio delle passioni e contrastarle sul loro terreno, per Cartesio.
Nell’Introduzione alla III parte dell’Etica (p. 234
ed. cit.), Spinoza accusa i filosofi di aver considerato l’uomo come
un impero nell’impero, cioè capace di interrompere la catena
causale che lo determina. In questo senso la filosofia di Spinoza è un
naturalismo: non c’è nulla che si sottrae
all’unico principio che spiega tutta la realtà.
Anche le passioni funzionano quindi come tutto il resto della natura.
Dobbiamo spiegarle quindi per quello che sono.
La passione è assoggettamento. Tutti gli affetti
negativi o passioni sono condizioni di impoverimento dell’animo umano, e
seguono a conoscenze inadeguate. Quando io non domino
la catena delle cause che producono quell’effetto diminuisce
l’adeguatezza del mio essere causa, e diminuisce la mia potenza.
Questo mi rende sempre meno libero, sempre più
schiavo.
La schiavitù è la libertà vanno lette sempre nella chiave, l’unica
spinoziana, di libertas a coatione; è una partita che si gioca
all’interno dei rapporti di causa-effetto.
È libero massimamente Dio, la sostanza, perché è causa di tutto e non è
causato da niente. È libero chi agisce, ed è schiavo chi patisce. Dunque
l’affermazione della libertà, e quindi l’affermazione della potenza
segue l’incremento della conoscenza. Più conosco e più sono causa
adeguata più aumento la mia potenza, più gioisco. Meno conosco, più
patisco, più diminuisco la mia potenza, più aumenta la mia tristezza,
che sopprime un istinto vitale, andando in una direzione contraria a
quella della sostanza.
La mia essenza è invece dare libero sfogo, togliere gli
ostacoli alla natura della sostanza di cui io sono una
manifestazione.
Per questo motivo una considerazione della realtà mutila, settoriale, è
controproducente.
La sostanza cerca di far emergere le proprie espressioni in tutta la
loro potenzialità. C’è infatti una solidarietà tra gli elementi
della moltitudine umana, della comunità umana. Tutti sono
ontologicamente uguali, modi finiti della sostanza; il rispetto del
prossimo passa dalla conoscenza di questa cosa.
In ciò la filosofia spinoziana è toto caelo diversa dall’invito socratico del Fedone della filosofia come esercizio di morte…La filosofia di Spinoza è una filosofia per la vita. Nulla è più lontano dal filosofo dell’idea della morte, perché la morte è l’annientamento della sostanza.
La socievolezza degli uomini ha la propria
radice nell’aspetto ontologico della natura umana, cioè
quella di essere un modo finito della sostanza in connessione
con tutti gli altri.
Non si tratta quindi dell’uomo come animale sociale, ma di una
costituzione prettamente ontologica. L’altruismo che
caratterizza l’uomo non è una declinazione positiva di un’antropologia
ottimistica, ma una considerazione di affetti ontologicamente fondata
sul fatto che ad un aumento di potenza corrispondono affetti
positivi.
L’eroe dell’Etica di Spinoza non è l’uomo buono, ma è l’uomo libero. Questo perché la bontà è frutto dell’immaginazione dell’uomo; invece la libertà significa essere nella stessa posizione in cui è Dio, massima potenza: non è causata da nulla, ma causa tutto. Essere liberi significa conoscere la catena delle cose. Se si conosce la catena delle cose ci si concepisce come membro attivo di quella catena.
Il cammino verso la virtù dell’Etica è un cammino che dovrà
essere garantito anche al volgo, che però non può permettersi gli
strumenti del filosofo. A questo serve il Trattato
Teologico-Politico.
Questo testo ha un obiettivo politico diretto: l’accusa di
ateismo.
L’idea di fondo del trattato è che deve esistere un modo
diverso dalla filosofia, che è l’itinerario della mente verso
Dio, per condurre anche il volgo a Dio. La religione
serve a farci diventare esseri morali, a farci affermare le stesse cose
che si affermavano nell’Etica; ma dal momento che il volgo non
può servirsi di una strumentazione filosofica. La religione parla la
lingua del volgo, la lingua dell’immaginazione.
Utilizzando un linguaggio comprensibile a chi non è
filosofo conduce anche il volgo verso il regno dei cieli. Ma in
virtù del fatto che non utilizza il linguaggio dela ragione, la
religione non ci insegna la verità, non ci può dare una
conoscenza inadeguata. La religione è sempre conoscenza
inadeguata, si muove nell’ambito
dell’immaginazione, ma ha un valore morale,
fornendo un insegnamento in cui l’uomo non viene educato a essere libero
ma al quale l’uomo è obbligato ad obbedire.
La religione comanda, la ragione non
comanda. La ragione spinge con la sua forza,
il vero ha una attrazione a cui non posso resistere. La
religione non ha la potenza di trarre un assenso,
è un comandamento a cui mi viene chiesto di
obbedire.
La ragione è un principio di
autonomia, un comando che do a me stesso; la religione mi
obbliga ad obbedire a un comando esterno. Questo è il divario su cui si
giocherà tutto il dibattito illuministico. Il Settecento indagherà i
fondamenti epistemici di questi due estremi, obbedire a un principio
esterno o obbedire a un principio interno, e cercherà di mediare,
cercherà di trovare delle soluzioni intermedie.
La soluzione arriverà da Kant: l’esistenza della fede razionale pura - quella fede che ti impone di dare l’assenso sull’esistenza di determinate verità fondato sulla conoscenza trascendentale della ragione. Fede e ragione sono una la matrice dell’altra. La fede razionale pure (non quella statutaria dottrinale della Rivelazione) è la risposta che la ragione dà a un suo bisogno inestirpabile; la necessità di andare oltre a un mondo di conoscenze scientifiche ma entro il quale non si può trovare la mia natura di essere umano. La ragione secondo Kant ha una patologia: deve abbandonare; ha un istinto opposto a quello che ci tiene vincolati a casa, deve lasciare i guanciali del suo sonno, e andare via; deve andare via e perdersi nel mare della metafisica; e quindi, tutta impaurita, torna sull’isola della verità.
Schelling scriverà Fede e Sapere, la conclusione della spaccatura che Spinoza aveva aperto.
Abbiamo visto che, essendo la sostanza l’unica al mondo, tutte le cose del mondo sono dei modi finiti, cioè modificazioni della sostanza concepita secondo i suoi attributi. Tutte le cose del mondo sono forme di realtà che non hanno esistenza necessaria come la sostanza – che è causa di sé stessa – ma hanno il principio della propria esistenza in altro, cioè nella sostanza.
Questo riguarda anche l’ente per eccellenza ovvero l’essere umano: l’essere umano non è una sostanza – a differenza di quanto sostenuto fino ad allora – ma è un punto dello sviluppo della sostanza. L’essere umano è un modo finito che può essere considerato come mente o come corpo (a differenza da come lo si guardi, se a partire quindi dal pensiero o dall’estensione). Abbiamo inoltre visto come questo squalifichi il grande problema della filosofia cartesiana ossia il commercio psicofisico: non è più un problema spiegare come comunichino anima e corpo perché anima e corpo non sono più viste come sostanze eterogenee a cui manca una cerniera di traduzione dei messaggi dell’uno nei confronti dell’altro. Anima e corpo sono due modi di considerare l’unico punto di sviluppo della sostanza.
Cos’è dunque la sostanza?
La risposta di Spinoza sarebbe “la sostanza è un ordine necessario
di connessione logica tra premessa e conseguenza, ossia un ordine di
implicazione che si manifesta passando dal punto di vista logico a
quello metafisico nel rapporto tra cause e gli effetti di queste cause
efficienti”. C’è un ordine parallelo tra
sviluppo logico della sostanza – premesse e conseguenze
– e l’ordine metafisico tra cause ed effetti che
stabiliamo; ed è per questo che l’ordine, e la connessione dei corpi del
pensiero (delle idee), è il medesimo ordine e la medesima connessione
dei corpi e dell’estensione. Le modificazioni che occorrono nel corpo
hanno un corrispettivo nelle modificazioni che occorrono nella mente
perché mente e corpo sono la stessa cosa (cioè sono lo stesso punto di
sviluppo dell’ordine della sostanza).
La sostanza è concepita come potenza: non è qualcosa di statico – di immobile – ma è una continua potenza di manifestazioni delle implicazioni logiche: se noi diciamo che i modi della sostanza – tutte le cose finite – sono elementi contingenti perché non hanno in sé il principio della propria esistenza, con ciò non vogliamo dire che si sottraggono all’ordine necessario della sostanza; e questo perché c’è una necessità che lega ogni effetto alla sua causa. Vi è una contingenza ontologica dei modi nella misura in cui questi ultimi non hanno in sé il principio della propria esistenza bensì la hanno negli attributi.
L’individuo è formato da una mente – che Spinoza concepisce come
“l’idea del corpo” – ma l’individuo è capace di conoscenza (cioè è
capace di accogliere altre idee).
Se noi pensiamo che l’individuo è calato in questa rete di rapporti
necessari che lo legano agli altri individui in una rete di casualità
deterministica, noi possiamo capire che tutto ciò che conosciamo –
quindi qualsiasi modificazione delle nostre idee della mente –
corrisponde a una modificazione del corpo. Il corpo è
calato in una connessione con gli altri corpi come elemento di
una serie causale (causa – effetto), e lo stesso accade
per le idee nella nostra mente. Questo accade perché il corpo
dell’essere umano non è un corpo semplice bensì un insieme di modi
finiti a cui corrisponde – sul piano del pensiero – un insieme di idee
finite.
Cos’è che tiene insieme il corpo dell’individuo e fa sì che io mi
riconosca come corpo distinto rispetto agli altri? Il fatto che nei modi
finiti si manifesti la potenza della sostanza e il fatto che il corpo
individuale condensa un gruppo di modi finiti in grado di svolgere
funzioni vitali?
Il conatus è uno sforzo che tende ad esprimersi in
maniera logica e si rende manifesto nei modi
che hanno una loro individualità nella misura in cui tengono insieme una
spinta unitaria della sostanza.
Al cambiare della modificazione di uno di questi modi finiti che
compongono il corpo individuale, così cambiano anche le mie idee. È per
questo che non è concepibile – a differenza di quanto
pensava Cartesio – una conoscenza che non passi dal corpo: perché
ogni conoscenza – ogni idea – è il
lato “cogitativo” di una modificazione che avviene nel
corpo.
Perché Spinoza parla di “modi” e non di “accidenti”? Perché gli accidenti portano con sé un elemento di contingenza che nella metafisica di Spinoza va preso con estrema cautela perché, in un sistema in cui c’è un’unica sostanza che è strutturata in maniera geometrica (ovvero è strutturata secondo rapporti d’implicazione logica e di causazione efficiente), non è possibile trovare uno spazio di contingenza se per “contingenza”, appunto, s’intende “ciò che si sottrae alla necessità”. [“Contingente”: è ciò che può essere e può non essere; “Necessario”: ciò che può non essere].
Si può dire che “i modi sono contingenti” se con ciò intendiamo che non esprimono la necessità della sostanza; e quindi che non devono necessariamente esserci perché hanno il loro principio di esistenza (e di non esistenza) in qualcos’altro. È giusto sottolineare come, tuttavia, i modi fanno parte di questa articolazione spinoziana del Reale la quale non ammette eccezioni, quindi seguono anche loro una connessione di causalità efficiente che li connette in una rete causale dalla quale niente scappa.
A partire da questo si prospetta una progressione dei gradi della
conoscenza.
Attenzione: Con Spinoza si utilizza il termine conoscenza adeguata e non
“conoscenza vera” in quanto le idee vere non sono il grado più alto di
conoscenza cui si può giungere - sono idee che considerano una
parte isolata del reale. Sono idee che frammentano la realtà in
parti atomiche e che sono, dunque, corrispettivi puntuali di una
porzione della realtà (ma non del posto che quella determinata
porzione di realtà occupa all’interno della serie di cause visto che il
grado più alto di conoscenza è quello che mi permette di giungere alle
idee adeguate).
Le idee adeguate sono idee non soltanto vere – cioè che restituiscono l’ideato – ma inoltre lo inseriscono all’interno di quella connessione causale che lo determina ad essere quello che è sicché la mia conoscenza non potrà mai essere in grado di irretire le scomposizioni della sostanza, proprio perché quella è una conoscenza che mutila il pensiero immerso in una connessione di causa-effetti necessari.
La conoscenza adeguata sarà sempre una conoscenza che restituisce, insieme all’idea dell’ideato, il posto che l’ideato occupa all’interno della connessione causale di cui è parte. La conoscenza intellettuale è una conoscenza intuitiva che mi fa cogliere la sostanza non come natura naturata - quindi non come una pluralità di modi finiti dei quali io costruisco i rapporti di causa effetto che saranno necessariamente limitate dalla logica del tempo - ma attraverso cui si coglie l’ordine della sostanza (e con esso l’articolazione dei suoi moti).
Una conoscenza adeguata è una conoscenza che restituisce
l’ordine di tutti i modi esattamente come essa è nella mente di
Dio, ossia esattamente come essa è nella sostanza.
Con Spinoza, a differenza di tutti gli autori della modernità, l’uomo
(il filosofo) è capace di una conoscenza identica a quella che ha Dio
perché il filosofo si pone dal suo punto di vista. Il punto di vista di
Dio è il punto di partenza di quella potenza esplicativa che noi siamo
abituati a considerare con gli occhi dell’immaginazione.
Non dobbiamo cioè pensare a una sorta di innalzamento tra le menti finite e la mente infinita Dio perché non c’è nessun misticismo e nessuna trascendenza di uomini che si elevano a Dio, bensì c’è una manifestazione della sostanza che, concependosi come manifestazione parziale di un’unità di connessioni, coglie l’unità di connessioni nella maniera più completa. È questa la conoscenza di Dio.
Tutta l’Etica di Spinoza è un itinerarium mentis ad
deum: un cammino della mente verso Dio, dove questo “Dio”
non è un principio trascendente bensì immanente.
Per “cammino” s’intende il cammino interiore che conduce l’uomo
a una totalità che, nel caso della tradizione
agostiniana-cartesiana, era il cammino di una mente individuale che
arriva a un Dio trascendente, mentre nel caso di Spinoza si fa
riferimento a un individuo che si scopre parte di una totalità di cui
egli stesso fa parte.
Il Dio di Spinoza è la natura e non ha nessun tipo di volontà o
intellezione: in natura non c’è alcun tipo di
intelletto o volontà perché, secondo Spinoza,
intelletto e volontà sono le maniere in cui noi -
arbitrariamente – ci creiamo degli universali, ossia
tendiamo a raccogliere alcune nostre idee come “idee che determinano
azioni” e le chiamiamo “appetiti o volizioni”, rubricandole così sotto
l’etichetta “volontà”.
Con Spinoza si ha per la prima volta un soggetto che è ben determinato da tutte le cause che lo circondano e che rendono preciso il posto che quel soggetto occupa all’interno degli esseri.
Tutti gli elementi che riducono il comportamento umano sono il principio della natura, ed è per questo che Spinoza si propone di considerare le passioni come elemento della natura che ha pari dignità con tutti gli altri elementi della natura, prospettando in questo modo una “geometria delle passioni”.
Il conatus è la potenza che si riflette all’interno dei singoli ed esso è a fondamento della “teoria degli affetti”. È bene sottolineare come Spinoza non parli di passione perché essa indica non solo un atteggiamento di passività ma anche un tipo di rapporto tra il modo e ciò che lo determina.
Spinoza parla più genericamente di affetti – ossia quello che oggi identifichiamo con le emozioni - e non di passioni (così come aveva fatto Cartesio in Le passioni dell’anima – 1649) perché “gli affetti sono il movimento del mentale”. Secondo Spinoza gli affetti sono riconducibili a due famiglie:
Gioia e Tristezza sono il correlato emotivo – cioè correlato sul piano del pensiero - delle interazioni che i corpi hanno tra loro. Ci sono interazioni in cui il corpo viene aumentato nella sua potenza, e questo tipo di movimento meccanico si legge in due modi:
Le passioni - e questa è un’altra affermazione anti-cartesiana di Spinoza - non sono di per se qualcosa di negativo ma fanno parte dei movimenti che occorrono in natura.
È per questo che non bisogna guardare alle passioni come aveva fatto Cartesio - cioè come un qualcosa che va domato dalla ragione – perché esse, come tutto ciò che appartiene alla natura, non sono di per sé né buone né cattive bensì sono semplicemente la maniera in cui noi, in quanto menti, vediamo le interazioni che il nostro corpo ha con gli altri corpi.
Dal momento che il conatus (l’istinto di sopravvivenza) segue la legge della sostanza, gli uomini sono più portati a tendere verso la letizia che alla tristezza (proprio perché la sopravvivenza tende a preservare l’uomo, e quindi a tendere alla gioia). Si dà tutto ciò perché uomini cercano nella felicità le cose che servono all’incremento della loro potenza individuale.
Come visto, la teoria etica di Spinoza non è una teoria volta a “fare il bene” (perché il bene non esiste ma è solo un costrutto sociale dato dal mos maiorum) ma il suo fine è quello di consentire alla sostanza di manifestarsi nella sua forma più piena e senza ostacoli. Ogni Modo deve realizzare, nella maniera più piena, il posto che occupa all’interno della catena dell’infinito che sta nella sostanza.
Lasciando che possa esprimere la sua potenza più piena. Ogni Modo finito spinge per occupare pienamente il posto che gli spetta all’interno dell’articolazione della sostanza, e nel caso della natura umana questo significa conseguire una conoscenza adeguata di ciò che lo circonda (ossia rivedere la semantica degli affetti e non considerarsi più “vittime di una passione” ma determinarsi attivamente ed essere causa attiva di ciò che ci circonda).
Quando è “autonomo”, cioè quando nelle azioni non si è diretto da
altro fuorché da egli stesso.
Liberare l’anima dalla schiavitù vuol dire affermare la libertà,
togliere le cause di degradamento della potenza per introdurre le
ragioni di aumento della potenza. È per questo che “l’amore
intellettuale” è il più positivo degli affetti.
L’amore intellettuale nei confronti di Dio è l’affetto che
accompagna la forma più adeguata di conoscenza.
È per questo che l’eroe dell’etica spinoziana è un uomo
libero. Si badi bene: non “l’uomo buono” (non esiste l’uomo
buono nella metafisica spinoziana in quanto costituiti da molti difetti
etici quali l’invidia o l’ignoranza) ma “l’uomo libero” in quanto è
colui che non subisce, in una condizione mortificante,
l’insieme dei condizionamenti esterni.
L’uomo libero è causa adeguata delle sue azioni perché sa quando le sue azioni sono dirette dalla conoscenza adeguata dei nessi tra i modi della sostanza. Così come la verità è criterio di paragone di sé stessa (io so che qualcosa è vera non perché corrisponde perfettamente alla cosa che mi rappresento ma perché mi si rivela immediatamente nella connessione ordinata di elementi che scaturiscono dall’ordine della sostanza), allo stesso modo l’agire morale (ossia l’agire che asseconda la potenza del conatus) è premio a sé stesso.
Ho un’idea adeguata di qualcosa quando
conosco, in maniera adeguata, tutta la connessione
delle implicazioni – logiche e casuali – e tutte le
articolazioni della sostanza in tutte le loro connessioni.
Non è dunque vero che i modi finiti hanno una conoscenza finita: i modi
finiti hanno una conoscenza limitata quando si concepiscono in un
orizzonte di conoscenze molto stretto, ma le cose cambiano quando si
concepiscono come anelli di una catena complessiva.
Spinoza spiega come si crei discordia quando le connessioni che stabiliscono le catene di casualità sono frutto dell’immaginazione, e questo perché, in quel momento, ognuno si crea le immagini che vuole.
Spinoza introduce un ulteriore ingrediente nella sua metafisica,
ovvero quell’elemento che consente di passare da questa totalità
all’identificazione di singoli elementi: i modi immediati
infiniti.
I modi immediati infiniti sono la cerniera che uniscono
la totalità della sostanza con la molteplicità individuale del
Reale.
Perché “modi immediati infiniti”?
I modi immediati infiniti cioè raccolgono, in potenza, la totalità degli individui che si potranno specificare all’interno della sostanza e sono – riguardo all’attributo dell’estensione – le leggi del moto e della quiete (sono quelle leggi che governano il dominio dell’estensione e che consentono all’estensione di specificarsi in tutte le sue modificazioni. Sono dei principi che consentono di spiegare la maniera in cui, da una totalità, si arriva a una molteplicità).
Secondo Spinoza le leggi del modo della quiete sono quel principio immediato che segue l’estensione il quale consente, a sua volta, la specificazione dei singoli corpi. Nella metafisica spinoziana i modi immediati infiniti sono quello che Spinoza chiama “l’idea infinita di Dio”, ossia la maniera in cui in Dio – cioè nella sostanza – stanno le realtà formali di tutte le cose.
Se si considera, dunque, la natura (ossia la sostanza, tutto ciò che è) sotto l’attributo del pensiero, io avrò – come modo immediato infinito (ossia come principio di determinazione che segue immediatamente dall’attributo), le Realtà formali di tutte le cose, cioè tutti i pensieri di Dio. I pensieri di Dio, in una metafisica panteistica, sono le determinazioni formali di tutto il possibile (ossia del reale). Il Dio di Spinoza non è il Dio della religione e non è un’entità personale.
Secondo Spinoza in natura non ci sono né intelletto né volontà bensì delle “Idee come modi immediati e finiti nelle menti degli uomini” e “Idee come Modi immediati e infiniti nella mente di Dio” (Dio = sostanza concepita secondo l’attributo pensiero).
Il panteismo spinoziano permette di risolvere il problema dell’unità sostanziale tramite i corpi: quello di capire come anima e corpo stiano insieme non è più un “vero” problema perché anima e corpo, secondo Spinoza, sono la stessa cosa vista da due prospettive differenti.
Dal momento che Cartesio ha spiegato che l’estensione equivale a passività e inerzia, Spinoza era consapevole che la sua concezione di Dio come “una cosa estesa” avrebbe suscitato non poche critiche. Per questo Spinoza specifica che tutte quelle proprietà (passività, inerzia, etc) che tendiamo ad attribuire all’estensione non sono delle proprietà che gli appartengono in senso stretto ma che, in realtà, sono soltanto delle proprietà delle modificazioni dell’estensione (corpi) quindi, a ben vedere, non vi è nessuna implicazione eretica nel pensare a Dio come una “cosa estesa” poiché Dio è la totalità del reale.
Spinoza specifica ciò perché per Cartesio le idee avevano una realtà oggettiva e una formale:
Come si spiega l’origine empirica della conoscenza
tra corpi in Spinoza?
Ogni corpo ha un corrispettivo sul piano delle idee e quando si arriva
conoscere qualcosa, lo si conosce sempre a partire dal fatto che
il nostro corpo è sempre in contatto con altri corpi.
È per questo che Spinoza crede che la conoscenza sia qualcosa
che parta dai sensi e dall’immaginazione e s’innalzi ad altri
gradi che sono:
L’immaginazione è l’altra facoltà della natura umana accanto alla ragione e all’intelletto (che, ripetiamo, sono le facoltà che conducono alla conoscenza vera e propria).
Capiamo come non possano darsi delle idee che non hanno un corrispettivo nell’estensione, ma la mente umana è in grado di stabilire delle connessioni tra le idee che si discostano dalle connessioni circa i modi della sostanza (e quindi dalle connessioni che si vedono tra corpi), e questo lo fa attraverso l’immaginazione. L’immaginazione consente di stabilire delle connessioni arbitrarie – cioè senza essere vincolato a nessuna regola – fra le idee.
Spinoza suole distinguere nelle sue opere un “mondo dell’immaginazione” e un “mondo della ragione” (dove per “ragione” s’intende quelle che sarebbero chiamate “facoltà conoscitive superiori”, quindi “ragione” e “intelletto”). Questi mondi sono popolati, a loro volta, da “uomini di Immaginazione” e “uomini di ragione”.
Diceva Spinoza: “La verità è luce a sé stessa”. Quando io colgo qualcosa in maniera “vera e adeguata” non ho bisogno di un atto d’assenso da parte dei miei simili perché una conoscenza adeguata, sommamente vera, è “prova a sé stessa” perché rispecchia le connessioni vere che vi sono nel mondo. Questo è un passo che verrà ripreso anche da Kant.
Spinoza parla della sostanza come “realtà che ha una potenza attiva”. La potenza “attiva” sta:
Dove sta l’origine del pregiudizio finalistico dell’uomo di immaginazione - che per Spinoza rappresenta una patologia incurabile dell’umanità con delle conseguenze gravissime (dal momento che, tramite un pregiudizio finalistico, vi sono uomini che si arrogano il diritto di pronunciare che Dio sia fatto in una maniera diversa?
Spinoza sostiene che il pregiudizio finalistico si origini da tutti gli uomini che s’illudono di essere liberi di scelta e di poter fare come vogliono, abituandosi così a dare spiegazioni sulla base dei fini a cui tendono, ignorando le cause del loro agire. Si abituano dunque a non essere soggetti alla causalità degli elementi della natura, illudendosi che tutto ciò che esiste nella natura funzioni secondo fini.
Da ciò deriva il fatto che gli uomini, pensandosi liberi di trovare dei fini a tutto, arrivano a concepire, con l’immaginazione, un “Intelletto Infinito” che ha predisposto una natura con dei fini alla attraverso un progetto che rispondesse a un fine ancora più alto, ossia quello della gloria divina.
Una delle conseguenze dirette di questo tipo di espansione del pregiudizio finalistico fino ai finalismi della Creazione è la superstizione: quello che tendono a fare gli uomini è cercare di capire come compiacere al Creatore, quindi se qualche corso d’azione si dimostra cattivo e sfortunato è perché – secondo gli uomini d’immaginazione - Dio ha suggerito che quei corsi d’azione intrapresi non gli sono stati graditi.
Detto questo, secondo Spinoza non è volontà delle autorità
spirituali e temporali fare uscire gli uomini dal regno
dell’immaginazione (e quindi quello della credenza di un Dio
finalistico e delle superstizioni) perché è molto più facile
governare attraverso il timore o le speranze.
Timore e speranza diventano così strumenti
estremamente efficaci per esercitare un dominio sugli individui
che ha, tuttavia, il prezzo di non consentire agli individui di
conseguire il fine della Beatitudine, ossia del compimento del
perfezionamento della propria natura umana il quale deve passare,
necessariamente, attraverso la conoscenza.
Il pregiudizio finalistico secondo Spinoza è il
responsabile della superstizione e della falsa convinzione
dell’assolutismo dei valori morali; infatti siamo portati a
pensare che sia bene ciò che provoca appagamento o diletto, mentre si
pensa che sia male ciò che provoca avversione e disgusto.
Per Spinoza nulla è “bene” o “male” in natura perché il “bene” o
il “male” come concetti morali – ma anche come nozioni
estetiche – sono riconducibili a una concrezione immaginativa
che l’uomo tende a proiettare sulla realtà.
La realtà non è né buona né cattiva perché il Dio di Spinoza non è volontaristico e, a un certo punto, Egli ha deciso le cose benevoli. “Bene” e “Male” sono concetti umani che derivano solo dai pregiudizi finalistici che fanno pensare:
Ciò che succede nella natura va al di là del bene e del male: “Bene” e “male” hanno una genealogia umana che affonda le sue radici nell’ignoranza della vera natura del Reale e ha una grande efficacia dal punto di vista coercitivo.
In natura non esiste libertà perché l’unico spazio di libertà possibile è quello della sostanza: la sostanza è libera perché non è necessitata (nel senso che non c’è niente al di fuori della sostanza che possa determinarla). La sostanza è libera perché ha in sé il principio della propria esistenza. Come possiamo notare l’unico elemento della metafisica spinoziana cui si può riconoscere una forma di libertà è solo la sostanza mentre gli uomini, come modi finiti della sostanza, non sono liberi in quanto le azioni umane si spiegano sulla base del condizionamento antecedente determinato da altri modi finiti.
Come si può dunque formulare, nell’Etica spinoziana, un eroe che sia un “libero”? In che cosa consiste questa “libertà”? La libertà consiste nel riconoscersi come elemento di una necessità universale che l’uomo non subisce come “anello di una catena” o come “meccanismo all’interno di una macchina”, bensì come ente che partecipa attivamente a una necessità universale. Ed è per questo che la via verso la libertà è una via che deve passare attraverso la conoscenza.
L’immaginazione è quella facoltà che rende vittima del pregiudizio finalistico e che condanna a:
Per aspirare alla dignità, l’uomo deve intraprendere la via della conoscenza che passa attraverso:
Per Spinoza il tempo è un ingrediente fondamentale della conoscenza
razionale perché sotto la prospettiva del tempo si guarda alla la
natura naturata.
Il tempo è quella maniera in cui l’uomo organizza la natura
naturata. La sostanza spinoziana è l’assolutizzazione della Realtà
della mente di Dio, e il tempo s’introduce quando quelle idee che stanno
nella mente di Dio escono per darsi nella realtà effettiva.
Quando le idee passano a una condizione di esistenza, il tempo diventa un ingrediente fondamentale per la loro interazione. Dal momento in cui la sostanza ha tutte le sue articolazioni che si possono considerare “l’insieme dei finiti che stanno in una connessione tra di loro (natura naturata)”, questi finiti sono regolati da leggi del moto e quiete che richiedono necessariamente il Tempo. Il Tempo è dunque un ingrediente importante per il rapporto di questi elementi in quando considerati come modi finiti di una sostanza.
Quando non si considera più la natura come “naturata” e si cambia prospettiva con l’intelletto** – quindi si passa da un procedere discorsivo a un procedere intuitivo – si guarda la natura come “naturante”, ossia come sostanza al centro di quella potenza “attiva” da cui tutto scaturisce. Così, con un principio di causalità e di implicazione che sta fuori dal tempo, si arriva a una conoscenza sub specie aeternitatis, ossia il più alto livello di conoscenza che restituisce la realtà esattamente com’è nelle sue determinazioni e connessioni.
La conoscenza intuitiva risulta essere la conoscenza adeguata perché, attraverso essa, si vede sub specie aeternitatis, liberandosi dunque della limitazione del tempo, la connessione logica che sta tra tutti i modi finiti.
Quando si assume la prospettiva dell’eternità “intuitivamente”, l’uomo vede la totalità del Reale come rete di connessioni all’interno della quale ogni fenomeno occupa quel punto (non potendone occupare un altro), e in questo senso si dice “adeguata” perché, in questo modo, non si vede soltanto la causa e gli effetti limitrofi, bensì tutta la serie delle casualità che hanno determinato quel modo particolare e tutti gli effetti che quel modo particolare potrà avere.
Perché il filosofo che ha percorso questo cammino e che ha acquisito una conoscenza sub specie aeternitatis è libero? Perché sarà libero dalle passioni. L’uomo di Spinoza non determina le proprie azioni a partire da quella prospettiva angusta e “viziata” del pregiudizio finalistico dei timori, delle speranze e degli affetti che necessariamente fanno parte della vita concreta.
Ma come facciamo a liberarci degli affetti?
Per via conoscitiva: non appena l’uomo assume la
prospettiva dell’eternità (sub specie aeternitatis) e non
appena considera le cose in maniera adeguata come parti di una catena di
necessità di cui anche l’uomo fa parte, le passioni cessano di
essere tali. È attraverso la via conoscitiva che l’uomo
prende atto della bausalità come la legge della stessa
natura.
L’individuo che si riconosce come parte della sostanza, riconoscendosi come inserito in quest’ordine di determinazione della sostanza, afferma massimamente la propria libertà, e inoltre, la condizione contemplativa della conoscenza diventa il maggiore affetto che l’uomo può disporre.
Il modello più alto della natura umana si realizza nell’uomo che:
Il cammino dell’Etica è una liberazione dalle passioni negative che ha come strumento la conoscenza: se io conosco le cause dei movimenti che generano le cause negative, le trasformo in passioni positive e, in questo modo, si libera l’anima dalla schiavitù. La libertà per Spinoza sta nella capacità di rendersi attivi e di non subire costrizioni dall’esterno.
L’uomo libero è al di là delle determinazioni morali relativistiche che appartengono all’immaginazione e al pregiudizio teologico. L’uomo diventa libero quando accede al percorso della conoscenza. La libertà diventa il lasciare spazio a quel conatus che ogni manifestazione della sostanza riflette e che diventa, pertanto, un’affermazione di potenza.
Quando si considera questo tipo di ontologia in una prospettiva politica – e quindi consideriamo il riflesso che questa connessione di modi finiti ha all’interno di una teoria che deve stabilire quali sono le modalità di convivenza degli esseri umani al fine di preservare i diritti fondamentali (che sono la traduzione in un linguaggio politico di quell’affermazione del conatus sul piano ontologico) – ci si trova a dover uscire dal campo della “filosofia” propriamente detta (ossia dell’analisi razionale).
Entriamo così in un mondo che è popolato sia da filosofi che
da non filosofi. Un mondo popolato da uomini di ragione
e uomini di immaginazione.
Se i destini dei singoli enti finiti non sono concepibili in maniera
disconnessa gli uni dagli altri – e quindi il perfezionamento
del singolo modo porta con sé il perfezionamento dell’intera
sostanza - allora si nota come una forma di governo che
promuova il diritto dei singoli debba essere quella che deve poter
assicurare la tutela dei diritti per tutti i membri della
comunità.
Lo Stato, dice Spinoza, dev’essere uno stato di uomini liberi “o quanto più liberi”, perché uno Stato che pretende di esercitare autorità assoggettando i cittadini, è uno Stato che non promuove il bene dei cittadini e non guarda all’affermazione di libertà e diritti; cioè, sul piano ontologico, non guarda all’affermazione della sostanza.
Uno dei tratti peculiari della teoria politica di Spinoza è il fatto che uno Stato fatto di uomini – e quindi non di bestie – debba necessariamente riconoscere ai propri membri quegli elementi che sono costitutivi nell’essenza dei suoi membri, ossia libertà, dignità e libertà di pensiero.
Uno Stato o una comunità religiosa che volessero impedire ai propri membri di esercitare la libertà di pensiero coltiverebbero al proprio interno il “germe della loro marcescenza”. Gli individui che fanno parte di una comunità di fedeli cui sede non è frutto di un libero esame - ossia di una libera indagine razionale - sarebbe per Spinoza una comunità di ipocriti portati a credere a qualcosa di meschino e di apparente.
Lo strumento, secondo Spinoza, per convincere i lettori della
validità di questa tesi è la separazione tra la filosofia e la
teologia, in quanto esse appartengono a due domini
differenti.
La filosofia:
Coloro che non sono in grado di servirsi della propria ragione hanno
bisogno di un tutore che li diriga verso un loro bene perché
quest’ultimo non dev’essere circoscritto a una parte di
popolazione.
A questo serve, secondo Spinoza, la religione: per condurre alla virtù
tutti coloro i quali non sono uomini di ragione.
È per Spinoza importante che si riconosca dignità al filosofo perché la sua ricerca della verità non entra in contrasto con gli insegnamenti della religione in quanto questi due ambiti hanno obiettivi diversi:
Spinoza dimostra questo interesse innanzitutto morale e non teoretico della religione attraverso la Scrittura: per Spinoza la Bibbia è un testo per gli uomini scritto da uomini che porta alla luce delle tesi importanti quale, ad esempio, quelle dei profeti (che sono uomini d’immaginazione che parlano ad altri uomini d’immaginazione).
I profeti per Spinoza erano uomini naturalmente inclinati verso la giustizia e la carità, ossia le uniche due virtù su cui Spinoza costruisce tutta l’etica dell’immaginazione.
Perché è così importante l’immaginazione?
Perché riesce a vedere ciò che la ragione non riesce a cogliere perché
troppo occupata a risalire all’ordine delle cause.
L’immaginazione induce a un sentimento di passività, ed
questo è lo strumento di cui il profeta si serve per
persuadere. Utilizzando a proprio favore come strumento
coercitivo e di potere questa geometria delle passioni – cioè la potenza
di poter indurre timori e speranze nel popolo – rende i detentori del
messaggio religioso estremamente potenti.
Spinoza nota come stia nell’interesse di chi governa le comunità mantenere il proprio popolo nell’ignoranza perché tanto più ignorante è il popolo, tanto più si muove nel mondo dell’immaginazione, quanto più sarà possibile “piegarlo” ai propri fini e governarlo.
Per questo il governo reputa pericolosi i filosofi: loro insegnano che ciò che sta scritto nella Bibbia non riguarda conoscenze della natura o verità relative all’essenza di Dio bensì mostrano che quello che sta nella Bibbia è ciò che serve a persuadere un volgo ignorante.
Per Spinoza la religione guida ad un orientamento morale ed è in questo senso che la religione va considerata come un utile strumento per l’emancipazione della società (a patto che non diventi una maniera per crescere una comunità di superstiziosi volti a creare delle credenze fallaci).
L’uomo di immaginazione non può essere lasciato a sé stesso ma va indirizzato nell’ambito morale, e questo “traino” deve avvenire attraverso il racconto delle Scritture il quale non pretende di rispondere al vero bensì di essere lo strumento più adatto per far nascere nei cuori degli uomini d’immaginazione il sentimento di virtù, ossia quello di Giustizia e Carità (che sono i messaggi che cercano di dare le Sacre Scritture).
La religione parla la lingua del volgo e dell’immaginazione e, usando
un linguaggio comprensibile a chi non è filosofo, conduce i poveri
mortali nel regno dei cieli, non usando però il linguaggio di ragione
bensì quello d’immaginazione.
La religione non è il posto dove andare a cercare il vero Dio
perché non insegna il vero. Insegnare il vero è compito dei
filosofi in quanto arrivano alla conoscenza adeguata. La religione
arriva alla conoscenza inadeguata.
Quanto detto ci fa comprendere il perché Trattato Teologico Politico di Spinoza si chiama così: teologia e politica agiscono nello stesso modo e sono entrambe strumenti che pretendono di governare una comunità riducendola a una comunità in cui giocano solo le passioni negative.
Conclusa la terza parte dell’Etica – ossia quella che tratta della natura degli affetti – Spinoza ne interrompe la scrittura nel 1665, iniziando a scrivere il Trattato Teologico Politico. Il “Trattato Teologico Politico” tratta questioni circa la dignità umana e si conclude col piano di teoria politica che Spinoza aveva intrapreso nell’Etica, tant’è che la stesura delle ultime due parti di Etica avviene successivamente a quella del Trattato Teologico Politico.
Il clima generale del Trattato Teologico Politico è quello
delle teorie giusnaturalistiche, ossia la teoria politica che crede che
vi siano dei diritti naturali - cioè diritti inalienabili - che fanno
parte della natura umana senza il quale la natura umana non sarebbe
tale.
Il giusnaturalismo moderno, ossia quello nato con
Grozio, è un giusnaturalismo che fa originare l’inalienabilità
di questi diritti nella natura degli animali razionali (non
così per il giusnaturalismo precedente che
faceva risiedere l’inalienabilità dei diritti naturali sulla
base di una costituzione metafisica, tipo il logos -
che riconosce determinati diritti facenti parte dell’espressione delle
leggi del cosmo - per gli Stoici).
Il giusnaturalismo moderno è un giusnaturalismo secolarizzato, cioè Dio rimane sullo sfondo e la ragione umana diventa il punto sulla quale si ancorano i diritti inalienabili (e i filosofi moderni non sono mai d’accordo su quali siano effettivamente questi diritti inalienabili).
In ogni movimento giusnaturalista vi è l’idea che ci siano:
Questo è lo schema classico di tutti i giusnaturalisti e punto di passaggio fondamentale tra lo stato di natura e lo stato civile è il patto. Il patto è una tesi in cui tutti i giusnaturalisti credono. Secondo loro, arrivati a un certo momento, gli individui dello stato di natura hanno stabilito che, per uscire da questo stato e non incorrere a una disgregazione umana, è stato importante realizzare - per evitare uccisioni varie tra esseri umani - il patto (che nel giusnaturalismo moderno e classico è il momento dove si sono dovuti alienare alcuni diritti per dare a un’autorità il potere di gestire la civitas).
Nel Trattato Teologico Politico c’è la menzione un Patto in cui dei cittadini si sono uniti per assoggettarsi a un potere che garantiva i diritti di tutti i soggetti ma, in un’opera successiva, il Trattato Politico, Spinoza si rende conto che un patto è assolutamente inutile perché, nella sua metafisica, l’unione tra gli individui non dev’essere sancita da un atto esteriore che viene a imporsi dall’esterno su una massa per garantirne l’unione: dal momento in cui nella metafisica spinoziana i soggetti sono i modi finiti della sostanza, i soggetti sono connessi tra di loro tramite rapporti cui non potranno mai prescindere.
Il popolo – ossia l’insieme degli individui – è per Spinoza già un soggetto politico, che verrà chiamato moltitudine.
È la religione che obbliga ad obbedire a un comando esterno introducendo il divario su cui si fonderà il periodo illuministico: tutta la filosofia settecentesca lavorerà cercando di capire quali sono i fondamenti epistemici di questo diverso tipo di assenso che io do alle verità di ragione e verità di religione, cercando di capire se sia così vero che non si riesca a trovare una via intermedia tra l’obbedire a un principio esterno o interno posto da Spinoza.
La soluzione la darà Kant quando scopre l’esistenza della fede
razionale pura, cioè di quel bisogno della ragione che impone a dare
l’assenso a determinare verità – tipo l’esistenza di Dio – fondato dalla
struttura trascendentale della ragione.
Kant scopre che tra fede e ragione non vi è dissidio ma sono “una la
matrice dell’altra”. Per Kant la fede razionale pura è la risposta che
la ragione da a un suo bisogno di andare oltre il mondo di conoscenze
scientifiche, conoscenze sì solide ma nelle quali non si può realizzare
la destinazione propria di essere umano.
La filosofia di Spinoza è una filosofia elitaria, ma non ex ante, bensì solo alcuni hanno la fortezza d’animo frutto di un impegno che gli consente di arrivare a una conoscenza della realtà tale da renderli uomini liberi.
Le autorità non hanno interesse a promuovere un cammino filosofico perché è più facile governare una moltitudine che non pensa. Occorre trovare una via alternativa che possa essere portata avanti da tutti… un potenziamento della società intera. Bisogna trainare il volgo verso un perfezionamento morale, a cui il filosofo giunge per via naturale.
In una prospettiva filosofica, la virtù è premio a se stessa; in una prospettiva non filosofica, la virtù deve avere un premio che è la felicità - in quest’ultima prospettiva il vero non è riconosciuto per se stesso, ma proviene da una fonte autorevole, da una autorità in qualche modo. In Spinoza non dobbiamo confondere libertà filosofica e libertà civile. Ciò che è consentito per diritto a un cittadino è lo stesso dovere che egli ha riconoscendosi, a livello metafisico, come una totalità della quale fa parte.
In Spinoza c’è un intellettualismo etico: se si sa
che cosa il bene, si fa il bene. Ma con Spinoza dobbiamo specificare che
non c’è il bene e il male, non c’è una teoria dei valori, la sostanza
non è caratterizzata. L’unica cosa che si può dire
bene, in quanto corrisponde pienamente alla concretizzazione
della sostanza, è la natura umana (Spinoza lo dice in
un punto molto controverso dell’Etica) [exemplum naturae
humanae] - il riconoscimento di se stessi come punto di sviluppo
della perfezione della sostanza.
Non un progresso verso una forma ideale o immaginifica, ma il
riconoscimento di se stessi come frutto dello svolgimento
necessariamente determinato ex ante della sostanza.
Realizzare completamente la propria natura significa riconoscersi come
parte della sostanza. Realizzare la propria natura secondo le regole è
un percorso che segue una via conoscitiva - in questo senso
intellettualistico - ma non c’è un bene che la ragione può
conoscere, il bene è la ragione.
In generale, il conatus è la manifestazione originaria della potenza della sostanza. Nel mondo dei viventi, il conatus è l’attaccamento alla vita, l’istinto di conservazione.
Se c’è qualcosa di ascetico nell’intuizione spinoziana è una illuminazione non concettuale; non è l’illuminazione di Agostino; non è l’abbandono delle mie facoltà razionali per arrivare a una dimensione folgorante. L’intuizione spinoziana è profondamente razionale e corrisponde alla capacità di cogliere tutti i nessi; non mi abbandono nella totalità, mantengo la mia individualità di modo finito, e la mantengo nella consapevolezza di non essere che una modificazione di quell’unica sostanza. L’individuo non si annulla nella totalità; quando divento una cosa sola con Dio non significa che mi fondo con Dio, ma vedo le cose come le vede Dio.
Differenza tra uomo guidato da immaginazione e uomo guidato da
ragione: il primo, voglia o non voglia, agisce
inconsapevolemente - il secondo non dà retta a nessuno
tranne che a se stesso.
L’uomo libero ha in sé il principio della propria
determinazione: la sua saggezza è una determinazione di
vita e non di morte. Se gli uomini fossero liberi, non
formulerebbero alcun concetto di bene e male.
La virtù dell’uomo libero si riconosce nell’evitare e
nel superare i pericoli.
Per ostacolare la paura si richiede una forza ugualmente grande; l’uomo libero afferma la propria potenza sul pericolo che gli si propone. Sia la fuga che la lotta sono ugualmente segno di fermezza d’animo.
L’uomo libero per quanto può cerca di evitare i benefici degli ignoranti; cerca di non corrompere la propria conoscenza razionale delle cause efficienti delle cose con la loro conoscenza immaginifica di cause finali.
Solo gli uomini liberi sono gratissimi agli altri, sono gli unici in grado di provare solo affetti positivi. L’uomo guidato dalla ragione è più libero nella società dove vive secondo un decreto comune che nella solitudine. L’isolamento è una condizione artificiosa che presuppone una non-conoscenza della natura della sostanza.
Spinoza inizia a scrivere il Trattato-Teologico politico nel 1665, interrompendo l’Etica alla fine della IV Parte.
Clicca qui per un riassunto analitico del Trattato Teologico-Politico che ho fatto io per il corso di Classici della Filosofia nel primo semestre.
Nella Lettera a Oldenburg del 1665 Spinoza racconta che ha iniziato a scrivere un trattato sulla Scrittura per 3 motivi:
per combattere i pregiudizi dei teologi che impediscono agli uomini di dedicarsi alla filosofia [una delle cause per cui non tutti gli uomini sono filosofi è che è difficile dal mondo dell’immaginazione; i teologi hanno un interesse manifesto a non essere mascherati.
correggere l’opinione di quelli che lo accusano di ateismo
la libertà di filosofare va difesa, e voglio esprimere ciò che penso, una libertà che sento il bisogno di esercitare in ogni modo, ostacolata dall’autorità. [obiettivo polemico di Spinoza non sono i vizi degli umani, ma quei meccanismi di autorità che tengono imprigionati gli uomini con un fine che va contro la natura umana]
Il Dio di Spinoza è un Dio in contrasto con tutte le caratterizzazioni che vengono fatte di Dio nelle Scritture.
Il sottotitolo del Trattato Teologico-Politico è emblematico: comprendente alcune dissertazioni nelle quali si dimostra che non solo la libertà del filosofare può essere ammessa senza pregiudizio per il sentimento religioso [pietas] e per la pace civile, ma che anzi essa non può essere soppressa senza la rovina della pace civile e dello stesso sentimento religioso.
Anthony Collins, un amico di Locke, nel 1713 scrive il Discorso sul libero pensiero, il libretto che apre la campagna moderna di rivendicazione di libertà di pensiero e di espressione. Nella preistoria di questo testo c’è il Trattato Teologico-Politico.
Vietare la libertà di pensiero nuoce sia alla fede che alla pace civile, perché tenendo gli uomini sotto il giogo della superstizione la pietas non sarà mai autentica e la pace civile sarà sempre posticcia. Nell’uomo a cui si consente di seguire la sua via naturale ci sono le potenzialità e gli strumenti per costruire una comunità di fedeli e una società civile degna dell’uomo stesso.
In linea di principio, una società di uomini liberi non avrebbe bisogno di un governo.
Il Trattato Teologico-Politico ha una prefazione in cui Spinoza delinea la condizione nella quale vivono gli uomini, che rende necessaria una difesa della libertà di filosofare.
La superstizione è la condizione naturale del volgo. La superstizione è un ottimo dispositivo di governo, che costringe gli uomini a essere attivi promotori della loro distruzione, che perseguono pensando di fare il bene, perché combattano per la loro schiavitù così come se si tratti di salvezza.
Etienne de la Boétie, un amico di Montaigne, scrive Discorso sulla servitù volontaria: questa è l’assoggettamento nei confronti di una autorità che mi persuade a perseguire il mio vantaggio a fronte dell’effettivo danneggiamento del mio vantaggio. Qui Spinoza lo cita tra le righe; la superstizione costringe gli uomini a prodigarsi con grandissimo impegno a vantaggio di un solo uomo e a loro detrimento.
Lo strumento di coazione più potente di cui dispone l’autorità è la Sacra Scrittura. Le Sacre Scritture contengono (spoiler) un messaggio morale conforme all’Etica, che si riduce a due elementi:
Occorre dimostrare che la Scrittura insegna soltanto queste cose; per dimostrarlo introduco un nuovo metodo esegetico per la Scrittura, quello che Spinoza chiama metodo storico-genetico: devo trattare il testo sacro come se fosse un testo storico.
Per approcciarmi al testo devo:
Religione e filosofia occupano due domini differenti:
Il profeta ha una certezza morale del valore del suo messaggio: ha una certezza non dimostrativa, ma una altrettanto forte ed incrollabile dovuta alla perfetta consonanza tra il messaggio che porta e la natura buona, morale, del suo cuore. Riconosce l’autenticità del messaggio perché è un uomo buono e virtuoso.
Esistono diversi tipi di materialismo:
Tutti i movimenti clandestini eretici che iniziano a comparire nell’ultimo decennio del ’600 trovano in Spinoza un riferimento e un ispiratore. Pierre Bayle parlerà della possibilità di un ateismo virtuoso: si può essere un soggetto morale anche abbandonando la dimensione religiosa.
Jonathan Israel, studioso di Princeton, ha sostenuto la tesi per cui
l’età moderna non è nata nell’epoca di Locke, del liberalismo; ma
dall’influenza che ebbe Spinoza.
Teofrasto redivivus è il primo manoscritto clandestino che
abbiamo a disposizione. In queste correnti mezze clandestine si parla di
uno spinozismo radicale, cioè una versione della sua filosofia che lo
depura da tutti gli elementi che lo rendono meno radicale è più
compatibile con le idee più diffuse. Alla fine degli anni ’90 c’è stata
insomma questa storia dell’illuminismo radicale.
Israel ha scritto Practical Enlightment, Democratic Enlightment, Contested Enlightment sono (Mammutwerk in tedesco), dei libri giganteschi; pubblicato da Oxford University Press (Edoardo Tortarolo lo ha recensito).
Altro consiglio di lettura: Spinoza e i radicali liberi, una critica di questa opzione storiografica di mettere Spinoza all’inizio dei movimenti rivoluzionari europei che conducono poi ai movimenti dell’89.
I primi rispondono alla struttura del reale, e sui quali tutti gli esseri ragionevoli convengono - sono degli universali, concetti che vengono prodotti per astrazione che tengono conto in maniera abbastanza sufficiente del reale. Il triangolo è un universale di ragione. Gli universali di immaginazione sono invece costruiti sulla base del pregiudizio teleologico**.
Riprendiamo il Trattato Teologico-Politico.
Spinoza ritiene che il linguaggio biblico sia pensato con gli strumenti dell’immaginazione. Questo avveniva con l’unico scopo di fare presa sulle coscienze degli uditori. Il testo sacro deve risultare comprensibile per tutti gli uomini; e il linguaggio filosofico non è accessibile a tutti gli uomini.
I profeti non sono uomini dotti, non si distinguono per la vivacità del loro intelletto ma per la vivacità della loro immaginazione; immaginazione che permette loro di tradurre il messaggio divino in una immagine che possa far presa sulle coscienze dei loro ascoltatori, inducendo in loro timore e speranza e vincolandosi alla loro esperienza.
Per questo il profeta chiede dei segni per poter incrementare la
forza persuasiva del suo messaggio; e questi sono i miracoli: eventi
straordinari che servono a confermare il fatto che questi eventi
provengono da una potenza superiore della natura. Ma il miracolo non può
essere una interruzione.
Se lo fosse, sarebbe come se Dio interrompesse la legge che ha
stabilito, la legge di natura, introducendone un’altra. È come se la
legge di Dio, spazio geometrico naturale, si interrompesse. Se questa
interruzione ci fosse, secondo Spinoza significherebbe negare Dio,
negare l’ordine stabile che costituisce la sostanza.
Consiglio di lettura: L’anomalia selvaggia di Toni Negri
Il sovrano ha il compito di permettere all’individuo di realizzare le proprie potenzialità, di raggiungere il pieno suo pieno sviluppo come parte della sostanza. Il suddito è colui sotto un’autorità che ha come fine il suo bene; è come il figlio. Lo schiavo è colui che sta sotto un’autorità che ha come fine il bene di qualcun’altro.
La tradizione del marxismo francese leggeva il Trattato Politico come matrice metafisica di una comunità politica non assoggettata a un potere puntuale.
Quando si costituisce una società non si dà conflitto con il
diritto naturale (come invece sosteneva Hobbes). La società
viene così investita del sovrano diritto di natura
(potenza di cui godevano gli individui). La società tutta deterrà il
potere, in cui ognuno si troverà in potere, e questa è la
democrazia.
La democrazia è la trasposizione politica di ciò che gli
individui sono sul piano metafisico; la società democratica è
la stessa realtà, considerata dal punto di vista politico.
Soltanto per questo la democrazia è la migliore forma di governo
possibile.
Il primo dei diritti inalienabili è la libertà di pensiero, che non si può annullare nella misura in cui non si può impedire agli uomini di pensare; gli si potrà impedire di esprimerlo, di tradurlo in atti sovversivi - e in questo caso sarebbe giusto - ma non si può impedirgli di pensare.
Per questo motivo Spinoza ritiene che la comunità statale possa condannare le opere ma non le idee. Le idee sono in uno spazio in cui la politica non può intervenire. Le opere invece entrano in un dominio pubblico che sta invece sotto l’autorità statale.
Neanche volendo si può smettere di pensare ciò che si pensa, il pensiero è irriducibile al volere di qualcun altro. Per questo il fine ultimo dell’autorità statale è promuovere la libertà di pensiero. Uno stato degno è uno stato di uomini liberi; la crescita verso la libertà passa dal non-ostacolare la ricerca. Si astiene dalle pratiche di censura che pretendono di governare i pensieri degli uomini.
La **libertà di pensiero non solo non è di detrimento per lo Stato e per la religione, ma è l’ingrediente fondamentale per una religione autentica, una pratica di virtù che può realizzarsi anche in un mondo di filosofi, e per una comunità statale che non alimenti al proprio interno movimenti che ne risultano autodistruttivi.
Abbiamo quindi dimostrato che:
Tutto ciò nel 1670. Nel 1784 su un periodico berlinese, Il mensile berlinese, esce una risposta di Kant a un quesito che era statao posto dalla rivista Biester, che chiedeva - nell’ambito di una discussione sulle unioni civili - che cos’è l’illuminismo?: possiamo c’è la risposta di Mendehllson, Lessing, Nikolai a questa domanda, ma quella di Kant è la più famosa.
Leggere Risposta alla domanda che cos’è l’illuminismo.
Kant afferma che l’illuminismo è la condizione in cui si abbandona lo stato di minorità autoimposta: Sapere Aude - abbiate il coraggio di servirvi della vostra ragione come strumento per uscire da una condizione di minorità.
Il punto è riflettere sulla condizione di minorità autoimposta: in Spinoza mancano due elementi fondamentali dell’illuminismo:
Lo scritto di Kant insiste sul punto 2, sulla comodità del far decidere a qualcun altro cosa devi pensare e cosa devi fare. È comodo assoggettarsi ad autorità (anche molto settoriali, leggi sotto) e limitarsi all’uso privato della ragione.
Ci sono due modi di servirsi della ragione:
Solo coltivando la comunità degli individui la comunità si crea. Soltanto in questo modo si promuove quel regno dei fini (per Kant, per Spinoza la potenza della sostanza), che consente ad ogni individui di raggiungere la soddisfazione dell’esigenza di usare la propria ragione. Secondo Kant non solo questo spirito non si può sopprimere, ma ha in noi stessi i principali detrattori (minorità autoimposta).
Locke*, opere principali
L’autore che affrontiamo oggi è John Locke, col quale si inizia una maniera un po’ inconsueta, rispetto a quella degli autori che abbiamo trattato finora, di guardare al compito della filosofia, alla natura della filosofia e ai mezzi con cui si pratica questa forma di conoscenza, di riflessione sulla realtà.
John Locke nasce nello stesso anno di Spinoza, nel 1632, siamo in
un’altra parte di Europa, in Inghilterra.
Anche lui come Spinoza non fa il filosofo di
professione, fa il medico, studia scienze
naturali a Oxford ed è un filosofo così, in maniera accessoria, che
svolge tutta la sua attività intellettuale al servizio del conte di
Cavendish, attivo membro della società politica britannica, un promotore
di quel principio di posizione parlamentare, che tenta di porre argine
al potere monarchico, cosa che condurrà lo stesso conte di Cavendish e
Locke quale suo seguace a ripetuti esili nel corso della sua esistenza,
che lo vedranno girare per il resto di Europa, soggiornare in Olanda,
ritornare in Inghilterra, dove trascorrerà gli ultimi anni della
sua esistenza, a casa di una importante filosofa (per mostrare
che ci sono anche donne nel canone della storia della filosofia che
ultimamente si cercano di far emergere per quanto siano in numero
minore), Lady Masham (signora figlia del filosofo Ralph
Cudworth, grande neoplatonico cantabrigense), che è anche il motivo per
cui disponiamo di notizie dirette sugli ultimi giorni di Locke fino alla
morte nel 1704.
Il 1704 è un anno importante perché è l’anno in cui Leibniz termina la stesura di un’opera, che è forse la sua opera più celebre, i Nuovi saggi sull’intelletto umano, pensati proprio come una lunga recensione critica all’opera principale di Locke che ha un titolo analogo, Saggio sull’intelligenza umana. Leibniz però non pubblica questa opera nell’anno in cui muore il suo antagonista, che rimarrà inedita fino al 1765, segnando un punto di svolta fondamentale nello sviluppo del pensiero.
L’opera di riferimento per Leibniz è appunto questo Saggio
sull’intelligenza umana di John Locke, che viene composto nel 1689,
la prima edizione arreca sul frontespizio la data 1690, ed è un’opera
che, a fronte dell’imponente influenza sul pensiero successivo, è stata
composta come opera d’occasione.
Locke ci racconta l’occasione che gli ha fornito l’ispirazione per la
composizione di questo saggio in un’epistola al lettore
anteposta all’opera stessa, in cui racconta di essere stato in
compagnia di alcuni amici in questa dimora nella campagna
londinese, che era la casa di villeggiatura del terzo conte di
Shaftesbury, presso il quale Locke al tempo soggiornava, che si chiama
Exeter House (luogo di pellegrinaggio dei lockiani, in
quanto vi è conservata una parte della sua biblioteca), Locke discute
con questi amici di questioni di morale e di religione, questa notizia
l’abbiamo da uno dei partecipanti di questo circolo, che si chiama James
Tyrrell, membro della Royal Society e amico di Boyle, e che nella sua
copia personale del Saggio di Locke annota, dove Locke scrive
di essere con quattro amici a parlare di temi vari, che parlavano di
questioni morali e di religione.
Questa conversazione su temi non speculativi -
non stavano discutendo del fondamento della credenza,
stavano discutendo di ciò di cui si parlava tra i dotti del tempo - li
portava ad arenarsi continuamente su posizioni che non consentivano
mediazione, si arrivava a un confronto tra opinioni che non sembrava
lasciar spazio a nessuna possibilità di conciliazione, cosa che avrebbe
richiesto un’opera di negoziazione che nessun contendente era disposto a
intraprendere. A fronte di questa situazione di stallo, Locke ha
l’intuizione dalla quale nasce tutto il Saggio, cioè quella di
anteporre a ogni indagine filosofica un’indagine sui limiti
della nostra conoscenza.
Prima di affrontare le questioni filosofiche bisogna domandarsi
fino a dove possiamo effettivamente spingerci con le nostre
credenze. Cosa vuol dire indagare i limiti della conoscenza?
Ricostruire la genesi della nostra conoscenza, cioè da dove traiamo gli
elementi primi a partire da cui costruiamo le nostre convinzioni. E per
fare questo occorre fare un’opera di bonifica.
Abbiamo visto quest’idea del filosofo che bonifica un terreno prima di costruirci sopra qualcosa è un’idea tipicamente moderna che abbiamo incontrato già in Cartesio. Locke ha un atteggiamento estremamente umile e modesto nei confronti della propria impresa, e dice di doversi avvicinare alla filosofia come un operaio che, nella preparazione del cantiere su cui verranno eretti i grandi edifici e le grandi cattedrali, deve innanzitutto sgomberare il campo dalle macerie di ciò che è stato distrutto, bisogna procedere a questa opera di preparazione del terreno, cioè togliere di mezzo tutto ciò che, in quanto rovina di sistemi precedenti che si sono rivelati insoddisfacenti, può disturbare la costruzione di sistemi nuovi.
Locke non pretende di essere un grande architetto, un nuovo Newton o un nuovo Sydenham (importante esponente della medicina empirica nel ‘600 inglese), ma gli basta fare il lavoro dell’operaio, che fa un lavoro propedeutico di pars destruens, che deve preparare il terreno per la costruzione successiva che sarà per i grandi geni filosofici. Questo atteggiamento di modestia è distintivo della filosofia lockiana, un atteggiamento che si adotta nelle questioni speculative.
Questa ricerca delle origini delle nostre conoscenze ci spiega il titolo che Locke dà alla sua opera, Saggio sull’intelligenza umana, ci sono anche traduzioni che lo rendono come Saggio sull’intelletto umano, il termine in inglese è understanding, tradotto a volte con intelligenza, altre con intelletto, ma comunque il senso è quello di affrontare lo studio della mente intesa come quella capacità degli esseri umani di operare su una serie di contenuti che hanno a disposizione, la quale non implica nessuna presa di posizione metafisica.
Locke non vuole studiare l’understanding occupandosi di che tipo di sostanza è la mente come aveva fatto Cartesio, cioè non vuole né partire da un presupposto metafisico né arrivare a conclusioni metafisiche, nemmeno fare una metafisica del mentale, com’era la sostanza pensante cartesiana, e nemmeno fare una fisiologia dell’intelletto come aveva fatto Hobbes, non gli interessa spiegare i meccanismi fisici a fondamento della produzione delle nostre credenze, non gli interessa che siano immagini che si riducono a movimenti nei corpi, non gli interessa che ci siano schemi complessi di nervi e di trasmissione di informazioni attraverso questa entità non meglio specificate che sono gli spiriti animali, a lui interessa guardare alla mente così come si osservano i fenomeni naturali, vuole capire come arriviamo in possesso di determinati contenuti mentali, come li combiniamo tra loro e su quale base affermiamo che qualcosa è vero e qualcosa è falso.
Quindi l’atteggiamento del Saggio non è normativo,
ma descrittivo. Questo distingue la filosofia lockiana
dell’understanding come appunto working of the mind,
cioè la maniera in cui funziona l’intelligenza, dalle logiche classiche,
cioè quella aristotelica, quella sillogistica, che è una logica
artificiale che non mi dice come funziona la mente, ma mi dice come deve
funzionare se vuole conseguire una conoscenza vera.
La logica artificiale è normativa, impone delle regole
al pensiero. Logica, cioè lo studio della mente, del Saggio
lockiano è una logica descrittiva o naturale. Essa mi
dice come funziona la mente quando la osservo.
Ed è esattamente in questo punto della storia della filosofia che incomincia sotto altro nome quella convergenza tra logica e psicologia, intesa come studio del funzionamento della psiche, della mente, che sarà poi la spina nel fianco di tutta la filosofia successiva a partire da Kant, che è il primo a denunciare la inaffidabilità di una logica psicologica, perché la psicologia così considerata, cioè come scienza descrittiva del funzionamento del mentale, è un sapere contingente, empirico, che può cambiare da individuo a individuo, nel quale si possono reperire dei principi più generali che sembrano poter valere nei casi particolari, ma che rischia sempre di venire invalidata da casi specifici** che hanno un funzionamento differente.
Il problema dell’empirico è il problema
dell’induzione, della contingenza che inficia sempre
l’universalità dei principi a cui si perviene per via osservativa,
basta un caso a invalidare l’universalità dei miei
principi.
E nell’usare la parola understanding (linguaggio dei filosofi
sempre molto significativo per avere una presa diretta sulle loro
convinzioni) Locke intende dire in maniera manifesta al suo pubblico che
non sta parlando la lingua dei cartesiani, la lingua della filosofia del
mentale inteso come res cogitans, della mens delle
meditazioni cartesiane o dell’esprit (per questo a volte la
mente di Cartesio si traduce anche con spirito), di quella tradizione
che aveva un forte impegno metafisico, ma sta parlando di qualcosa che
si pone su un piano che rimane cauto di fronte alle implicazioni
dogmatiche, cioè di affermazione positiva quanto alla
natura metafisica delle cose di cui sta parlando.
E nel corso della lettura del Saggio vedremo come questo atteggiamento descrittivo prelude a quella che noi oggi potremmo chiamare una fenomenologia della conoscenza, ossia quel modo di ricostruire la maniera in cui, passo dopo passo, giungiamo a creare dei sistemi di credenze che confluiscono nella nostra visione del mondo.
Locke chiama questo suo metodo metodo storico.
E anche questo è un segnale immediatamente perspicuo per i contemporanei
e oggi purtroppo molto più opaco. Che cos’è il metodo storico? Esso è il
metodo che si attiene ai fatti, che descrive una realtà
data. Lo storico procede raccogliendo fatti e costruendo delle
narrazioni sui fatti. Il metodo storico si oppone al metodo
fondativo, il metodo di coloro i quali non si arrestano alle
osservazioni dei fatti che sono registrati e assimilati in narrazioni,
ma hanno bisogno di cercare il fondamento su cui quei fatti
riposano.
Il primo problema di Locke diventa quindi quello dell’origine
delle conoscenze.
Se voglio sapere quali sono i limiti della mia conoscenza, quelli oltre
cui non posso andare con pretesa di dire qualcosa di condivisibile da
tutti gli esseri razionali, devo innanzitutto capire da dove
arrivano le conoscenze di cui dispongo.
Locke procede quindi in maniera decostruttiva, ossia
scompone le nostre credenze condivise fino a quei termini ultimi
nei quali ritiene di individuare l’origine dei nostri contenuti
mentali.
C’è un passo nel Saggio, alla fine dell’introduzione del
libro I, in cui chiede il perdono per l’uso smodato del termine
idea, preso per indicare ogni contenuto di pensiero, ossia ogni pensiero
di cui sono cosciente; così come Cartesio ha parlato delle idee
avventizie, fittizie e innate, come ombrello generale sotto cui stavano
i contenuti della coscienza o come modificazioni della sostanza
pensante, per dirla in termini cartesiani, o come altri hanno
parlato di fantasmi (Hobbes), altri di
specie (gli aristotelici), altri di
percezioni (tutti i sensualisti alla
Gassendi), lui usa il termine idea, intendendo ciò che
è immediatamente presente alla mente quando pensa.
In questo Locke è tranquillamente
cartesiano. Le idee sono i contenuti di
pensiero, le idee stanno nella mente umana. Non ci fossero
menti che pensano non ci sarebbero idee.
L’origine prima delle idee, questa è la tesi forte del Saggio di Locke, quello che gli farà guadagnare la fama di essere il fondatore dell’empirismo moderno, sta nell’esperienza. Questa è il serbatoio dal quale io traggo le idee, è ciò che si dà al soggetto, è un tutto formato, stabile, che sussisterebbe anche se non ci fosse il soggetto e di fronte al quale il soggetto si trova e dal quale il soggetto ricava tutto il materiale che sta nella sua mente.
L’immagine della mente è quella di un foglio bianco, non di
una tabula rasa come si legge nei manuali di second’ordine
(quella della tabula è un’immagine aristotelica). Locke parla di un
foglio bianco su cui l’esperienza verga dei tratti.
Perché troviamo allora tabula rasa?
Perché per colpa di Leibniz Locke viene assimilato a quella
corrente filosofica che ha i propri inizi nell’aristotelismo e
quindi nella prima sistematica opposizione al sistema platonico dove
l’elemento fondamentale della divergenza agli occhi di Leibniz era il
modo di approvvigionamento delle idee da parte dell’anima, per cui si
crea questa narrazione filosofica per cui da un lato si ha
Platone, la cui anima contiene in sé già tutte le idee che ha
contemplato quando si trovava al cospetto delle Idee
nell’Iperuranio e quindi contemplava la verità, alla quale accede per
reminiscenza dietro sollecitazione dell’esperienza, una volta
imprigionata nel corpo terreno, e l’altro modello è quello
sensistico aristotelico per cui l’anima non ha nessun contributo
prestabilito innato, connato, e acquista a posteriori tutte le nozioni
di cui dispone.
Questi due modelli di approvvigionamento delle conoscenze diventano i
due binari sui quali si orienta la filosofia moderna,
che saranno poi canonizzati per Kant con le due etichette
razionalismo ed empirismo, ma che
hanno la loro origine in un’idea leibniziana, che era quella di dire che
ci sono i filosofi platonici che pensano che l’anima possieda dei
contenuti prima di qualsiasi esperienza che è solo un’occasione per
rivivificarli, e gli aristotelici che pensano siano una tabula rasa, una
tavoletta di cera su cui si incidono i contenuti.
Ecco, secondo Locke la mente è un foglio bianco su cui
l’esperienza scrive i suoi caratteri, il che significa che
il soggetto di fronte all’esperienza è in prima battuta
passivo. Io accolgo le impressioni che l’esperienza mi
provoca e possiedo dei canali attraverso cui l’esperienza è in grado di
tracciare questi caratteri nella mia mente: questi canali sono
i 5 sensi esterni e il senso interno.
I 5 sensi esterni sono i cinque sensi canonici, quelli
attraverso i quali noi percepiamo le qualità delle cose. Il
senso interno è un senso che Locke chiama di riflessione ed è
un nuovo arrivo nel nostro vocabolario filosofico, perché il senso
interno è un analogo dei sensi esterni che percepisce, però, non le cose
che stanno fuori dal soggetto, ma le operazioni
dell’intelligenza del soggetto.
Il senso interno percepisce quelli che noi oggi chiamiamo stati
mentali, quindi percepisce le nostre operazioni di
astrazione, i nostri giudizi, i nostri
desideri, le nostre volizioni, le
nostre ambizioni e tutto ciò che abita la nostra
interiorità.
Perché diciamo che Locke è un nuovo arrivato nella storia della filosofia? Perché ci viene detto a chiare lettere che oltre ai 5 sensi esterni c’è nell’understanding un senso di autopercezione che si comporta nei confronti dell’interiorità del soggetto esattamente come i sensi esterni si comportano nei confronti del mondo esterno. Quindi anche se è un senso rispetto al quale noi siamo passivi e si chiama di riflessione va inteso come un’attività del soggetto, è riflessione nello stesso modo in cui lo specchio riflette un’immagine che gli si para dinanzi.
Il soggetto è passivo rispetto alle impressioni che ha di se stesso. E anche se ne “Il problema della conoscenza” di Ernst Cassirer abbiamo questa interpretazione un po’ kantianeggiante del senso interno lockiano, come se fosse una sorta di appercezione che il soggetto ha di se stesso in cui si profila già un’attività interiore, ecco, questo è sbagliato. Perché, Locke lo dice a chiare lettere, il senso di riflessione è un senso che ci rende passivi, noi subiamo l’impressione dei nostri stati mentali.
Quindi abbiamo due tipi di esperienza, una esperienza esterna e una esperienza interna e l’esperienza costituisce la fonte di tutte le nostre idee. Le idee che noi otteniamo dall’esperienza sono quindi tutte acquisite e questo è il primo punto che Locke vuole affermare contro una tradizione ben consolidata di sostenitori dell’innatismo filosofico.
Per cui dei quattro libri di cui si compone il Saggio
sull’intelligenza umana, il primo è una confutazione
dell’innatismo ed è un libro che Locke non aveva previsto
nell’architettura del Saggio, ma che inserisce a lavoro quasi
compiuto per essere ancora più chiaro rispetto alla sua presa di
distanza dal contesto filosofico in cui operava. Gli altri libri, per
amore di completezza, sono sulla natura e l’origine delle idee,
sul linguaggio e sulla conoscenza e probabilità.
Il primo libro, quello sulla confutazione dell’innatismo è un libro
diretto contro i neoplatonici di Cambridge, che noi
abbiamo visto nella figura di Ralph Cudworth, e che avevano il loro
principale esponente in Edward Herbert di Cherbury, che aveva pubblicato
un’opera intitolata De veritate, in cui sosteneva che
la mente umana disponesse di una serie di idee innate o nozioni
comuni; le nozioni comuni, nel senso di condivise, sono nozioni
che riguardano i più svariati ambiti del sapere, la capacità di
conoscere il vero e il falso, di distinguere il bene e il male, la
consapevolezza circa la propria esistenza, l’esistenza di Dio, di un
solo Dio, l’immortalità dell’anima umana.
Tutte queste sono nozioni alle quali noi non perveniamo attraverso la frequentazione del mondo, ma fanno parte della nostra mente, di quella dotazione originaria, quel patrimonio connaturato alla natura umana e conferma di ciò è il fatto che su queste nozioni c’è un consenso universale. Chi non le afferma ha l’intelletto offuscato dai pregiudizi. Ma queste nozioni su quelle su cui si costruiscono per antifrasi anche tutte le opinioni contrastanti, anche l’ateo possiede un’idea di Dio, altrimenti non potrebbe negarlo, anche chi contesta i principi fondamentali della logica li possiede, altrimenti non li potrebbe negare.
Ecco, Locke obietta ai sostenitori dell’innatismo proprio
l’argomento del consenso universale ed è per questo che
è sbagliato pensare che la confutazione dell’innatismo
sia una confutazione rivolta contro Cartesio, perché
Cartesio non fondava il proprio innatismo sull’argomento del consenso,
dal momento che il consenso per Cartesio aveva validità nulla, perché
era un argomento empirico; Cartesio fondava il proprio innatismo
su quella distinzione tra la realtà formale e oggettiva delle idee che
gli permetteva innanzitutto di affermare l’esistenza di Dio e quindi
l’esistenza delle due sostanze, come capaci di accedere a
conoscenze che non sono riducibili all’informazione che arriva dai
sensi; ricordiamo l’argomento della cera, la cera ha una forma prima e
un’altra dopo, come faccio a dire che è la stessa?
Perché nella mia res cogitans c’è l’idea innata di estensione,
la quale mi consente di concepire la cera come la modificazione e, in
quanto tale come un qualcosa che può mutare, di un’unica
sostanza della quale io possiedo un’idea indipendentemente
dall’esperienza, non potrei trarla dall’esperienza e quest’idea
è vera perché Dio è verace, è garante della verità delle mie idee.
Dunque l’argomento del consenso universale per Cartesio non era un
argomento e Locke lo confuta usando a sua volta due argomenti.
L’argomento di Locke è in prima battuta di tipo empirico, il
consenso universale è smentito nei fatti, ci sono individui
appartenenti a mondi e culture diverse dalla nostra, che non sono
disposti ad ammettere e quindi a dare consenso rispetto a quelle verità
che a noi sembrano universali.
Locke era un grande lettore di diari di viaggio, di etnologia diremmo
noi oggi, era un appassionato di antropologia culturale. Ci sono popoli
che hanno delle usanze che rivelano che non condividono la nostra
concezione di bene e male, che non stabiliscono un discrimine tra ciò
che è buono e ciò che è cattivo, che non hanno un’idea di
Dio, che non hanno idee delle convinzioni che noi assumiamo
come direttrici della nostra società. E c’è anche una parte
della popolazione che non è disposta ad ammettere i principi elementari
della logica, il principio di non contraddizione, quello per
cui il tutto è maggiore delle parti.
Ad esempio, gli idioti o i bambini, che non hanno
difficoltà a invalidare i principi della logica.
I bambini possono pensare tranquillamente che una cosa sia e non sia
allo stesso tempo, che una cosa abbia parti che sono più grandi del
tutto, non li riconoscono quei principi che devono normare il loro modo
di ragionare. E vogliamo negare la capacità razionale, ossia la natura
umana ai bambini e agli idioti? O forse è meglio pensare che il
consenso universale è un qualcosa a cui si giunge quando c’è un uso
adeguato della ragione, per cui gli idioti non convengono a
queste verità perché non hanno un uso adeguato della ragione e i bambini
non convengono perché non hanno ancora un uso adeguato della
ragione?
Non è meglio pensare, dice Locke, che queste conoscenze siano
acquisite? Altrimenti dovremmo ritenere innate tutte le conoscenze a cui
la ragione giunge quando se ne fa un uso corretto. E allora
non sono innate tutte le conoscenze che io acquisisco nel corso
della mia esistenza, perché in ogni conoscenza io procedo
perfezionando l’utilizzo della ragione e ad alcune pervengo prima, ad
altre dopo, ma sono sempre conoscenze che richiedono un
perfezionamento della ragione e che, se davvero fossero innate,
mi porterebbero a pensare che io sono stato dotato sia della facoltà di
acquisire determinate conoscenze, sia delle conoscenze già belle e
pronte.
Mi trovo davvero di fronte a un Dio “burlone” che mi dà belle e pronte tutte le conoscenze di cui io posso disporre, ma che mi fa fare questa lunga strada per poterle trovare? Non è un’ipotesi antieconomica? Non è sciocco pensare che Dio mi abbia creato in questo modo? Non è più semplice pensare che tutte le mie conoscenze derivano dall’esperienza?
E anche quelle conoscenze che io ritengo così antiche da non sapere nemmeno più quando le ho acquisite, sono conoscenze che ho ottenute pian piano da una frequentazione dell’esperienza. E le ho ottenute in tempi così remoti da non saper più in quale momento sono entrate nella mia mente e si sono incise come dei caratteri su quel foglio bianco.
Questo è l’argomento di Locke contro l’innatismo, il
consenso universale è o apparente o incongruente. Noi conveniamo
universalmente su alcune verità quando giungiamo a quelle verità
attraverso un uso corretto della nostra mente, della nostra
facoltà conoscitiva e per capirlo non imponiamo delle regole del metodo
come aveva fatto Cartesio, ma andiamo a vedere la stratificazione delle
nostre acquisizioni, ricostruendo dai suoi inizi la genesi di ogni
nostra conoscenza. Questo è il metodo storico-genetico del Saggio
sull’intelligenza umana.
Le prime conoscenze che mi giungono dall’esperienza, le prime
idee di cui dispongo, sono idee semplici. E anche questa che
per noi oggi è una nozione comune non era affatto comune al tempo. Locke
è il primo a pensare di poter classificare le idee sulla base della
semplicità o complessità della loro costituzione.
In Cartesio, il filosofo delle idee per eccellenza,
non c’è mai nessun riferimento alla semplicità o alla
complessità dell’idea come un qualcosa che è formato da
parti.
Invece la distinzione tra idee semplici e complesse è la
distinzione fondamentale del Saggio lockiano.
Le idee semplici competono alla mente nella sua
condizione di passività: la mente accoglie percezioni interne o esterne
nella forma di idee semplici, idee atomiche non ulteriormente
scomponibili.
Nella sua capacità attiva, di composizione, la mente produce invece idee
complesse.
Idee semplici e idee complesse indicano due capacità
dell’intelligenza umana, una di ricevere contenuti e l’altra di
elaborarli; in un caso è passiva e in un caso è attiva.
Le idee semplici sono quelle che passano attraverso i 5 sensi esterni e il senso interno, quindi sono idee di qualità. Le idee semplici mi restituiscono delle qualità delle cose. Le idee sono l’effetto che le cose hanno di produrre sui nostri organi di senso. Le cose hanno una costituzione materiale, tale per cui l’interazione che hanno con i nostri organi di senso fa sorgere in noi delle idee. E le qualità che io attribuisco alle cose, per cui vedo una mela e dico che è gialla, le qualità che sono rappresentate da queste idee si riferiscono a delle potenze, cioè a delle capacità che le cose hanno di suscitare in noi quei contenuti mentali sulla base della loro costituzione materiale.
Quindi il ciclo funziona così: un soggetto passivo incontra un oggetto, fatto in modo tale che l’interazione con gli organi di senso del soggetto produce nel soggetto un’idea, che ha come contenuto, che rappresenta qualcosa che io individuo nell’oggetto come una qualità, ossia una proprietà**.
E queste qualità (o proprietà) sono di due tipi, come aveva insegnato Galileo e ribadito Boyle: oggettive o soggettive, qualità che Locke chiama primarie o secondarie, volendo dire esattamente che o sono qualità che l’oggetto ha per conto proprio anche se non fosse percepito da nessun soggetto oppure sono qualità che emergono soltanto nell’interazione tra oggetto e soggetto.
Le prime, qualità oggettive, sono quelle che
Galileo diceva misurabili e sono le qualità
geometriche, la forma, il peso, la grandezza.
Le qualità soggettive sono invece le qualità
che parlano il linguaggio dei sensi che le percepiscono, il
colore, il sapore, il profumo, sono tutte qualità che non stanno
nell’oggetto, nel senso che non emergerebbero se non ci fosse un
apparato percettivo che le coglie.
Quindi, alcune qualità sono percepite in maniera uguale da
tutti i soggetti, tutti diciamo che il Monte Bianco è alto 4810
m, tutti diciamo che la palla è rotonda, tutti diciamo che 1 litro
d’acqua pesa un chilo; sulle qualità secondarie invece non c’è un
accordo e non c’è un accordo che si può provare perché dipendono
strettamente dalla struttura del nostro apparato percettivo, per cui
tutti chiamiamo la mela gialla, ma nessuno di noi è in grado di vedere
il giallo come lo vede un altro individuo.
Conosciamo l’esperimento mentale dello spettro
invertito: tra due individui che chiamano il verde/rosso e il
rosso/verde in maniera coerente, non ci sarà mai modo di scoprire
l’inversione dello spettro, perché un individuo continuerà a chiamare
rosso percependo verde quello che l’altro individuo chiama rosso
percependolo rosso e così via, ossia la resa della percezione appartiene
a quella sfera privatissima dell’individuo che non è comunicabile, che
non è condivisibile.
Noi possiamo comunicare attraverso i segni denotativi, attraverso le parole il riferimento delle nostre percezioni, ma il contenuto delle nostre percezioni è attingibile soltanto da noi stessi. Ed è questo che sostiene Locke quando ci dice che alcune qualità secondarie sono private, sono soggettive, sono frutto di questa interazione con gli organi di senso che è strettamente legata alla costituzione individuale degli esseri umani.
E se noi scomponiamo le nostre conoscenze, vediamo che il
punto di arrivo oltre il quale non possiamo più scomporre sono le
qualità delle cose.
In questo senso Locke procede in maniera decostruttiva, ossia in un
maniera che segue un corso contrario a quello che noi comunemente
percorriamo quando parliamo delle nostre conoscenze, perché noi non
abbiamo mai la consapevolezza di questo processo compositivo, noi
percepiamo oggetti e pensiamo che essi siano contenuti di idee semplici,
in realtà questi oggetti della nostra conoscenza sono il frutto di
un’attività che la mente compie su quei materiali originari che ha
ricevuto passivamente, che sono le idee delle qualità.
Quindi le idee delle qualità sono idee atomiche perché sono quelle oltre le quali non posso più continuare a scomporre e sono quelle a partire dalle quali si costruiscono le conoscenze di cui noi disponiamo. La mente opera su questi contenuti elementari, opera componendoli e generando le idee complesse.
Le idee complesse sono di tre tipi:
E qui c’è uno dei grandi contributi di Locke alla storia della
filosofia moderna.
Le idee complesse sono composizione di idee semplici di vario
tipo, possono cioè essere composizioni che riguardano la capacità di
mettere insieme idee uguali (come quando penso all’eternità;
che cos’è l’eternità? L’eternità è l’idea semplice di durata che
io ripeto un numero indefinito di volte) o idee di diverso tipo
che io metto insieme indicando proprietà di qualcos’altro (quando dico
che qualcosa è bello, sto mettendo insieme idee di diversa provenienza
componendole in una proprietà che attribuisco a qualcosa), mentre
tutte le idee della nostra vita sociale e politica sono idee di
modo (come quando parlo di furto, sto mettendo insieme l’idea
di proprietà, di giustizia e così via, anche l’idea di giustizia è
un’idea di modo, che mette insieme l’idea di equità, di patto, di
convenienza); le idee di modo mettono insieme idee semplici e
complesse e sono idee problematiche perché non tutti
raccogliamo in queste idee di modo le stesse idee, per cui la mia idea
di giustizia non è uguale a quella di qualcun’altro, perché in questa
collezione che si crea quando la mente mette insieme altre idee atomiche
o no, può esserci sì una zona di sovrapposizione, ma anche un’ampia zona
di non sovrapposizione che è quella che porta gli uomini a non
capirsi.
Uno dei temi centrali della riflessione lockiana è proprio
quello della corrispondenza tra le idee e i nomi che diamo a queste
idee.
Sotto il mio nome di giustizia, che è un sigillo dò a questa collezione
di idee che ho composto perché la mia mente è xxx, io posso comprendere
delle idee che un altro non comprende e quindi quando ci parliamo
parliamo di cose che sono nel migliore dei casi solo relativamente
identiche, nel peggiore dei casi che hanno degli spazi di discrepanza
molto forti da cui sorgono i conflitti tra gli individui e all’interno
della società.
Il problema di Locke non è epistemico, non è trovare una nuova teoria della conoscenza o una nuova fondazione della conoscenza come Cartesio, ma è proprio quello di cui discuteva con gli amici nella Exeter House, un problema morale e religioso, perché l’Inghilterra di fine ‘600 è dilaniata dai conflitti di religione e c’è bisogno di trovare uno spazio a partire dal quale fondare la possibilità di una convivenza civile pacifica, in termini lockiani, di una tolleranza, dove al tempo non si intendeva quell’atteggiamento di superiorità per cui si chiude un occhio di fronte a qualcosa che è un po’ fastidioso (ed è così che noi oggi parliamo di tolleranza): la tolleranza seicentesca è inteso come un’ideale di equità, un rivendicare pari diritti e per rivendicare pari diritti bisogna parlare la stessa lingua, bisogna che le parole di cui ci serviamo corrispondano alle medesime idee.
Le idee di modo sono quindi le più problematiche, ma,
vedremo, anche le più interessanti.
Le idee di relazione sono quelle in cui metto insieme
altre idee affermando che sono identiche, sono diverse l’una dall’altra,
che una è causa dell’altra, che l’altra è effetto dell’una, che se c’è
una può esserci o non esserci l’altra, che la connessione è necessaria o
contingente e tutti i tipi di relazione che instauro tra idee, anche
quando dico che due persone sono parenti ho un’idea di relazione, o una
creatura. Quando dico una madre penso di avere un’idea di
sostanza, invece ho un’idea di relazione, e questo è importante
perché spesso in un’idea io comprendo nel senso di includo degli
elementi di cui non sono consapevole e questo mi porta a una serie di
implicazioni che sfuggono alla mia intenzione, ma che si riverberano
all’interno delle differenze.
Le idee di sostanza sono il punto in cui la
filosofia lockiana segna una di quelle pietre miliari all’interno della
storia della filosofia, che non consentono di tornare indietro. L’idea
di sostanza è vecchia quanto la filosofia: la sostanza prima è
ciò oltre il quale non posso più continuare a scomporre la mia
ontologia.
Aristotele dice che io posso astrarre la materia e la forma, ma nella
mia esperienza mi si danno solo sostanze in cui questi due elementi sono
integrati, ho bisogno di un’astrazione logica per poterli
separare, ma non sussistono separatamente, queste due componenti formano
un sinolo, inscindibile nell’esperienza.
Per Locke la sostanza è il frutto di una operazione del
pensiero, non è l’oggetto di un’esperienza atomica, ma è la
produzione di una capacità attiva della mente di
comporre elementi atomici.
Io nella mia esperienza ho sempre esperienza di oggetti, non potrei
avere esperienza di proprietà se non avessi esperienza di oggetti che
sorreggono quelle proprietà e quindi nell’esempio di Locke io dico
“questa è una mela” o qualunque altra cosa a cui noi attribuiamo lo
statuto di ente, cioè un di qualcosa che permane.
Proprio il fatto che noi attribuiamo a queste cose un nome
semplice (come oro, mela, cane, triangolo, etc) ci
illude di parlare di idee semplici, come se la percezione che
io ho della cosa fosse una percezione che mi arriva così com’è e di
fronte alla quale io sono passivo, come ci diceva Cartesio con
le idee avventizie, che concepiva formalmente tutte uguali,
tutte come modificazioni della mia mente, non era arrivato a
concepire che alcune potessero avere una natura semplice non
ulteriormente scomponibile e altre invece fossero già frutto di
un’attività della mente.
Sicché, sotto questa confusione, siamo portati a pensare che
l’oggetto sia così come ci viene dato nell’esperienza, senza renderci
conto che è il frutto di una mia composizione di elementi
primi che mi arrivano dall’esperienza.
Vediamo ancora l’importanza del linguaggio che ci inganna di
avere a che fare con qualcosa che non è quello che invece è:
noi pensiamo, a livello conoscitivo, percettivo, che la mela sia
un’unità inscindibile, fatta di tante cose, ma perché così ce la dà
l’esperienza. Ma così non è, la mela è la composizione di tutte
le idee semplici riferite alle qualità di quel determinato oggetto che
io compongo in un’idea complessa che è la sostanza. Quindi
l’idea di mela è l’idea di giallo, tondo, etc, tutte le caratteristiche
che io comprendo tutte le volte che dico mela. Sotto il nome mela metto
insieme tutte le idee semplici che cucio in questo oggetto unitario che
è la mela.
Quindi le idee di sostanza sono collezioni di idee semplici
prodotte dalla nostra mente sulla base, di nuovo, di una circostanza
empirica, ossia sulla base del fatto che nell’esperienza quelle qualità
mi si danno sempre insieme e non mi è mai capitato di addentare
una mela che sapesse di altro.
Il nome mela esprime la somma delle qualità che raccolgo in
quell’idea complessa ed è quella che Locke chiama
l’essenza nominale. Essa è la definizione, cioè
l’elenco di tutte le proprietà che io riconosco come essenziali di
quella determinata cosa, di tutti gli elementi che io reputo
essenziali di quella cosa grazie a un’esperienza reiterata.
Il linguaggio ha una natura convenzionale. Quando
dico “mela” dico già un universale grazie a un processo di astrazione.
Locke pensa che possediamo idee generali o universali, a differenza di
Hobbes. Io percepisco le cose attraverso le loro
qualità. Io percepisco la mela solo attraverso le sue
proprietà, l’attribuzione del nome mi arriva tramite la comunità, è uno
step successivo.
Finché parliamo di mele lo spazio per il fraintendimento è scarso, ma
quando parliamo di cose più complesse che non posso verificare
empiricamente, come nel caso delle idee di modo (tolleranza, giustizia,
etc), lì la questione del confronto si fa più difficile perché variano
le idee che io inserisco in quelle collezioni e non so se
l’interlocutore include le stesse idee che includo io. Locke locos sa
che il linguaggio può essere strumento di accordo e disaccordo.
Locke propone un vocabolario delle idee di modo. Per le idee di sostanza è più semplice perché c’è un archetipo riscontrabile nell’esperienza a cui far aderire il nome. Mentre quando parlo di idee di modo voglio piegare la realtà sul concetto che io ho. Quando dico che una cosa è giusta ho l’intenzione di rinvenire in quella cosa le qualità che ho raccolto nella mia idea di giustizia. E quindi questo è un compito complesso, perché a differenza della mela il cui archetipo è sotto gli occhi di tutti, qui l’archetipo me lo formo io.
C’è ancora un punto da chiarire dell’idea di sostanza.
Sono arrivato alla composizione dell’idea complessa raccogliendo le
proprietà essenziali che si presentano sempre insieme. Ma il problema a
cui mi trovo di fronte è quello di capire con quale legittimità io dico
che si tratta di una sostanza, perché allo stato dei fatti ho una
collezione di proprietà e la mia mente opera una inferenza che mi
sfugge, della quale io non sono sempre consapevole, ossia io
suppongo inconsapevolmente che quelle qualità mi si presentano sempre
insieme perché c’è un sostrato che le sostiene.
Ci sono due conseguenze di questa visione:
Se le proprietà stanno sempre insieme suppongo stiano su qualcosa e
questo qualcosa fa da collante.
Questa è la nozione classica di sostanza come substrato, ossia come quel
qualcosa che sta sotto le qualità. E in quel qualcosa sta la ragione per
cui un ferro non può avere la proprietà di essere ligneo o un quadrato
quella di essere tondo, perché l’essenza non ammette elementi
incompatibili. Quindi in quel sostrato io non solo trovo la ragione per
cui le cose stanno sempre insieme, ma anche quella per cui alcune
proprietà ci sono e altre no.
Il problema è, però, che io quel substrato posso solo supporlo, non ho un canale di accesso a esso, non si dà ai miei sensi, non ho un sesto senso accessorio che mi consente di percepire quello che sta sotto alle qualità. Io delle cose percepisco soltanto le qualità e le qualità sono la maniera in cui quelle cose mi appaiono. Quel sostrato io lo ipotizzo ma non lo conosco e non lo posso conoscere, dovrà esserci altrimenti non potrei spiegarmi quello che percepisco.
Io conosco le cose non per la loro struttura metafisica, ma per come mi appaiono, e non per come sono, quanto alla loro struttura ontologica io non posso dire niente, quanto alla loro natura metafisica non posso dire niente. Quindi quello che io posso conoscere delle sostanza è l’essenza nominale, posso elencare tutte le proprietà (le idee semplici) che raccolgo sotto quel nome, ma non posso conoscere l’essenza reale, il substrato.
Esempio della composizione di fiori: i fiori sono tutti ancorati a quella spugna verde che ha l’acqua e che consente ai fiori di stare in quella posizione. Il centrotavola è ciò che io percepisco e i fiori sono ciò che cade sotto i miei sensi, so che lì sotto c’è una spugna e lo so perché l’ho vista. Ma se io presentassi un centrotavola a qualcuno che non ha mai visto quella spugna, ma che sapesse che i fiori naturalmente non si disporrebbero in quel modo, questo qualcuno supporrà che lì sotto ci sia qualcosa che li tiene insieme, ma non avrà la benché minima idea di come sia fatto questo qualcosa. Difficilmente penserà che non ci sia niente.
Ma quanto alle proprietà di questo qualcosa che la sua mente necessariamente deve supporre come fondamento di una realtà che gli si dà e che non riesce a spiegare altrimenti, non saprà dirci niente. E noi siamo nella stessa condizione: delle cose vediamo le proprietà, ma non quel qualcosa che fondi la costanza dell’unione in cui mi si presentano.
Il processo filosofico è una ricerca del fondamento di ogni conoscenza ed è preliminare a qualsiasi indagine. Una sorta di fenomenologia del percorso conoscitivo, dove si ripercorrono le tappe di come noi articoliamo le nostre conoscenze.
Nel primo libro dei Saggi abbiamo visto che non c’è una critica a Cartesio in quanto l’argomento che Locke porta a sostegno della propria tesi è l’argomento del consenso universale, che non c’è mai stato in Cartesio. Il consenso universale è una misura empirica, che per Cartesio non poteva avere nessun elemento di validità.
Noi acquisiamo le idee mantenendoci in una condizione di
passività. L’understanding è passivo quando
riceve le idee semplici, attivo quando crea le idee complesse.
Il senso interno (senso di riflessione) non è la
ragione cartesiana, ma la facoltà che l’intelletto ha di percepire le
proprie operazioni.
Locke si serve della parola idea intendendola in un senso
assolutamente conforme a quella inaugurata da Cartesio.
Idea è ciò che la mente pensa quando pensa, e questo
elemento va scomposto riducendolo ai suoi elementi irriducibili: le
qualità delle cose, esterne e interne - quindi sia le
cosiddette sostanze materiali (che fanno parte del mondo esterno al
soggetto) sia le sostanze “interne” che gli permettono di vedere le
qualità delle cose.
C’è una distinzione tra qualità oggettive e soggettive: alcune stanno nelle cose, cioè non dipendono dal soggetto - e queste sono quelle misurabili, come la grandezza, il peso, la forma; altre che rivelano la natura delle idee come frutto di una interazione, e sono tutte le qualità che non si darebbero se il soggetto non fosse dotato di organi percettivi per percepirle: il colore, il gusto, il sapore. Questo mi fa capire che la struttura materiale dell’oggetto che mi rappresento è fatta in modo tale che ha il potere (power) di suscitare un’idea in cui quella rappresentazione viene percepita come qualità. Noi conosciamo più noi stessi che le cose, conosciamo meglio i nostri organi di senso che le cose in sé.
Conseguenza di questo approccio filosofico è il
fenomenismo: potendo conoscere le cose solo attraverso
il filtro della sensibilità, le conosciamo soltanto come si appaiono,
soltanto come si danno per il soggetto. Il fenomenismo in Locke si
accompagna ad un atteggiamento di cautela nei confronti delle
convinzioni metafisiche, legato al fatto che la coscienza si può recare
tanto in là quanto le consentono le idee semplici.
Abbiamo visto come questa convinzione trovi il proprio argomento forte
nella teoria lockiana della sostanza.
La sostanza viene affrontata in un discorso più generale che
consente alla mente, che è attiva, di creare le
idee complesse, servendosi degli elementi originari
della conoscenza.
Per questo Locke nella storia del pensiero si guadagnerà la pessima
nomea di filosofo scettico: se non posso prendere posizione rispetto
alla natura metafisica delle cose, ma mi devo arrestare a questo
atteggiamento indifferente rispetto a una conoscenza positiva delle loro
qualità essenziali, lascio aperta la via a tutte le ipotesi non
contraddittorie - è possibile che la materia pensi, è
possibile che l’anima sia materiale.
Quello che la mia esperienza non mi ha mai provato essere possibile, è
qualcosa che io assumo per mero pregiudizio, cioè collezione di casi,
cioè per via induttiva. Ma non ho nessuna buona ragione
dimostrativa che qualcosa che possiede l’attributo del pensiero non
possiede l’attributo dell’estensione. Per Cartesio questo non
era possibile; ciò che è contraddittorio è ontologicamente impossibile,
e logicamente possibile.
Secondo Locke per affermare una cosa del genere bisognerebbe avere uno
sguardo sull’essenza delle cose che non è possibile avere. Dato che la
sfera delle essenze reali è inaccessibile, bisogna sospendere il
giudizio.
L’unica essenza che abbiamo è l’essenza nominale: la collezione di idee semplici che io attribuisco a quella cosa; è l’elenco di tutte le proprietà che io ritengo essenziali per definire quel determinato oggetto una mela: questo è il confine oltre il quale la mia conoscenza non può andare. La convinzione cartesiana per cui il soggetto ha una via di accesso privilegiata alla propria anima, che conosce meglio di come conosce il corpo, e soltanto in questa conoscenza originaria sta il fondamento di ciò che sta fuori di me, da Locke è completamente rigettata: la stessa sostanza pensante è un’idea complessa che io compongo cucendo insieme su un presunto sostrato comune tutte le percezioni che ottengo per via introspettiva.
L’Io non è più sostanziale di quanto siano sostanziali le cose fuori di me. Sono entrambe idee complesse che compongono io a partire da idee semplici; e, in entrambi i casi, la conoscenza è fenomenica. Io non sono altro che l’idea complessa composta di tutte le idee semplici di tutti gli stati mentali che recepisco passivamente nella pratica introspettiva.
A questo punto c’è il problema dell’identità dell’Io con se
stesso. Se per Cartesio il problema dell’unità personale non
era un problema, in quanto aveva un fondamento di tipo metafisico - Dio
ha una sostanza che permane al variare delle idee - le sue modificazioni
(metafora delle onde del mare); qui non abbiamo il mare, manca la
possibilità di attingere a un sostrato permanente che mi garantisce che
al variare delle mie percezioni (idee semplici) io rimanga io. Locke si
trova di fronte a un problema che deve risolvere: e lo risolve
introducendo nel discorso un nuovo concetto, quello di
persona. A partire da Locke parliamo di identità
personale.
La persona è un’idea complessa che il soggetto
si costruisce mettendo insieme idee semplici con il meccanismo della
riflessione, e che si estende fintanto che si estende la
memoria. Riconosco di essere me stesso fintanto che la memoria riconosce
che quelle idee erano mie.
Daniel Bennett, teoria dell’Io narrativo
La persona è un costrutto soggettivo, la cui
estensione è determinata dall’estensione del ricordo (o della coscienza,
i due termini sono sovrapponibili, lui usa conscience). Non è
awareness, né consciousness. Corrisponde a una nuova
capacità del soggetto di essere consapevole delle proprie modificazioni
come modificazioni che avvengono all’interno della propria soggettività.
Questo è un modo ingegnoso di uscire dalla strettoia nella quale si
sarebbero trovati i filosofi precedenti qualora avessero dovuto
stabilire un criterio per determinare l’identità individuale dell’essere
umano. L’identità individuale, dice Locke, non
può certo essere il corpo, che può cambiare forma, perdere dei
pezzi, ecc. Nessuno di noi individuerebbe il criterio della permanenza
di sé nel corpo.
D’altra parte l’identità dell’anima individuata da Cartesio è
squalificata per il fatto che l’accesso a una sostanza semplice in
quanto identica con se stessa (nel senso che non muta) è qualcosa che la
ragione lockiana non può ammettere - non ho la
possibilità di conoscere la sostanza intellettuale, quindi non posso
dire che permane immutata sempre identica a se stessa.
La persona diventa una nuova maniera di concepire l’individuo, che ha un valore:
Il principe e il ciabattino si scambiano i ricordi rimanendo
nel loro corpo. Io dirò che non si tratta più dello stesso
uomo: questo principe non è più quel principe, ma ora dirò che quel
principe e quel ciabattino sono la stessa persona.
Posso affermare che si tratta dello stesso uomo.
Lì giudicherò la medesima persona, perché la condizione
di vissuti che sono raccolti intorno a quell’individuo rimane la
medesima. Le azioni commesse dal ciabattino prima della “trasmigrazione
delle persone” andranno imputate al principe: è quello il fulcro della
persona che mi permette di indicare il sé.
Su questa base Locke costruisce una teoria della volontà che deve necessariamente sottostare a presupposti diversi da quelli cartesiana. Che ne è del libero arbitrio?
Locke ritiene che volontà e libertà siano due poteri del
soggetto, ossia due capacità che il soggetto è in grado di
esercitare - e noi conosciamo per via introspettiva con l’atto della
riflessione. Quindi una volontà libera è - correttamente parlando - un
tentativo di predicare un potere di un altro potere. Si potrà dire se
l’uomo è libero, ma non se la volontà sia libera. La volontà è il
quel che voglio, e quel che voglio è sempre
determinato.
La volontà non è un modo di esprimersi del soggetto,
non è l’idea cartesiana per cui la mia sostanza pensante diventa un
soggetto volitivo; la volontà di per sé non è mai libera, è
sempre condizionata.
La libertà si pone su un piano diverso: è
anch’essa un potere del soggetto - ma non è il potere
di volere, è il potere di fare. È il potere di
dare corso alle volizioni.
Se la volizione quindi è un’idea semplice che io colgo per atto
riflessivo, la libertà consisterà nel potere di dar corso o meno
di quella volizione. Io non sono libero di volere una
cosa o un’altra, ma sono libero di fare o non fare quello che
voglio.
Ci sono Tizio e Caio che discutono. Caio rivela a Tizio di avere voglia di passare del tempo con Sempronio. Lo fanno. Tizio lega Caio su una sedia dove c’è Sempronio, chiude a chiave la porta, e dice a Caio che sta facendo quello che vuole, perché effettivamente voleva stare con lui; ma Caio non è libero di vedere Sempronio; è necessitato a farlo - eppure sta facendo che vuole.
Locke con questa storia vuole svelare un’ambiguità linguistica che si nasconde sotto la nozione di volontà: la volontà è il nome che noi diamo ad una serie di atti volitivi (idee semplici), ma non ha nessun corrispettivo metafisico, non c’è nessun soggetto che può essere libero o non può essere libero. Fare qualcosa volontariamente non significa farlo liberamente come pensa Cartesio.
Libertà è libertà di tradurre nell’azione qualcosa; con Locke si separano libertà e volontà dell’understanding (soggetto - ma non in senso cartesiano!!). Quindi ci saranno casi in cui agisco:
Ma cos’è che determina il singolo atto volitivo? Con Hobbes avevamo trovato una spiegazione di tipo meccanicistico-fisiologico. A Locke non interessano i meccanismi fisiologici che determinano le idee.
Hobbes ci diceva: la volontà non è mai libera perché è il risultato
di una azione di forze. Quello che prevale e mette fine al processo di
deliberazione è la volontà. Quindi la volontà non è mai libera, è
determinata dal meccanicismo. Questa è la via che Locke non vuole
prendere.
Cerca un concetto di libertà ispirato all’intellettualismo etico: la
volontà tende al bene.
Anche Locke all’inizio era convinto che l’intellettualismo etico fosse
la risposta alla domanda sull’origine della volontà. Perché voglio
qualcosa? Perché voglio il bene. Locke cambia idea e crea una nuova
teoria della volontà.
La volontà non è mai determinata ‘in positivo’ attraverso una
causa finale, ma è sempre determinata in negativo, per sfuggire a
qualcosa. La volontà non vuole mai andare da qualche parte, ma
vuole sfuggire da altre cose. Questo elemento è il disagio
(uneasiness). Uneasiness è la spinta che mi porta a volere ciò
che mi fa non stare più nel disagio. Il disagio è qualcosa che
percepisco e di cui ho la certezza data dalla percezione. Sul disagio
non mi sbaglio; il disagio è una sensazione. È un punto di partenza
molto fermo.
La mia volontà è sempre determinata dal desiderio di sfuggire al
disagio, di togliermi da una situazione che mi dà fastidio.
Che il bene determini la volontà sembra essere una massima
accettata da tutti, anche da me quando mi sono espresso in passato
sull’argomento. Dopo un’indagine più rigorosa, concludo che il maggior
bene non determina la volontà finchè il nostro desiderio crescendo in
proporzione ad esso, non ci faccia sentire il disagio della sua
mancanza.
Potrete convincere un uomo che l’abbondanza è superiore alla povertà,
eppure fin quando egli si accontenta della seconda, e in essa non trovi
disagio, non si muoverà affatto.
Un ubriacone può ben vedere che la sua salute va in malora, che i suoi
beni si disperdono, che è avviato verso una vita di merda, tuttavia la
sete abituale dei bicchieri lo trascinano alla caverna, benchè egli
abbia ben in vista la perdita della salute e delle altre gioie della
vita.
Vede il bene maggiore e fa delle risoluzioni per seguirlo; ma quando è
spinto dal disagio di non avere la sua bevanda preferita, il disagio lo
motiva all’azione.
Allora c’è spazio nella libertà: che non sta nel dar corso a un’azione, ma in quello spazio di sospensione tra la volizione e la realizzazione dell’azione in cui può intervenire la ragione.
Differire la realizzazione della volontà è una capacità soltanto umana. Gli esseri animali, guidati solo dall’istinto, cioè e attraverso il disagio, seguono immediatamente il proprio piacere. La ragione è un principio che si crea quando si sospende o si posticipa la realizzazione della propria volontà.
La razionalità è una facoltà pragmatica: prende tempo e valuta i disagi. In questo prendere tempo c’è la speranza che la pressione del disagio si affievolisca. Quella che si chiama libertà del volere è la possibilità di far interferire la ragione nell’ordine gerarchico degli atti volitivi.
Quindi:
Questa concezione segna un punto importante nella storia della filosofia. Insegna che:
Git mind per le mappe
Nella concezione lockiana l’essenza reale è inattingibile, perché io posso conoscere solo le qualità delle cose. L’essenza reale rimane preclusa. Il soggetto deve accontentarsi del processo di composizione delle idee frutto dell’attività dell’intelligenza. Il tipo di conoscenza di cui faccio esperienza riguarda le qualità che competono a determinati enti. Si chiama nominale perché la collezione di qualità che io individuo far parte della cosa che sto conoscendo è raccolta sotto un nome. L’essenza nominale esprime l’essenza.
Questo ci fa capire cosa significa l’affermazione di Locke (IV libro
del Saggio - sulla conoscenza), per cui la conoscenza è
sempre conoscenza di idee e mai conoscenza di cose.
La nostra conoscenza ha un limite intrinseco, quello delle idee. Con
Locke abbiamo l’espressione massima di tutte le implicazioni adottate
dalle filosofie che considerano il rapporto tra soggetto e mondo come
mediato dalle idee. Il canale di comunicazione tra i due poli è il
canale rappresentativo delle idee. Le idee sono un mezzo attraverso il
quale il mondo può entrare nella testa del soggetto. Non c’è altra
maniera di comprendere le cose che rappresentandole. Questo sposta solo
il problema dall’abisso che separa oggetto e soggetto.
Oltre le idee non posso andare: porrò sepre
ulteriori intermediari tra le idee e le cose. Non posso
che parlare il linguaggio delle idee. Una serie di filosofi (Cartesio,
Hume, Berkeley) costruiscono le loro teorie filosofiche a
partire dal limite entro cui è confinata l’attività del
soggetto.
Thomas Reid sarà un grande oppositore di questa idea: è
a capo di una scuola scozzese, la scuola del senso comune, che obietterà
la aleatorietà di questi sistemi. A questi manca l’elemento di
oggettività che ci può dire di conoscere il mondo in
senso stretto. Il soggetto, cioè, si costruisce un mondo personale,
senza nessuna corrispondenza con il mondo in cui le cose
realmente sono.
Il senso comune sarebbe la capacità di cogliere senza la
mediazione delle idee la realtà e la natura delle cose in quanto
tali. Jacobi e altri sosterranno che c’è bisogno di un
senso comune, un sano intelletto rispetto al quale solo
le sofisticherie dei filosofi possono avanzare dubbi sul funzionamento
delle cose. Il senso comune mi fa dire che c’è una realtà fuori di me,
fatta nel modo in cui la vedo.
La discrepanza tra le idee e le cose è in realtà frutto di un eccesso di
zelo dei filosofi, che raffinando l’intelletto perdono il buon senso. La
percezione diretta è un tipo di filosofia un po’ più grezza, ma che ha
il vantaggio di parlare la lingua della gente, la lingua del popolo; di
riposare sulle ovvietà che una buona parte della filosofia ritiene che
debbano essere il punto di inizio di una indagine filosofica.
Per Locke la mia conoscenza si costruisce su un lavoro che compio sulle idee. Già Hobbes aveva introdotto la separazione tra il mondo dei contenuti mentali e quello della realtà, con la differenza che la mente attinge alla realtà come base per costruire le sue rappresentazioni. Il lavorio della ragione procede secondo regole proprie, che non devono essere approvigionate dalla scienza.
Ciononostante tratto distintivo della filosofia di Locke è lo spirito pragmatico. Sono ricacciato in una sorta di solipsismo epistemico?
Secondo Locke ci sono solo 3 ordini di realtà rispetto ai quali io posso avere una garanzia di esistenza, ma che di fatto coprono l’intera lunghezza del reale.
Come per il cogito, so che ci sono. Intuisco le mie idee, quindi intuisco la coscience, che mi è più che sufficiente per affermare l’esistenza della mia persona. La via è intuitiva; del resto come il cogito. L’ergo del cogito non era una implicazione ma una conferma.
Posso dimostrarla razionalmente con l’argomento fisico-teologico, o teleologico. Nel mondo tutto è organizzato secondo fini, tutto risponde a qualcosa, a uno scopo che non è causale, non può essere casuale e rivela l’esistenza di una intelligenza. Con Locke si ha la prima formulazione compiuta dell’argomento dell’Intelligent Design, cioè del disegno intelligente. Questo argomento a partire da Kant farà guadagnare a Locke la fama di deista.
Deismo: posizione filosofica che ritiene che la religione debba essere concepita in maniera conforme al procedimento della ragione. La religione non richiede nessun tipo di rivelazione perché la rivelazione non parla il linguaggio della ragione. Della rivelazione va mantenuto che il mondo è costruito da un sistema di fini progettato da una intelligenza superiore a quella degli esseri umani.
Qual è il problema dell’argomento dei deisti? È il problema che è
all’origine della convergenza tra posizioni deistiche e ateistiche nella
modernità. Il fatto è che il deismo afferma l’esistenza di una
intelligenza in grado di ordinare qualcosa, e non di un principio
creativo.
Nell’intelligenza cioè non c’è la capacità di essere causa delle
cose del mondo. Il Dio dei deisti non è un Dio
creatore; non hanno argomenti sufficienti per mostrare
originarietà metafisica di Dio rispetto alla materia. Dio
funziona come un architetto che ordina una materia già data, e
questo per la tradizione giudaico cristiana non è sufficiente a rendere
quella intelligenza un Dio. Tant’è che per i deisti Dio è sempre
un pensiero immanente alla natura, i deisti negano la
trascendenza di Dio. I deisti affermano l’adeguatezza agli scopi di ogni
parte della natura.
In tutto il resto io devo abbandonare la pretesa di una conoscenza certa. Introducendo la coppia conoscenza-probabilità Locke marca per tutti i suoi lettori una chiara distanza dal modello epistemico cartesiano. Per Cartesio la probabilità non può entrare in nessuna teoria della conoscenza. è degno di essere conosciuto solo ciò che è certo.
Ma dal momento che il modello filosofico non è più fondazionalista, e la filosofia diventa uno strumento di vita, per garantire una convivenza pacifica tra gli individui, la probabilità può entrare a pieno diritto tra gli interessi dei filosofi.
Sono probabili tutte le cose che non sono certe.
Nella dimostrazione, la catena di prove, godendo della medesima
chiarezza intuitiva dell’intuizione, mi garantisce un grado di certezza
che chiama il mio assenso.
Pertanto sono due gli insegnamenti della Scrittura che io accolgo solo in virtù della mia fede (con una certezza morale, cioè quasi-sicurezza):
Rispetto a tutte le altre questioni della Scrittura io posso legittimamente sospendere l’assenso perché non ho sufficienti strumenti per ritenerle veri. Credere nei miracoli e tutta un’altra serie di questioni accessorie che fanno da corredo all’unico messaggio della Rivelazione accompagnano solo la sostanza della mia fede.
Si abbandona la concezione per cui la fede e la ragione siano due strade parallele. Non c’è più il credo quia absurdum.
La fede è in dialogo strettissimo con la ragione, e
la ragionevolezza del cristianesimo non significa solo ridurre alla
ragione i contenuti della religione, ma significa che anche nella
credenza, che è una forma di assenso, io sono vincolato dai principi
della ragione, i quali non sono sufficienti, ma non possono
essere abrogati.
Queste sono tutti influssi spinoziani.
Ma per Spinoza la religione non arriva mai alla verità… usa il
linguaggio metaforico sotto al quale si deve rintracciare la vera
verità, quella dell’ordine logico dell’esistente, quindi un po’ diverso.
Inoltre, occorre sottolineare come non vi siano contatti diretti e
indiretti e tra i due autori e tra i due scritti.
La ragionevolezza del cristianesimo apre la strada a ripensare il rapporto tra fede e ragione. Questo darà vita a due tendenze:
La tolleranza come affermazione del pari diritto di tutte le confessioni è basato su questa concezione epistemica. Nessuno di noi può pretendere di avere ragione sugli altri. La cautela epistemica che non mi consente di dire che è impossibile in linea di principio che la materia pensi è la stessa che non mi consente di dire che un a religione positiva è più vera dell’altra, e vada in questo senso privilegiata. La religione ci spinge a un punto oltre il quale ognuno ha il diritto di credere quel che vuole e il dovere non imporlo agli altri.
Se per Spinoza la presa di posizione per cui la gente va lasciata libera di pensare è a salvaguardia dei filosofi, che servendosi della ragione, arrivano ad affermare cose percepite come dannose per la stabilità sociale, nel caso di Locke ognuno è libero di pensare ognuno quello che vuole non perché così ognuno può pensare giusto, ma perché non ha nessuna rilevanza ciò che pensa rispetto a ciò che veramente importa, cioè che questi pensieri non si impongano con qualche diritto sui pensieri degli altri.
L’obiezione di coscienza nasce in uno spazio inviolabile
dell’individuo. Importante è che ciò che si pensa non condizioni la
maniera in cui l’individuo nella società entra in contatto con le norme
della salvaguardia della comunità - questo lo diceva anche Spinoza:
bisogna giudicare le opere e non i pensieri, perché le opere
possono essere effettivamente dannose. Lo spazio pubblico in
cui si traducono le idee deve essere un contesto di compatibilità.
Questa è un’idea che i moderni coltivano: la libertà di pensare
è diversa dalla libertà di espressione. Se in quest’ultima
l’autorità statuale può intervenire, essa non può intervenire nella
libertà di pensiero. Questo scenario crea una visione del dotto come
molto isolata; ognuno può cercare la verità nel proprio isolamento.
A un certo punto i filosofi si rendono conto che la libertà di
pensiero, senza libertà di espressione, è una libertà effimera. Non mi
serve a nulla pensare quello che voglio se non lo posso dire, se non
posso far circolare le mie idee. Il dotto è in grado di capire quello
che si dice, che in un contesto differente potrebbe sembrare pericoloso
o sovversivo. Quando il dotto parla ai suoi simili è legittimato a
mettere in discussioni i principi su cui la società si regge, in un
contesto protetto che deve necessariamente darsi per il progresso
dell’umanità.
Questo è il contesto della sovranità illuminata, in cui in uno
spirito pluralista le idee vengono discusse, maturano, e consentono
all’umanità di venire trainata verso l’alto. Il sovrano
accoglie i consigli dei dotti. Questo è uno strumento che traina
l’umanità verso il progresso.
Ma queste idee erano ancora estranee a Locke, saranno le idee
portanti dell’Illuminismo successivo, che verrà
formalizzato solo da Voltaire, una forza che attraverso
la cultura porta l’umanità a migliorare se stessa.
A Locke manca questa concezione di filosofia della storia per
cui l’umanità fa parte di un ordine di sviluppo
complessivo.
Locke fa un discorso che riguarda individui i quali in maniera quasi
atomica, nel loro privato.
Ecco perché si può scindere la libertà di pensiero dalla libertà
di espressione.
Ma sto deismo quindi? È uno di quei casi in cui la filosofia ufficiale si accanisce e lo rende protagonista di una importante vicenda che probabilmente non si sarebbe trovato a costruire da solo.
Il principale oppositore del deismo è Samuel Clarke,
un famoso corrispondente di Leibniz.
È un sostenitore di Newton, cioè di una scienza rigorosa ma bensì
compatibile con i principi della religione cristiana (Newton aveva
affermato che alcune ricerche trascendono completamente il dominio della
scienza empirica - Hypotheses non fingo, non faccio ipotesi su
ciò che non posso sperimentare). Il non addurre ipotesi significava non
volere usare lo strumento della scienza per non fare ipotesi in campo
religioso.
C’è un libro di Guicciardini che si chiama Newton, una biografia intellettuale dove si pone grande attenzione all’altra faccia di Newton
Clarke è un sostenitore della compatibilità tra scienza e religione cristiana e attacca i deisti, pensatori che crescono all’interno di un ambiente molto vicino a quello di Locke (i neoplatonici di Cambridge), accusandoli di convergere tutti su un unico punto: quello dell’affermazione della necessità di ridurre l’insegnamento della religioni a contenuti morali e quindi razionali. La religione in questa prospettiva è un insegnamento morale perfettamente comprensibile dalla ragione.
C’è un punto importante su cui i deisti divergono da Locke, che riguardano lo statuto delle verità superiori a ragione: possono essere accolte per Locke, mentre per i deisti sono una e una sola cosa con le verità contrarie a ragione. Nella Rivelazione si possono accogliere solo le verità comprensibili alla ragione.
L’opera principale di John Toland è Cristianesimo senza misteri, significa cristianesimo senza verità superiori alla ragione. Devono uscire dall’insegnamento del cristianesimo, che è un insegnamento morale che si radica nella capacità della ragione del trovare certezza nel solo utilizzo dei propri strumenti. È interessante che il deismo nasca nel contesto dei neoplatonici di Cambridge - che si chiamavano così perché affermavano l’esistenza delle nozioni comuni - indicava che si possa distinguere tra bene o male, che la vita dell’anima continui; queste sono verità che non hanno bisogno di essere cercate nella Rivelazione, ma sono conformi alla ragione. La ragione ha in sé tutto ciò che serve alla vita morale; nella religione c’è solo un racconto delle stesse cose in modo un po’ più persuasivo.
Inconsistenza delle pretese della ragione umana di affermare l’esistenza di una realtà indipendente dal soggetto.
Con Hume abbiamo una filosofia fortemente soggettivista (il soggetto è centrale nella modernità, è il punto di osservazione della realtà e su di esso si costruiscono i criteri epistemici su cui si costruisce la filosofia. Assunto soggettivistico della modernità arriva al punto massimo di estremizzazione.
Hume nel ’39 scrive il Saggio sulla natura umana. Vuole fare la stessa cosa che ha fatto Newton per la natura fisica: adotta il metodo sperimentale per studiare l’uomo. È difficile fare esperimenti sulla natura umana: l’uomo appena viene messo sotto osservazione cambia, finge. Come si può trasporre l’esperimento sulla natura umana? Estendendo al massimo le condizioni di osservazione. Allarghiamo lo spettro delle situazioni in cui vediamo l’uomo agire e comportarsi in un certo modo, per nutrire di nuovi elementi la nostra esigenza di trovare dei principi di regolarità all’interno della natura.
Immagine con cui si apre il Saggio sulla natura umana: Tribunale della ragione umana - un’immagine kantiana: Kant concepisce la critica come di fronte al tribunale della ragione è imputata di fronte a se stessa, è imputata in un processo chela riguarda. È una immagine questa che Kant riprende da qui, ed è fondamentale in quanto ci restituisce l’esigenza di consolidare l’idea per cui la ragione diventa l’ultima pietra di paragone di ogni verità.
E come lo fa? Andando a cercare l’origine delle nostre
conoscenze, che anche secondo Hume va cercata
nell’esperienza.
Il metodo sperimentale teorizza qualcosa che Locke
aveva praticato più che teorizzare: limitare l’osservazione solo
a ciò che è osservabile, cioè alla nostra sensibilità, esterna
o interna. Per questa ragione lo studio della natura umana deve partire
da un’immagine introspettiva del soggetto, che guarda all’interno della
propria mente osservando ciò che vi succede, senza introdurre nessuna
ipotesi. Quando osservo ciò che accade all’interno della mia mente io mi
trovo di fronte a una serie di percezioni che si distinguono tra
loro per il grado di vivacità.
Hume non accetta la teoria di Locke del foglio bianco, cioè che c’è qualcosa di esterno all’oggetto che causa ciò che avviene dentro al soggetto. Questa per Hume è una implicazione metafisica troppo forte; Locke non ha messo affatto in dubbio questa affermazione, anzi l’ha posta alla base della sua teoria. L’esistenza di qualcosa di esterno al soggetto è provata in modo indubitabile dalla percezione sensibile attuale che fa sì che nella condizione di passività del soggetto arrivino dei contenuti che il soggetto altrimenti non avrebbe. La derivazione delle idee dall’esperienza è qualcosa che Hume rifiuta, pur mantenendo un presupposto empiristico, cioè riconoscendo che tutte le nostre conoscenze sono in ultima istanza riducibile ai cinque sensi. Ma che cosa sia a determinare queste sensazioni, è qualcosa a cui il filosofo non può rispondere. Delle percezioni alcune sono più vivaci, altre più opache.
Le percezioni si distinguono in
impressioni e idee. Le percezioni sono
tutti i nostri contenuti di pensiero.
Le impressioni sono vivaci, le idee sono
opache. È sbagliato dire che le impressioni sono
percezioni attuali; non sono impressioni quando il soggetto è presente -
questo implica una presa di posizione metafisica in cui Hume non vuole
mettersi.
Non dobbiamo inferire l’esistenza dell’oggetto dalla nostra
percezione di esso.
Hume dice: le nostre percezioni derivano da cause
ignote. Esistono le percezioni sicuramente, ma che cosa sia che
le determina è qualcosa in merito al quale non posso esprimermi con
certezza.
L’unica cosa che posso dire è che tra le impressioni e le
idee c’è un rapporto di derivazione.
Non ho idee senza impressioni, lo vedo tramite
osservazione dei miei contenuti mentali. Quando vedo le idee vedo che
sono la versione “leggera” di qualcosa che prima era vivace, di qualcosa
che ho trattenuto nella mia memoria, di qualcosa che
può riacquistare o meno vivacità, oppure perdere vivacità fino a
sparire. C’è un rapporto di corrispondenza tra le impressioni e le idee.
A questo si arresta quello che posso dire circa la loro origine.
Tuttavia, stante che tutte le nostre conoscenze derivano dai sensi
(quindi conoscenze a posteriori), la nostra mente è capace di
stabilire delle connessioni tra le nostre idee che non rispondono
necessariamente alle connessioni che noi percepiamo tra le impressioni
corrispondenti. Cioè: quando io osservo le idee - percezioni
che ho trattenuto nella mia mente - io posso liberamente
connettere questi contenuti mentali, ossia stabilire
delle connessioni che non sono quelle che io ho individuato
originariamente tra le impressioni, e rispetto alle quali ero
passivo.
Anche questo è un insegnamento lockiano, in quanto Locke diceva che la
mente ha una capacità di attività nella costruzione delle idee.
A cosa serve a Hume questa distinzione? A introdurre un’ulteriore presa di distanza rispetto all’atteggiamento pittorico della mente lockiana, che voleva che le impressioni ritraessero all’interno della mente; pur senza riuscire a rendere conto delle connessioni che si davano nella natura.
A livello di impressioni vivaci, acquisiamo
contenuti e impressioni vivaci di questi
contenuti.
A livello di idee riusciamo ad acquisire connessioni tra i
nostri contenuti di pensiero, che non hanno nulla a che vedere
con le connessioni percepite passivamente dalla realtà.
Se tutte le conoscenze sono passive, cioè derivano dall’esperienza, le connessioni tra queste conoscenze possono essere a priori. Con Locke si ha qui l’atto di nascita della coppia a priori/a posteriori, che fino ad ora aveva solo avuto la funzione di indicare la via che la funzione seguiva nello spiegare i fenomeni. Stante il fatto già affermato da Locke che la conoscenza si dà per composizione di idee, questa conoscenza può seguire due strade: a priori e a posteriori.
Quando io connetto due idee a priori, io prendo due contenuti mentali trattenuti nella memoria e li unisco tra loro sulla base di regole di cui la mente dispone indipendentemente da qualsiasi connessione abbia riscontrato tra le impressioni. Queste sono le regole della logica, che per Hume sono 2:
Di lì a poco le regole della logica (proprio in quegli anni
diventeranno 3 - verrà aggiunto il principio di ragion sufficiente, ma
per questo ci vorrà Leibniz). Sono le regole della logica aristotelica.
In questo processo ottengo conoscenze necessarie e massimamente certe.
Conoscenza necessaria significa che il suo
contrario è impossibile: es. che il triangolo abbia tre
lati.
Leibniz nel principio di ragion-sufficiente contesterà teoricamente uno
dei fondamenti della teoria humiana.
Caratteri di una conoscenza necessaria:
Le conoscenze a priori si dicono verità di ragione: non mi consentono di percepire il contrario.
Questo tipo di conoscenza non ha bisogno di trovare conferma nell’esperienza, non ha bisogno cioè di trovare conferma nelle connessioni delle impressioni. Questo è l’unico tipo di conoscenza in cui posso pervenire ad una certezza.o Tutta la matematica è fondata su giudizi a priori, su queste connessioni analitiche: io posso pervenire alle mie conoscenze componendo e scomponendo le mie idee. È vero che i contenuti arrivano tramite impressioni, ma non le impressioni.
Tuttavia la mente dispone di un’altra capacità per connettere le
idee: una capacità a posteriori.
Può cioè riprodurre le connessioni che ha percepito tra le impressioni.
Può riprodurle e può modificarle.
Quali sono queste connessioni che la mente percepisce tra le
impressioni, e che fungono da leggi nelle connessioni a
posteriori? Le leggi dell’associazione delle
idee.
Le conoscenze a posteriori si dicono materia
di fatto. Secondo queste leggi, che non sono una novità nella
storia della filosofia, qui diventano delle leggi canonizzate, che se
sono leggi significa che Hume ci è arrivato osservando casi e
formulando ipotesi, secondo il metodo sperimentale. Hume trova
cioè principi che possano giustificare il funzionamento della
maggior parte dei casi osservati, fatta salva la possibilità di
smentita.
La nostra mente procede infatti sempre in maniera induttiva, cioè
collezionando casi e generalizzando. Ma l’induzione ha
un grandissimo problema: quando non ha a che fare con
una classe determinata di oggetti, può sempre essere
smentita.
Se le leggi dell’associazione regolano le connessioni a posteriori che la mente stabilisce tra le idee, sono identificabili in alcuni capi.
Sono le tre leggi con cui la mente associa le idee, non esclusivamente sulla base di principi che possiede a priori.
Queste conoscenze non entrano nel novero di certezza incrollabile entro il quale si trovano solo le conoscenze a priori; queste sono connessioni nelle quali la sensibilità del soggetto, le circostanze dell’osservazione possono avere una parte importante nel disallineare i giudizi degli altri individui. Il fondamento di certezza di queste connessioni è debole.
Quando si include nel novero di connessioni a posteriori la causalità, questo può diventare un problema importante. La causalità fino a questo punto della filosofia era ritenuta un legame metafisicamente fondato (Cartesio: nell’effetto deve esserci sempre minore o uguale realtà rispetto alla causa) e necessario (relazione tra causa ed effetto unidirezionale e necessaria, per cui l’effetto è implicato nella causa ed è realmente implicato nella causa).
Il legame causale è necessario, la conoscenza del legame è certa, e su questa si costruisce la scienza della natura, la scienza delle connessioni necessarie dei fenomeni. Per rispettare questa idea la scienza moderna aveva deciso di escludere le cause finali da questo tipo di scienza. Le cause efficienti hanno cioè in sé il loro effetto - e in tutta la scienza moderna della natura; il meccanicismo e la scienza moderno avevano nella necessità del legame causale tra i fenomeni uno dei suoi pilastri. La scienza è un dominio certo.
La causalità invece è probabile. Il probabile invece non si può dimostrare ma si riscontra con una certa regolarità. Quanto più raccolgo dei casi che si svolgono in un certo modo, tanto più posso pensare di avere una conoscenza probabile, cui però non posso arrivare in ultima istanza con la mia sola ragione. La scienza non si muove nel verosimile.
Introdurre la causalità tra la le leggi di associazione delle
idee significa privare la scienza del suo fondamento
epistemico, declassare il sapere scientifico come modello di sapere
dotato di strumenti matematici a sapere solo probabile la cui
responsabilità cade totalmente sul soggetto.
Queste conoscenze probabili non sono propriamente conoscenze, ma
credenze (belief). Belief è lo stesso
termine che aveva utilizzato Locke quando parlava della fede, cioè di
quel sapere che io ottengo per testimonianza.
Le credenze sono la grande intuizione di Hume, che capisce che nella nostra mente stanno dei contenuti a cui io do il mio assenso sulla base di una spinta della mente, che mi porta a stabilire delle connessioni così immediate tra le mie idee che io scambio per impressioni.
Cosa distingue una credenza da un’idea normale? Il fatto che la mia credenza è carica di aspettativa, e in quanto tale io mi aspetto che quella cosa succeda…e me lo aspetto così fortemente da caricare quell’idea di una vivacità che me la fa scambiare per un’impressione, quindi io mi inganno e credo di percepire qualcosa che in realtà ho introdotto surrettiziamente nella mia percezione in maniera arbitraria.
es. Quando ho l’impressione del fuoco, trattengo l’impressione del
fuoco nella mia mente e la trasformo in idea; quando connetto il fuoco
con il calore (o con il fumo, o qualsiasi effetto del fuoco),
carico l’idea del fuoco di questa percezione e mi
illudo di aver percepito questa cosa insieme all’idea: questa è
una credenza. Io accompagno l’idea di fuoco con l’idea di
bruciore, come in un legame immediato e necessario frutto di una
illusione della mente.
La credenza acquista una vivacità dovuta al carico di
aspettativa da cui io la investo, tale da percepirla come
impressione; io mi illudo di aver percepito la stessa idea la
connessione che essa ha con il suo effetto come se quella connessione
fosse parte dell’idea stessa.
Le conoscenze probabili sono non necessarie, cioè il loro contrario è logicamente concepibile. Quando io penso al contrario di una credenza, la mia mente non “va in corto circuito” come quando penso ad una verità di ragione. Quando penso ad una credenza possono pensare il suo contrario senza violare una legge logica.
A fondamento della creazione delle credenze non sta la ragione, ma
l’istinto.
Alla base delle credenze c’è un istinto, non meno nobile della ragione,
che mette capo all’abitudine, che è la grande patologia e la grande
salvezza della natura umana. Nel considerare la natura umana Hume ha
l’atteggiamento avalutativo dello scienziato. La natura è fatta di tante
cose tutte ugualmente nobili.
Vanno attribuite all’istinto la maggior parte delle conoscenze che noi
abbiamo. Credenza è frutto di una abitudine. Ho degli elementi a
posteriori, delle connessioni a posteriori tra questi elementi, che
esperisco continuamente, e tutto ciò contribuisce la parte non
razionale della mia natura in modo tale da portarmi a pensare che in
natura si dia un sistema di cause; ma questa impostazione ha un
fondamento esplicitamente soggettivo, un fondamento
esplicitamente psicologico. Nulla ci autorizza a dire che il
mondo è fatto così.
Il mondo è un insieme di percezioni che noi connettiamo sulla base di regole della nostra sola natura. Il soggetto stabilisce le cose sulla base di un istinto naturale che lo porta a vedere le cose in un certo modo. L’ambito dell’a posteriori non è affatto squalificato.
Es. Immaginiamo una ricca bottega in una città, dove due mercanti
fratelli a fine giornata fanno i conti di quello che hanno guadagnato,
una lista molto lunga di cifre che devono sommare. Come sono sicuri ad
aver fatto i conti tutti giusti? Prima li faranno una volta, poi magari
li fanno altri due volte, e poi confrontano i loro risultati.
Questo non è un metodo di verifica a posteriori sulle
conoscenze della ragione, ma a priori. La ragione è infallibile
ma in un ambito molto stretto - lì può rivendicare una necessità delle
loro conoscenze.
Ma non appena le intuizioni, gli elementi evidenti diventano radi ecco che la ragione da sola non ce la fa più ed ha bisogno di scavalcare il confine della certezza e cercare conferma nell’ambito della probabilità, che ha criteri esterni alle cose stesse, a posteriori.
Per Kant ci sono giudizi analitici a priori e giudizi sintetici a posteriori. Quando sono nelle verità di ragione sono nell’ambito dei giudizi analitici a priori. Ma questo pone un problema su trovare nuove conoscenze.
I giudizi sintetici a posteriori sono giudizi in cui metto insieme cose che non sono analiticamente implicate, ma per farlo ho bisogno di “materiale”, dell’esperienza, non ci posso arrivare solo con la testa. Ma se non ci posso arrivare con la testa, mi manca la garanzia di necessità dell’a priori.
I primi giudizi sono bombe di certezza ma sterili; i secondi mi permettono di ampliare la mia conoscenza ma solo nell’ambito della probabilità.
Non possiamo illuderci di dare la versione finale delle cose, non possiamo sapere come funzionano le cose; e questa, dice Kant, è l’intuizione geniale di Hume: il mondo è costruito su sistemi soggettivi. È il soggetto che pone i termini conoscitivi del suo mondo.
Non esiste una causalità delle cose, siamo noi soggetti che mettendo insieme elementi desunti dell’esperienza, mettiamo insieme delle credenza alle quali assegniamo un valore predittivo.
Al di là delle percezioni che posso riferire a qualcosa fuori di me, non ci sono dei sostrati che hanno le stesse caratteristiche che io attribuisco loro; non ci sono rapporti necessari tra le cose che io cerco di riprodurre nella mia conoscenza; il mondo è un insieme di percezioni che sono nella testa dei soggetti.
Un tentativo di introdurre il metodo sperimentale nello studio delle scienze morali significa considerare la natura umana un oggetto di indagine che deve rispondere agli stessi principi con cui si studiano i fenomeni naturali. Questo è l’atteggiamento filosofico che ha qualificato Hume come il promotore o primo iniziatore del naturalismo filosofico. Per naturalismo si intendeva allora la possibilità di spiegare ogni aspetto della natura attraverso gli stessi principi, avversando la convinzione fallace già denunciata da Spinoza, che l’uomo sia un impero nell’impero, un pezzo di realtà che funziona secondo leggi diverse da quelle con cui funziona l’intera natura.
In che cosa si concretizza questo tentativo di applicare il metodo
sperimentale alla natura umana? In un atteggiamento
osservativo, nel senso che la contemplazione della
natura umana è un oggetto privo di ogni tipo di
investimento da parte del ricercatore.
Quanto a conferimento di valore, il ricercatore è equanime nei confronti
dell’oggetto che sta studiando, arrivando al proprio oggetto di
indagine, abbandonando tutti i pregiudizi e tutte le concezioni che
possono inquinare i risultati della sua osservazione.
Questo significa guardare alla natura umana in maniera
disincantata, senza sperare di ritrovare nel soggetto la
scintilla divina, il sovrano della natura, o qualcosa che sia portatore
di valori superiori o diversi da quelli della natura umana.
Questo studio della natura umana ha come orizzonte ciò che il
ricercatore può osservare all’interno della propria mente, ciò che può
osservare accadere tra le azioni degli uomini. Abbiamo visto che questa
è la maniera in cui Hume intende la possibilità di includere anche nello
studio sulla natura umana quell’elemento sperimentale, della
formulazione di esperimenti in un oggetto che si sottrae di per
sé all’osservazione: è difficile nel mondo umano
riprodurre situazioni artificiali e verificare il comportamento degli
esseri umani, perché si modificano e si adattano alle
situazioni, compromettendo il risultato dell’osservazione
quando si sanno sotto osservazione.
Per cui, ampliare lo spettro delle osservazioni è l’unica maniera per vedere come si comporta la natura umana nella varietà di situazioni in cui essa si trova coinvolta. Questo consente di formulare principi generali che forniscano criteri di orientamento, ossia leggi regolari alle quali la natura umana sembra corrispondere. Quando prima vi dicevo che l’orizzonte del ricercatore è quello della mente, intendevo l’elemento sul quale ho tanto insistito ieri, cioè la presa di distanza di Hume da qualsiasi implicazione metafisica del suo discorso. Ho insistito sul fatto che questo è un atteggiamento coerente con il metodo newtoniano dell’hypotesis non fingo sul non introdurre nessun tipo di assunzione che si sottragga al caveat dello scienziato sperimentale che deve limitarsi all’osservazione e sperimentazione.
Lui fa un passo avanti rispetto a quello che avevamo visto succedere nel Saggio, assumendo un atteggiamento descrittivo nei confronti delle operazioni della mente, rispetto al quale Locke mantiene una cautela epistemica, ma che presuppone a fondamento delle proprie ricerche.
Ecco, anche soltanto questa presupposizione che cade al di là dei
limiti dell’osservazione e quindi in Locke rimaneva diciamo uno sfondo
al quale la nostra ricerca non poteva mai arrivare, un elemento
inattingibile, ecco, con Hume è ricacciato fuori dai confini dell’ambito
di immagine.
Abbiamo visto che un elemento rivelativo a questo proposito è questa
affermazione humiana secondo la quale tutte le percezioni che popolano
la nostra mente derivano da cause ignote, ossia non sappiamo che
cosa le abbia prodotte.
Sappiamo che sono percezioni che provengono dalla nostra sensibilità, e questo lo sappiamo per il fatto che se ci tappiamo i sensi, non otteniamo più quelle percezioni; ma che cosa sia che le ha prodotte, se siano degli oggetti che stanno fuori di noi o se sia una qualche stimolazione dei nostri organi di senso, è qualcosa sul quale non possiamo prendere posizione e che soprattutto non ha grande importanza quanto all’obiettivo della ricerca.
Noi vogliamo capire come funziona la natura umana e quindi quali sono i fondamenti soggettivi, cioè fondati sulla natura umana, dell’immagine che ci facciamo del mondo e dei criteri che assumiamo come direttrici per orientarci in esso.
A fine lezione un collega ha fatto una domanda relativa al senso con cui noi prendiamo la divisione oggettivo/soggettivo nella filosofia moderna, e io ho insistito sul fatto che a questo punto della storia del pensiero l’aggettivo soggettivo non sta a indicare una forma di relativismo legato alla costituzione individuale dei singoli. Qualcosa che è soggettivo non è qualcosa che vale soltanto per me, ma vale per il soggetto umano, ossia per quella parte del reale dotata di una determinata natura che è filtro attraverso il quale deve passare ogni considerazione che questo individuo, questo rappresentante della natura umana si fa del mondo.
E questo è un punto di svolta importantissimo nella storia della filosofia, ed è quello contro cui Hegel punterà il dito quando dirà che a un certo punto i filosofi sono diventati tutti soggettivisti - avendo in mente Kant, Fichte, Jacobi, i personaggi che noi incontreremo più avanti nella nostra storia, che di fatto costruiscono dei sistemi filosofici, che radicalizzeranno questa idea, per cui il soggetto ha in sé quei principi e quelle leggi di associazione, trasformazione delle idee che gli restituiscono un’immagine del mondo, sì, non ha nessun valore oggettivo, nel senso che non pretende di dirmi come sono fatte le cose a cui, invece, ma ha un valore universale e necessario perché è determinato da quella struttura della natura umana che è uguale e identica in tutti i soggetti.
Il soggetto ha veramente in sé tutti i principi e le leggi di
associazione?
Questo è fondamentale da comprendere nello sviluppo della storia e del
pensiero, perché apre a una maniera nuova di concepire il lavoro del
filosofo ed è, diciamo così, il primo germe di quella
rivoluzione copernicana che noi incontreremo con la filosofia
critica di Kant e che è ridotta ai minimi termini - poi non è stata
un’idea Kant quella che aveva fatto una rivoluzione in filosofia.
Questa è una storia che vi racconterò poi, ma che ha in comune però la convinzione che non c’è un oggetto precostituito, un’esperienza, un mondo esterno che starebbe lì anche se non ci fosse un soggetto che lo osserva, e un mondo esterno che il soggetto può conoscere nella misura in cui riesce in qualche modo, qualsiasi esso sia, a penetrare le leggi che lo regolano e quindi la sua natura oggettiva, che è indipendente dal soggetto.
Ma il mondo esterno richiede di essere innanzitutto il mondo esterno per quel soggetto. E quindi è a partire dalla prospettiva del soggetto che vanno cercati i principi e le regolarità che noi assumiamo per raffigurarci un’esperienza coerente e condivisa - lo studio si trasferisce all’interno della mente (uso questo termine generalissimo) del soggetto all’interno di quei meccanismi di funzionamento che sono i nostri filtri per poterci costruire un’immagine della realtà.
E abbiamo visto che con Hume questo tipo di procedimento passa attraverso la distinzione, all’interno dell’ampio spettro delle percezioni che stanno nella mente, tra le impressioni e le idee, che sono una distinzione importante che introduce in quel mare magnum di percezioni che erano le idee lockiane; e abbiamo visto che al livello delle idee è possibile introdurre una capacità attiva della mente che connette i propri contenuti attingendo a facoltà che non sono limitate all’utilizzo della ragione.
La ragione si occupa di una parte della connessione tra le idee che risponde alle leggi della ragione stessa, cioè alle leggi della logica, il che le consente di procedere nella connessione delle idee del tutto a priori, cioè indipendentemente dall’esperienza.
Però badate sempre che questo ambito dell’a priori è un
ambito che riguarda soltanto le idee, e le idee derivano tutte dalle
impressioni - quindi nulla ha a che fare con le vecchie tradizioni
dell’innatismo filosofico. Le conoscenze a priori non sono
conoscenze che la ragione umana trova in se stesse, già belle fatte e
finite come negli innatisti che abbiamo incontrato fino adesso; le
conoscenze a priori sono connessioni stabilite a
priori su materiali ottenuti a posteriori.
Questa è una cosa molto importante: anche la mente humiana è un foglio
bianco, una tabula rasa. Quindi queste connessioni a priori
sono le connessioni di pertinenza della ragione che Hume chiama
conoscenze o verità di ragione - relazioni tra idee che hanno la
caratteristica di essere necessarie, cioè il contrario è impossibile e
sono certe, certissime.
Un altro elemento fondamentale che ci fa toccare con mano il
disincanto di Hume nello studio della natura umana e l’ammissione del
fatto che la ragione, questa nobile facoltà, questa
scintilla divina, questo lume che noi posiamo sui due sensi, non
è il cavallo forte nella gara dell’umanità, nel campionato
della conoscenza.
Questo perché la ragione ci consente di attingere a una rosa di
verità ristrettissima che rende ragione di una parte veramente minima
delle conoscenze di cui disponiamo, che sono le conoscenze
delle matematiche e della logica.
La grande parte della nostra esistenza che si orienta intorno a
conoscenze che non hanno un fondamento razionale, ma hanno un
fondamento nella natura istintuale dell’uomo.
Questa natura istintuale è quella che si esprime in una facoltà
che Hume affianca alla ragione e che diventa qui la regina del lavorio
della mente, che è l’immaginazione.
L’immaginazione è quella facoltà che procede a associare le
idee; l’immaginazione è una facoltà non
razionale; è una facoltà che da sempre nella storia della
filosofia ha avuto un ruolo ibrido tra le facoltà
inferiori, la sensibilità, e la facoltà
superiore, la ragione, l’intelletto, perché l’immaginazione è
un po’ passiva, è un po’ legata all’utilizzo dei sensi, perché si rifà a
quelle immagini che noi percepiamo attraverso la sensibilità; ma non è
solo passiva, è anche attiva, è anche in grado di comporre le nostre
idee in un ordine che non risponde a quello che ci viene restituito
dalla sensibilità.
Ecco, e questa immaginazione, che riveste questo ruolo di elemento di
cerniera tra le facoltà, viene posta al centro dell’attività della mente
umana, nella produzione della gran parte delle sue conoscenze.
L’immaginazione, dice Hume - anche qui Kant copia proprio a quattro mani
- è una dolce forza che agisce tra le profondità
dell’anima. Kant, quando parlerà dell’immaginazione produttiva della
teoria dello schematismo, dirà è un’arte nascosta nelle
profondità dell’anima, una cosa analoga a quella che dice Hume,
ossia è una forza che tiene insieme le idee, così come la
gravità connette o tiene insieme o agisce come forza di attrazione tra i
corpi.
Le stesse leggi che noi utilizziamo per spiegare i movimenti dei corpi sono le leggi che agiscono anche all’interno della mente degli uomini e le leggi dell’immaginazione sono le leggi dell’associazione delle idee: la somiglianza, la contiguità spazio temporale e la causalità. Abbiamo visto ieri che queste connessioni, che sono connessioni che vengono stabilite a posteriori, cioè attraverso la percezione dei nessi tra le impressioni che l’anima riceve del tutto passivamente, queste conoscenze tra grandi virgolette a posteriori non sono conoscenze certe e necessarie, perché il loro contrario è concepibile, cioè non mi è concesso di violare le regole della logica, di concepire il contrario di quello che viene affermato non è contraddittorio.
Quest’ambito è un ambito che non ha nulla a che fare con la certezza apodittica e incrollabile delle relazioni prese è l’ambito della probabilità e l’ambito della probabilità è quello in cui si svolge la gran parte della nostra conoscenza. In quest’ambito della probabilità cadono alcune conoscenze che stavano a fondamento delle metafisiche classiche e che, diciamo, venivano prese in prestito dalla scienza nel costruire quella conoscenza necessaria relativa al funzionamento dei fenomeni che rendeva la scienza un sapere massimamente certo.
Abbiamo visto ieri il caso della causalità, che non è l’unico, ma forse il più famoso - indebitamente il più famoso - però è il più famoso, perché Kant dice che Hume lo ha svegliato dal sonno dogmatico con questa critica alla causalità, ma l’avrebbe svegliato dal sonno dogmatico anche se avesse fatto riferimento alla critica sostanza della quale, ripeto brevemente la critica, perché vorrei che fosse molto ben chiaro a tutti, essendo poi l’inizio di un cammino che non ci abbandonerà più.
La causalità non è una connessione necessaria tra due
fenomeni, causa-effetto, e non rientra nell’ambito delle conoscenze
razionali, le quali sole possono rivendicare il carattere di
necessità e possono rivendicare il carattere di necessità perché
determinano connessioni a priori tra di noi.
Mentre la causalità, cioè il rapporto tra la causa e l’effetto, non si
dà mai a priori, ma richiede sempre di connettere due cose che
possono stare insieme soltanto sulla base di un’esperienza,
cioè soltanto sulla base di una percezione di connessione fra le
mie impressioni.
Esempio della palla da biliardo A tocca la palla da biliardo B e la
palla da biliardo B si muove.
Questa conoscenza è formata se noi vogliamo seguire il percorso lockiano
della genesi delle nostre conoscenze, osservando questi oggetti,
osservandone, cioè, percependo questi oggetti,
percependo la contiguità spaziotemporale degli eventi e
percependo la regolarità del manifestarsi di questa
relazione.
Quindi, sulla base di questi tre elementi che sono elementi estranei gli uni agli altri che fanno parte, diciamo così, di percezioni differenti, la mia mente stabilisce una connessione dando luogo, per istinto e per abitudine, a una credenza, ossia a una conoscenza probabile che si carica di un’aspettativa.
Per questo si chiama credenza, si carica di un’aspettativa nell’attesa di casi simili. La vivacità di questa credenza la rende simile alle nostre impressioni, tanto da indurmi a illudermi di aver percepito all’interno della stessa percezione della cosa tutte quelle implicazioni che in realtà ho tratto dall’esperienza.
Cioè, siamo davvero sicuri che la causalità non sia una connessione
a priori?
Andiamo, quindi, consegniamo alla ragione la credenza della relazione
causa-effetto - e la ragione come procederà? Scomponendo le idee di cui
dispone, vedrà che per mettere insieme un’idea con la relazione che
attribuisco a questa idea è necessario reperire altro materiale che non
può essere reperito attraverso la mera analisi concettuale, che è
l’unico strumento di cui dispone la ragione in termini tra le note, cioè
tra le parti costitutive di questa idea.
Detto in termini humiani, che ci sono più familiari, tra le idee semplici che compongono l’idea complessa di questo ente non trovo nulla che riguardi la relazione che può avere con altri enti; quindi questa conoscenza non è una conoscenza a cui la ragione può arrivare da sola, seguendo la via della connessione tra le idee, quindi non è una conoscenza necessaria e certa, quindi cade nell’ambito della probabilità.
Questo non significa, vi ho detto ieri, cadere in uno scetticismo disperato; significa, come dire, spazzare un colpo abbastanza esiziale, alla tracotanza della scienza e a quella presa di restituirci l’immagine del mondo come è, un’immagine che non teme smentita, perché la scienza si muove nell’ambito del posteriore, nell’ambito del probabile, del massimamente probabile.
Tuttavia, questo scetticismo è uno scetticismo che si modera non appena si passa dal piano meramente speculativo, cioè quello che intende la filosofia come un dispositivo di elaborazione di conoscenze certe - che per carità ci sono molti filosofi, allora, ma anche oggi, che ritengono che il compito della filosofia sia quello di, come dire, predisporre dei dispositivi di verifica della validità delle argomentazioni al di là dell’oggetto a cui si riferiscono queste argomentazioni - un dispositivo formale della verifica della correttezza dei ragionamenti per vedere cosa è vero e cosa è falso.
Ecco, questo diciamo in una maniera un po’ mutila di concepire la filosofia. Un po’ angusta, eh? La filosofia non si deve occupare di come dire di procurarci un software che ci consente di individuare tutte le falle del ragionamento. Deve ampliare lo sguardo.
La filosofia riguarda anche questo, se mi viene il mal di stomaco
tutte le volte che lo dico. Eppure è così la domanda sul senso è una
guida per la conduzione dell’esistenza, non voglio fare l’heideggeriana
e neanche la gadameriana, però è questo che fa la filosofia. Questa è
un’espulsione della natura della filosofia, come sapete, ma non è una
branca della logica o della matematica.
La filosofia è una ricerca sull’uomo sulla condizione dell’uomo, su
quello che l’uomo o l’essere umano fa della propria vita all’interno di
questo mondo e di che cosa gli serve e dove reperisce gli strumenti per
condurre un’esistenza soddisfacente.
Ed è per questo che la filosofia deve ampliare il proprio orizzonte al di là della sfera speculativa, cioè della verifica della correttezza, della falsità, delle nostre credenze sulla base di quel dispositivo rigorosissimo che è la ragione.
Lo fa entrando in una dimensione pragmatica che noi abbiamo già incontrato in corsi come sfondo della riflessione lockiana, che in Hume più diventa ancora più radicale: lo scetticismo a cui condurrebbe il relegare la ragione in uno spazio così angusto e l’affermare il carattere soltanto probabile di tutte le conoscenze di cui noi disponiamo significa, nella misura in cui a noi non serve avere conoscenze certe - e quando dico conoscenze certe lo intendo in quel senso forte che abbiamo visto ieri essere dominio della ragione per poterci orientare nel mondo e per condurre un’esistenza soddisfacente - a noi è sufficiente quell’alto grado di probabilità che ci fa pensare di poter far conto legittimamente sull’uniformità della natura e sul fatto che se le cose hanno sempre funzionato così, continueranno anche in futuro a funzionare.
La filosofia humiana è un’affermazione, è proprio un grido disperato dell’urgenza di riportare il compito della filosofia dentro i confini delle potenzialità umane, di abbandonare quell’esigenza di onnipotenza che ancora lasciava percepire la sua eco dai sistemi seicenteschi.
L’uomo non ha bisogno di conoscere tutto in maniera inconfutabile, ma gli è sufficiente avere gli strumenti per orientarsi nell’esistenza, esattamente come quell’immagine del marinaio lockiano, che voi ricorderete, che con la sonda misura quanto è profondo il fondale. Il valore della profondità assoluta del fondale è di importanza relativa.
Vi leggo un passo su questa riflessione, sullo scetticismo.
Qualcuno, Hume scrive, e siamo nella prima parte, il quarto capitolo:
“Uno forse mi domanderà se sono convinto veramente di ciò che
fatico tanto a dimostrare e se sono realmente uno di quegli scettici che
ritengono che tutto è incerto e che il nostro giudizio non ha alcuna
misura per il vero e il falso di nessuna cosa.
Rispondo che la domanda è del tutto superflua e che nessuno, mai, né io
né altri, è stato sinceramente costantemente di questa
opinione.”
Cioè, lo scetticismo è un meraviglioso esperimento mentale dei filosofi, ma nessuno è mai stato realmente scettico, grazie a Dio, perché noi non siamo ragioni distillate: noi siamo anche istinto, sensibilità, immaginazione, natura, per un’assoluta e irresistibile necessità la natura ci porta ad indagare come a respirare e a sentire,
“…né possiamo più facilmente impedirci di considerare certi
oggetti sotto una luce più forte e completa, a causa della loro abituale
connessione con un’impressione presente, di quel che possiamo impedirci
di pensare finché siamo svegli o di vedere i corpi circostanti quando
volgiamo gli occhi attorno in pieno mezzogiorno.
Chiunque si è preso il disturbo di confutare i cavilli di questo
scetticismo totale ha in realtà discusso senza avversari, ha cercato di
sostenere con argomentazioni una facoltà che la natura ha
precedentemente ben piantata nella mente e resa inevitabile”.
Quindi lo scetticismo è, diciamo, un inutile
trastullo dei filosofi.
E quando si vuole discutere di cose che non sono reali problemi, perché
così come noi siamo dotati di una sensibilità che ci fa percepire il
mondo come lo percepiamo, così siamo dotati di una natura che ci porta a
giudicare delle cose, nella maniera in cui, e questa natura che
è l’unica via di accesso che noi abbiamo al mondo è più che sufficiente
per condurre le nostre esistenze.
Vi dicevo prima che la confutazione della validità necessaria, certissima, delle conoscenze causali e ciò che ha reso Hume noto nella storia della filosofia; ma non è questo l’unico bastione della metafisica che Hume fa cadere; l’altra grande bastione della metafisica è la nozione di sostanza alla quale ieri ho fatto cenno, ma per oggi vedremo più nel dettaglio.
Hume arriva ad affrontare la questione della sostanza sulla scorta della riflessione lockiana che non sto a ripetere perché a questo punto penso sia molto chiaro. Hume muove un passo oltre Locke, esattamente nella medesima direzione in cui lo ha mosso destituendo di fondamento oggettivo il rapporto causale fra i due fenomeni, ossia riportando interamente sul soggetto la responsabilità, l’onere, diciamo così, di connessione costante di quelle qualità che noi percepiamo negli oggetti e che Locke si trovava necessitato a impiantare su un sostrato, ancorché inconoscibile.
Non c’è bisogno di supporre che ci sia un sostrato; è più che sufficiente accontentarsi di questa natura istintuale della mente umana che è in grado da sola di provvedere un collante per questi elementi che l’esperienza ci presenta sempre insieme.
La sostanza è una creazione del soggetto; è
il soggetto che decide di rappresentarsi il mondo come fatto di
cose che stanno in determinate connessioni fra di loro.
Ma il mondo di cui parla il soggetto non è altro che
ciò che viene ritratto in quelle impressioni e in quelle percezioni che
noi otteniamo attraverso i nostri organi di senso. E riguardo a
questo mondo che sta fuori dal soggetto, noi non siamo in grado di dire
nulla: diciamo, la nostra struttura psicologica, cioè il
funzionamento della nostra mente naturale, è quello che predispone
un’organizzazione di queste percezioni, sostanze, attributi, essenze,
connessioni.
Ma tutte queste cose non hanno altro fondamento che la natura umana stessa, non c’è nulla che fuori risponda alla maniera in cui noi lo ritraiamo nella nostra mente. E questo non riguarda soltanto le sostanze materiali, perché questo ce lo aveva già insegnato Locke; riguarda anche la sostanza spirituale, riguarda anche l’Io.
Vi ricordate che con Locke eravamo giunti alla teoria dell’identità
personale, che è una teoria che riprende lo stesso Hume in un bellissimo
capitolo del Trattato sull’identità personale?
Identità personale è quella maniera di poter affermare l’identità di un
unico soggetto al variare dei suoi stati mentali sulla base di un
criterio che non ha un fondamento metafisico, ma che risiede in una
facoltà del soggetto stesso: la coscienza e la memoria. Ciò non di meno
Locke continuava a pensare che ci fosse un’anima inconoscibile,
ma che ci fosse - altrimenti come faccio io a essere sempre lo
stesso?
Io mi conosco come persona ed è l’unico modo in cui io posso
conoscermi. Ma questa identità dovrà pur avere un supporto
metafisico affinché io non mi disperda nella molteplicità degli stati
mentali.
Analogamente a quanto ha fatto per la causalità, Hume dice la stessa
cosa rispetto al soggetto e inventa una teoria che avrà un successo
strepitoso nella filosofia della mente, nelle scienze cognitive
novecentesche, la cosiddetta Bundle Theory, cioè la
teoria del fascio, sono tutti autori che hanno costruito su questa
maniera di concepire l’Io come centro narrativo, diciamo così della
nostra esistenza, la loro teoria della mente
Allora l’Io è un fascio di percezioni, non c’è un fondamento che sostiene la molteplicità degli stati mentali. L’io è un fluire di percezioni di noi stessi, ossia di quelle che Hume chiama di impressioni di riflessione.
Vedete come ritorna il linguaggio humiano; l’Io è un fascio che noi raccogliamo intorno a un’unità base di un istinto che ci porta a riferire a un unico centro, che è quello della nostra coscienza, della percezione che noi abbiamo di noi stessi, i molteplici avvicendarsi di queste impressioni della nostra riflessione
E c’è un’immagine molto famosa sulla quale mi voglio fermare, attraverso la quale Hume con un esperimento figurativo spiega che cosa sta intendendo.
Allora, fatta eccezione… sono sempre nel Trattato, nel capitolo sullo scetticismo e altri problemi. Capitolo VI sull’identità personale.
“Fatta eccezione di qualche metafisico. Io oso affermare che per
il resto dell’umanità noi non siamo altro che fasci o collezioni di
differenti percezioni che si susseguono con una impercettibile rapidità
in un perpetuo flusso e movimento. I nostri occhi non possono girare nel
loro foro senza variare le nostre percezioni. Il nostro pensiero è
ancora più variabile della nostra vista e tutti gli altri sensi e
facoltà contribuiscono a questo cambiamento.
Né esiste forse un solo potere dell’anima che resti identico senza
alterazione per un solo momento, sicché la mente è una specie di teatro
dove le diverse percezioni fanno la loro apparizione, passano e
ripassano, scivolano e si mescolano con un’infinità di varietà di
atteggiamenti e situazioni, né c’è propriamente in essa nessuna
semplicità in un dato tempo, né identità in tempi differenti, qualunque
sia l’inclinazione naturale che abbiamo a immaginare quella semplicità e
quella identità.
E non si prende il paragone del teatro a costituire la mente, non c’è altro che le percezioni successive. Noi non abbiamo la nozione del posto dove queste scene vengono rappresentate o del materiale di cui è composta.
La mente è come un teatro su cui passano gli attori, in cui si susseguono delle scene, ma non fraintendiamo la metafora, eh, non c’è un palcoscenico, non c’è una struttura stabile che fa da sfondo o da sostegno o da sostrato di queste percezioni, siamo come in un teatro di strada, dove senza nessuna scenografia, gli attori fanno la loro comparsa e scompaiono.
E tuttavia noi siamo istintivamente indotti a stabilire un’unità in quella loro rappresentazione, un’unità che è dovuta al fatto che noi li riferiamo a un medesimo contesto; stabiliamo tra questi delle relazioni che li rendono poli unitari, poli unitari esclusivamente sulla base del nostro modo di rappresentarci. Non c’è, diciamo, una costrizione esteriore che li tiene insieme.
E lo stesso succede nel caso dell’Io: io stabilisco la mia
identità personale perché riferisco a una
consapevolezza di variare delle impressioni, di riflessione che
occorre nella mia mente.
Ma tutte le convinzioni circa la semplicità dell’io, l’immaterialità
dell’Io e tutti questi corollari della fondazione della psicologia
moderna, che è l’anima cartesiana della res cogitans cartesiana,
non sono altro che maniere in cui io, naturalmente, sono portato
a rappresentarmi qualcosa che non ha nessuna legittimità di venirmi
recato fuori dalle capacità compositive del mio pensiero.
L’Io è un fascio di percezione nell’avvicendarsi di
queste comparse sul teatro immaginario - è la mia mente a
costruire il teatro e la mia mente ha bisogno di supporre che
ci sia qualcosa che sta a fondamento di quello che vediamo.
Ci vuole un grande atto di coraggio per potersi prendere la
responsabilità di stabilire delle connessioni tra le cose che sappiamo
non avere nessun altro fondamento che quello delle nostre facoltà. Ed è
per questo che in un’altra immagine celebre e bellissima, sempre nello
stesso titolo, Hume paragona la mente a una repubblica. Sentite che
bella quest’immagine!
Le nostre impressioni fanno sorgere idee corrispondenti. Queste a
loro volta generano altre impressioni, in un movimento sempre continuo
che anima la vita della mente: un pensiero ne caccia un altro, trascina
con sé un terzo…da questo lato non potrei paragonare l’anima meglio che
a una Repubblica, uno stato in cui diversi membri sono uniti da un
vincolo reciproco di governo e di subordinazione e danno vita ad altre
persone, le quali continuano la stessa Repubblica, nell’incessante
cambiamento delle sue parti.
E come una stessa repubblica non soltanto può cambiare i suoi membri, ma
anche le sue leggi e la sua Costituzione. Nello stesso modo una medesima
persona può mutare carattere, può mutare disposizione, così come le sue
impressioni e le sue idee, senza perdere la sua propria identità.
Qualunque cambiamento subisca, le parti sono sempre connesse dalla
relazione di causalità e dalle altre leggi dell’associazione e da questo
punto di vista la nostra identità serve a corroborare quella
dell’immaginazione, facendo in modo che le percezioni distanti si
influenzino a vicenda e ci diano un interessamento sempre presente per
quel che ci accade nel presente, nel passato e nel futuro.
Mentre l’immagine del teatro ci serviva a capire l’abbandono di una concezione sostanzialistica della mente, l’immagine della Repubblica ci serve a capire l’autonomia della dinamica del mentale, ossia il fatto che quello che io chiamo io, quello che io chiamo la persona intorno a cui costruisco l’identità è un qualcosa che è determinato dalle connessioni interne che si stabiliscono tra i diversi elementi che formano, per dirla alla Locke, quest’idea complessa di Dio, i diversi elementi che sono le nostre percezioni, le nostre idee, le nostre impressioni, le quali sono in un continuo rapporto tra di loro, perché noi abbiamo visto che le impressioni generano idee, le quali possono a loro volta generare altre impressioni e le quali sono tenute insieme da leggi che fanno parte della dotazione originaria della mente.
Queste leggi dell’associazione sono le dolci forze che
tengono insieme le nostre idee e poi le leggi della ragione,
che confrontano, contrappongono, stabiliscono l’identità e le
differenze.
In questo senso l’immagine della Repubblica è un’immagine molto
efficace. La Repubblica è fatta di cittadini che sono in connessione tra
loro sulla base di un sistema di riconoscimento di diritti
garantito dalle leggi, il quale non è una costrizione esteriore che li
confina all’interno di uno Stato, diciamo, spazialmente
determinato.
La Repubblica non sono i confini di quel territorio, ma sono i rapporti giuridici che legano tra loro gli individui. E questi rapporti giuridici sono l’analogo dei rapporti di associazione e di confronto o disaccordo tra le idee che la nostra mente stabilisce in una maniera del tutto naturale, quella maniera naturale per la quale noi siamo portati a giudicare, così come siamo portati a servirci dei nostri organi di senso in una maniera che sfugge al nostro arbitrio o alla nostra decisione.
È per questo che possono cambiare le percezioni, ma questo non intacca la mia identità. Possono anche cambiare, avete sentito? I caratteri, Cioè posso anche cambiare i temperamenti questa attenzione per i caratteri degli uomini, per l’indole, è un qualcosa che noi non abbiamo mai incontrato finora, nella storia della filosofia mai incontrato in questa sua accezione chiaramente antropologica.
Incontravamo le passioni, incontravamo l’influenza che determinate passioni hanno sulla condotta degli individui, ma l’idea di un temperamento, di un carattere che potesse fare parte di quell’identità personale era un qualcosa che interessava relativamente ai filosofi, perché faceva parte di quella condizione mutevole che non doveva avere nessuna relazione con ciò che interessa lo studio del filosofo in questo sguardo disincantato sulla natura umana, in questo sguardo sulla natura umana che tiene conto di tutti gli aspetti dell’umano senza stabilire una gerarchia di valori, anche il tempo.
Quindi anche le inclinazioni naturali dell’uomo, siano esse flemmatiche, irascibili, permalose, o focose, sono elementi che vanno a costituire quell’immagine della persona, quell’immagine del Dio che sta al centro dello studio della filosofia.
E su questo Hume costruisce due teorie importanti sulle quali dobbiamo fermarci, due teorie importanti e dico importanti perché sono feconde, perché sono teorie sulle quali la riflessione filosofica è tornata anche a distanza di secoli.
E sono:
una teoria della libertà
molto particolare che sta a fondamento delle teorie etiche contemporanee
che noi chiamiamo compativiste.
una teoria delle passioni
che rompe completamente con il canone che noi abbiamo incontrato
fino ad adesso - quello del dominio sulle
passioni -che era quello, diciamo, che Cartesio in parte
eredita dalla filosofia classica e che di fatto teorizza all’interno
della propria filosofia delle passioni dell’anima, cioè quella della
necessità di un dominio razionale sulle passioni. Le passioni vanno
dominate, se non si dominano le passioni, ci si comporta come gli
animali irrazionali e si comporta come quegli enti che non hanno res
cogitans, ma sono, diciamo, degli automi.
Allora parto dal primo punto. Il primo punto è fortemente
antiintuitivo.
In questo sistema di concezione della persona, dell’Io, come flusso di
percezioni, come fascio di percezioni, la volontà è una delle
percezioni che fanno parte del nostro io.
Ma questa non deve essere proprio una sorpresa perché abbiamo incontrato
in Locke la stessa convinzione e l’avevamo incontrata anche in Hobbes,
se vi ricordate bene: la volontà non è una facoltà - le
facoltà sono dei modi che noi utilizziamo per chiamare alcune capacità
che riscontriamo essere attive nella mente, ma non ci sono delle
facoltà, dei dipartimenti dell’anima alla maniera in cui concetti
attesi.
Per cui quello che noi chiamiamo volontà in realtà è un
universale che noi costruiamo a partire da atti volitivi, ossia
da appetizioni che sono quelle nostre impressioni
accompagnate dal desiderio di qualcosa. Sono quelle nostre
appetizioni che ci portano piacere o dolore, cioè sono
delle impressioni che generano delle impressioni di riflessione.
Io ho un’impressione, il dolce, che genera
nella mia anima un’impressione di riflessione, cioè un
appetito, un desiderio di ricercare qualcosa di dolce sulla
base della dinamica classica piacere-dispiacere. Qualcosa mi procura
piacere, questo qualcosa diventa oggetto di un modo di un animo, quindi
di un altro momento percettivo rivolto a intensificare o confermare
quella sensazione di piacere.
Anche qui non ha nessun senso parlare di una libertà della volontà. Gli atti volitivi non sono idee. Io non decido cosa voglio e cosa non voglio - gli atti volitivi seguono quelle medesime dinamiche che stanno alla base di tutte le connessioni tra le idee. Il simile si richiama; idee opposte si richiamano idee che io organizzo sulla base di rapporti causali si richiamano, non c’è nessun intervento di una supposta facoltà che si sottrae alle leggi che regolano i meccanismi delle idee, come le leggi della natura regolano i meccanismi dei corpi e che mi consente di deviare il corso delle mie volontà.
E questo tipo di concezione nel corso della storia della filosofia che noi abbiamo incontrato portava alla negazione del libero arbitrio, a un principio di determinismo, nella volontà e quindi il determinismo nelle nostre azioni che non lasciava spazio all’imputabilità morale. Se quello che voglio è determinato da leggi che fanno il loro corso e che hanno la loro regolarità, io non sono moralmente muta per aver fatto quello che ho fatto.
Tant’è che l’unica libertà che questi autori potevano riconoscere - lo abbiamo visto in Hobbes, lo abbiamo visto in Spinoza, lo abbiamo visto nel primo Locke, è una libertas a coatione, cioè una libertà dalla costrizione: io sono libero quando non sono legato, quando nessuno mi impedisce di fare qualcosa, ma non sono libero di scegliere.
Anche chi pensa che sia così pensa che l’unico modo in cui noi possiamo parlare di libertà sia parlare di libertà in senso negativo della volontà. Quindi il fatto che le nostre volizioni siano sempre soggette a leggi che noi non possiamo cambiare, non significa che io debba rinunciare all’imputata morale delle mie azioni, ossia non significa che io non sia responsabile di quello che faccio.
E l’argomento che Hume usa è questo: pensate di agire sulla base di una volizione che non fa parte di quella connessione di relazioni tra idee, associazioni tra idee che costituisce la vostra persona, cioè quel fascio, quella repubblica di individui che è la vostra mente.
Voi state agendo su una base sulla base di una volizione che
sta fuori da questo fascio, perché il fascio è determinato dalle leggi
interconnesse.
Allora, siete liberi e quindi siete imputati nuovamente perché
non siete soggetti al determinismo della connessione stabilita dalle
leggi di associazione tra le idee.
Ma non è forse così che agiscono i matti, cioè quelli che hanno una personalità tale da violare il regolare cammino della natura, quello per cui le idee si associano sulla base di quei principi che io avevo stabilito.
E dove abbiamo di fatto questo tipo di capacità istintuale di
connettere e contrapporre tra loro le idee? Nei matti.
La testa dei matti funziona in modo diverso: stabiliscono tra le
idee delle connessioni che noi non possiamo concepire o che non possiamo
prevedere o che si sottraggono a quella regolarità sulla base
della quale noi abbiamo trovato questi principi di orientamento.
Loro sono liberi, loro agiscono per libero arbitrio e quindi sono imputabili moralmente? Ma solitamente non crediamo esattamente il contrario?. Quindi proprio perché le volizioni stanno all’interno di quel fascio di cui si compone la mia identità personale, proprio perché sono cittadini della mia Repubblica, io sono responsabile delle mie volizioni e mi possono essere imputate.
Il determinismo è la condizione affinché io mi possa riconoscere come un individuo personale, ossia come un individuo che ha un’esistenza continuativa. E questa è la condizione fondamentale affinché le cose che voglio possano essere cose che io voglio e quindi una condizione fondamentale affinché si possa rivendicare una responsabilità di ciò che si vuole.
Perché si chiama compatibilismo? Perché tiene insieme due cose apparentemente incompatibili: il determinismo della volontà, ossia il fatto che la volontà è sempre determinata e che non c’è la possibilità di un’intersezione di una forza diversa che fa deviare la connessione tra le idee - ma ciò è compatibile con qualcosa che si pensava non fosse affatto compatibile col determinismo, ossia con quella imputabilità morale delle azioni che è solitamente la conseguenza dell’ammissione di un libero arbitrio.
Io posso essere insieme determinato e responsabile perché la determinazione, ossia le leggi che tengono insieme il mio flusso, la mia Repubblica, sono leggi, sono leggi della soggettività.
Il processo di crescita, acculturamento, educazione, raffinamento dei costumi degli usi, la crescita, diciamo così, edificante del soggetto, ha lo scopo di produrre un progressivo cambiamento tra i cittadini della Repubblica, che rimangono sempre i cittadini della medesima Repubblica, ma che consentono di poter intervenire attraverso questo meccanismo esteriore su quelle volontà, su quegli atti volitivi che sono quelli che stanno alla base del comportamento.
Quindi, se c’è una forma di libertà nell’individuo è la libertà che gli deriva da questo esercizio critico che è la filosofia, cioè da questa capacità di rivedere le proprie conoscenze, di sottoporre, come dice all’inizio del Trattato al tribunale della ragione, cioè di sottoporgli le opinioni e le credenze che assumiamo come direttrici della nostra esistenza.
L’individuo può intervenire su se stesso e rendersi, per così dire, una persona migliore, e in questo modo fare gioco a se stesso, in quel meccanismo di riconoscimento, di responsabilità delle sue posizioni è intimamente connesso al fatto che tutte le sue posizioni sono parte integrante di quella persona; non sono più le onde mutevoli di un mare che permane, ma sono i cittadini che compongono una Repubblica sulla base delle leggi che tengono insieme questa piccola comunità.
Che cosa vuol dire rendersi una persona migliore? Che cosa vuol dire essere migliore in poesia a incrementare la propria natura umana? Che cosa vuol dire compiere un cammino morale? Vuol dire promuovere ciò che si riconosce essere bene per se stessi e per gli altri, cioè ciò che si riconosce è promuovere una forma di vantaggio ed utilità per se stessi e per gli altri.
Ora, per capire questo tipo di concezione, direi proto-utilitaristica, che Hume avanza nel Trattato bisogna fare un piccolo passo indietro che ci riporta a quella vexata quaestio con la quale si devono confrontare tutti i filosofi, che è quella che riguarda i criteri per stabilire che cosa è bene, che cosa è male; se c’è un valore assoluto di questi due principi di orientamento dell’agire se hanno un’origine razionale, teologica, se sono frutto di un dominio volontaristico, se sono frutto di una convenzione, se sono strumenti di un relativismo etico come era quello che siamo, cosa sono il bene e il male?
Come faccio a riconoscere il bene e il male? Abbiamo visto tante
soluzioni che i filosofi hanno dato a questa risposta sulla base dei
loro sistemi metafisici. Ecco, Hume in questo riprende proprio quegli
autori della scuola del senso comune che vi ho menzionato ieri, in
particolare, Hutcheson e Shaftesbury, che erano non solo sui
compatrioti, ma anche corrispondenti.
In questo tentativo di abbattere i fondamenti razionalistici della
filosofia e per questa convinzione di poter trattare la natura
umana insistendo su questa componente razionale che doveva essere il
tratto peculiare degli esseri umani rispetto al resto della natura
animata, Hume individua in ogni essere umano la presenza di un
sentimento umano - in tutti noi c’è un sentimento morale.
In tutti noi c’è un sentimento che ci fa sapere, senza
bisogno di tanti ragionamenti, che cosa è bene e che cosa è
male.
Noi sappiamo che cosa conviene fare, che cosa non conviene fare? Poi
elaboriamo una serie di infingimenti, anche perché pieghiamo a quello
che di volta in volta riteniamo essere il nostro utile a questo nostro.
Ma di fatto non ritiene che nella natura umana ci sia un sentimento
che funziona, quanto alle questioni morali, così come
l’istinto che ci portava a elaborare delle impressioni,
funziona nelle questioni speculative.
Così come noi abbiamo questo istinto che ci fa connettere le
idee in un certo modo ed elaborare delle concezioni che sono
performative, inferenziali, cioè che ci fanno stabilire delle
connessioni tra i fenomeni sulle quali noi facciamo affidamento per
orientarci un’esperienza, allo stesso modo, la nostra natura
istintuale, sentimentale, non razionale, ci fa riconoscere ciò che è
bene e ciò che è male.
Sulla base di che cosa? Di un principio che è esattamente quello che era
esattamente il ruolo che aveva la salvezza stessa, cioè il principio di
simpatia.
Ho un sentimento di simpatia nei confronti degli altri esseri umani. E non vuol dire che ho un sentimento di benevolenza, ma simpatia nel suo significato etimologico, di condivisione empatica.
Io sento quello che sento. Sono in grado, diciamo così, di identificarmi e sono in grado quindi di riconoscere che cosa è utile per me, che cosa è utile per loro. Questo vuol dire che so che in fondo cioè che è bene e ciò che è male. Io ho un sentimento di simpatia morale che mi consente di capire se quel che sto facendo è utile per il mio prossimo oppure è dannoso, è in vantaggio o è di danno per il mio prossimo?
E questo sentimento si comporta - questa è un’immagine di Adam Smith che, Hume riprende con grande convinzione - come uno spettatore imparziale, come qualcuno che giudica le mie intenzioni morali dall’esterno, senza nessun coinvolgimento.
Che differenza c’è di fatti tra il sentimento morale e ad esempio, il sentimento estetico? Avete presente i saggi sul sentimento estetico di Shaftesbury, quello che diceva cosa è meglio così brutto? Shaftesbury diceva che io lo so, lo so perché ho un sentimento che mi fa provare qualcosa come piacevole al gusto e qualcosa come spiacevole - Kant sarà durissimo nei confronti di questo tipo di spiegazione della teoria del giudizio di gusto.
Però funziona allo stesso modo: lì so cosa è bello e cosa è brutto,
ho un sentimento estetico in cui so è buono e cosa è cattivo, cosa è
giusto e cosa è sbagliato, ma qual è la differenza?
Che il sentimento morale è disinteressato e
disinteressato, ossia quando io mi comporto bene, quando io
faccio qualcosa di buono, faccio il mio vantaggio immediato perché il
mio vantaggio è sempre mitigato da quel sentimento di simpatia che non
mi consente di godere appieno del vantaggio mio a fronte dello
svantaggio per il mio prossimo.
Questa è una concezione del sentimento morale molto ottimista.
Ah, vi dicevo prima la prospettiva dello spettatore imparziale proprio
perché disinteressava. Lo spettatore imparziale è quello che giudica una
situazione ora di nuovo, ma son cose che riprenderemo entro un contesto
diverso :
Quanto c’è di questa convinzione humiana nell’idea kantiana che la legge morale è un fatto della ragione, la legge morale che cos’è? è quella cosa che mi dice cosa devo fare e la legge morale è qualcosa che io trovo dentro di me come un fatto che non devo giustificare, che non devo dedurre, che non devo, che non devo faticare per conoscere. Kant dice tutti noi sappiamo che cosa dobbiamo fare, che cosa non dobbiamo fare; Poi ce la raccontiamo, ce la raccontiamo perché attuiamo una perversione delle massime, dice Kant - cioè determinano la mia volontà sulla base di principi che non sono conformi alla legge, e quindi mi sbaglio.
Ma la legge morale è uno spettatore imparziale, è uno spettatore che sta assolutamente al di là della situazione contingente in cui io mi trovo ad agire.
Ecco, se voi riportate questa concezione e alla sua formulazione embrionale, ancora nutrita di quella psicologia della mente che è il terreno di cultura della filosofia humiana, voi avete la teoria del sentimento morale. Il sentimento morale è un istinto che mi fa dire che qualcosa è buono e qualcosa è cattivo.
Perché dico che siamo diciamo nelle fasi incipienti delle teorie utilitaristiche - perché nascono in quegli anni, eh, perché nascono con Bentham quindi diciamo quarant’anni dopo la filosofia humiana - sono teorie che pongono a fondamento del giudizio etico, una valutazione relativa alla utilità che un’azione ha per il maggior numero di persone possibili.
Un’azione è buona se produce un vantaggio o un’utilità, che poi si specifica nelle più diverse accezioni possibili per il maggior numero di persone, cioè c’è una componente consequenzialista, quindi un’etica, che non guarda alle intenzioni ma guarda ai risultati che un’azione produce, una componente intersoggettiva e altruistica, che invita il soggetto a uscire dalla prospettiva individuale di quello che si chiamava all’epoca l’egoismo morale, cioè, di una morale tutta costruita intorno al bene individuale, ma che comprende strutturalmente dentro di sé la prospettiva etica intersoggettiva di un’etica delle conseguenze - cioè, un’azione buona sulla base delle conseguenze che ha prodotto.
Non è un’etica deontologica, un’etica del volere come l’etica aristotelica, l’etica cartesiana, come sarà l’’etica kantiana - non è un’etica che mi dice che un’azione è buona se parte da un’intenzione buona, ma un’azione è buona sulla base delle conseguenze vantaggiose che produce, conseguenze vantaggiose non per il singolo, ma per il maggior numero di persone possibili.
E questo significa affidare all’istinto, al sentimento, la decisione rispetto a ciò che è utile e ciò che è dannoso, e affidare alla natura umana questa garanzia di intersoggettività nella valutazione morale, che è comportata proprio dallo spettatore imparziale, da colui il quale, pur essendo dentro di noi, ci permette di giudicarci come se noi non fossimo direttamente implicati dalle conseguenze di quella determinata azione.
Come a dire che la morale non è una questione di competenza della ragione. Non ci vuole la ragione per fare una teoria morale. La morale, come avrete capito, una parte preponderante della nostra esistenza non è di competenza della ragione, è di competenza del sentimento, di quell’istinto che ci guida. Ricordatevi la citazione:
“muovendo gli occhi chiudiamo le palpebre, muovendo il naso, sentiamo gli odori, funzioniamo in questo modo”.
La natura umana funziona in questo modo e lo dico ancora una volta.
Ma segnatevelo.
Non è prescrittivo, Hume come Locke non ci sta dicendo
come ci dobbiamo comportare, ma ci sta dicendo quali sono le regolarità
che si possono riscontrare nel modo in cui funzionano gli uomini.
La ragione umana e nella gran parte dei casi è sconfitta, la
ragione è schiava delle passioni, dice Hume in un passo
bellissimo del Trattato. La ragione, quando è lasciata a
dominare il suo piccolo orticello, si riempie d’orgoglio per quelle
poche passioni che riesce ancora a difendere.
Ma in realtà, la ragione è sempre impotente, non ha nessun
potere nel determinare le nostre credenze, non ha nessun potere
nell’orientare la nostra volontà, non ha nessun potere
nello stabilire che cosa è bene e che cosa è male, nessun potere
nel dominare le nostre emozioni, le passioni, l’amore, l’odio,
l’ira, la calma, sono dei moti dell’animo, sono - dice Hume delle
impressioni di riflessione.
Cioè sono delle maniere in cui io percepisco me stesso, impressioni di riflessione che hanno la loro origine in impressioni di sensazione o in idee di sensazione. Io ho un’impressione, un cane, un’idea di cane che genera su di me un’impressione di riflessione che è il timore. Muovendosi nell’ambito delle impressioni, le passioni non possono essere governate dalla ragione, perché la ragione si occupa di connettere a priori le idee, ma non ha nessuna via di accesso diretto alle impressioni - nessun accesso a posteriori, aggiungo io (Gabri).
Ed è per questo che l’intellettualismo etico è una follia, perché l’intellettualismo etico pretende che la ragione dopo il saggio esame indichi il bene e a quel punto tutte le passioni si orientano a volere quel bene. Le passioni sono il vero dominio della natura umana. È una pia illusione quella che fa pensare agli uomini di essere padroni di sé stessi sulla base del loro esercizio razionale.
Sentite:
Non c’è nulla di più comune in filosofia e anche nella vita
quotidiana che parlare del conflitto tra passione e ragione per dare la
palma alla ragione, affermare che gli uomini sono virtuosi nella misura
in cui obbediscono ai suoi comandi.
Si sostiene che ogni creatura razionale ha l’obbligo di regolare le
proprie azioni secondo i dettami della ragione e che, nel caso in cui ci
sia qualche altro motivo o principio che pretenda di determinare la sua
condotta, deve opporsi a esso finché non sia completamente domato, o
almeno conciliato con quel principio superiore.
La maggior parte della filosofia morale antica e moderna sembra
fondarsi su questo modo di pensare* e non c’è nulla che offra maggior
spazio sia alle disquisizioni metafisiche come alle declamazioni
popolari.
È uno di quei pregiudizi che taglia di traverso l’intera umanità quanto
questa presunta superiorità della ragione sulla passione si sono poste
nella miglior luce l’eternità, l’invariabilità e l’origine divina della
prima, mentre si è continuamente insistito sulla cecità, l’inconstanza e
la falsità della seconda.
Per dimostrare come tutta questa filosofia sia erronea, dimostro che la
ragione da sola non può mai essere motivo di qualche azione della
volontà, e in secondo luogo, che la ragione non può mai contrapporsi
alla passione nella guida della volontà, perché la ragione riguarda
soltanto le idee*.
La ragione e la passione non si confrontano direttamente perché appartengono a domini differenti. La ragione è e deve essere schiava delle passioni e non può rivendicare in nessun caso una funzione diversa da quella di servire e obbedire ad esse. Le passioni non sono in sè stesse negative; questa opinione può sembrare strana.
Non parliamo né con rigore né filosoficamente quando parliamo di una
lotta tra ragione e passioni.
Sono le passioni quelle che tengono in piedi l’individuo, sono le
passioni quelle che consentono all’individuo di muoversi come un animale
con l’istinto particolarmente acuto all’interno della sua esistenza.
La religione è una risposta che l’uomo si crea sollecitato dall’urgenza delle sue passioni.
Tutte e due opere degli anni ’50.
In entrambi i casi, la tesi è la medesima e mette un punto fermo su tutte le dispute che intendevano dare una giustificazione razionale al fenomeno religioso - che noi abbiamo visto essere a fondamento della teoria dell’assenso che conduce la fede in un dominio limitrofo a quello della ragione e pone la ragione sempre come criterio di legittimità nell’accogliere contenuti di fede
Abbiamo visto come il deismo faccia della riducibilità a principi di ragione il punto fermo per dare l’assenso al fenomeno religioso naturale ma rivelato - questo vuol dire religione naturale, religione i cui fondamenti stanno nella natura e nella razionalità.
Considerando che l’esistenza di qualcosa non può mai essere provata - fatta eccezione per l’esistenza delle nostre percezioni, cioè posto il fatto che tutto ciò che sta al di là del nostro teatro anatomico della mente è qualcosa su cui non possiamo pronunciare nessun giudizio, come possiamo pensare di poter dare una qualsiasi dimostrazione dell’esistenza di Dio, sia essa a priori o a posteriori?
Intanto dobbiamo necessariamente valicare i confini delle nostre percezioni per dimostrare qualcosa che non si dà nella percezione. Quando proviamo a dimostrare l’esistenza di Dio proviamo a stabilire dei rapporti di causalità necessaria, che sono dei modi in cui noi organizziamo i contenuti della nostra mente - la loro validità epistemica è uguale a zero. La ripetizione della causalità è l’unico elemento confortante.
La religione è la risposta che gli uomini danno a una passione che domina le loro vite - l’alternanza di timore e speranza. Le passioni hanno le redini della nostra esistenza e sulla base di esse noi escogitiamo le nostre religioni.
Non ha nessun senso pensare di far intervenire la ragione in questo campo per ricondurre a un nucleo razionale la religione, che è un chiaro frutto della natura passionale degli uomini, ed è un fenomeno universale, così come è universale il fatto che tutti noi abbiamo delle credenze condivise relative al mondo.
Dio, come tutti gli oggetti della metafisica, è un qualcosa che viene prodotto dalla nostra mente, in risposta alla natura passionale dell’uomo.
Ricerca sull’intelletto umano: quando scorriamo i libri di
una biblioteca persuasi di questi principi, che cosa dobbiamo
distruggere? Se ci viene alle mani qualche volume, di teologia o di
metafisica scolastica, domandiamoci: contiene qualche ragionamento
astratto sulle quantità e sui numeri (relazioni tra idee)? No. Contiene
qualche ragionamento sperimentale su ragioni di fatto e di esistenza
(credenze che attribuisco alla nostra capacità immaginativa?
No. Allora gettiamolo nel fuoco perché non contiene che
sofisticherie.
Partiamo dal primo tema, a cui Berkeley dedica nel 1709 uno scritto che si chiama Saggio per una nuova teoria della visione. Ci rimanda immediatamente a quell’Ottica di Newton che un altro apologeta della cristianità, Samuel Clarke, quello che era in corrispondenza con Leibniz, il paladino del newtonianesimo, aveva tradotto e che aveva iscritto a pieno titolo nel canone di quell’uso apologetico della scienza newtoniana che abbiamo visto essere a fondamento della corrente di cristiani virtuosi nella quale viene inserito lo stesso Locke, che è a fondamento di un fenomeno che nell’Inghilterra del tempo aveva una rilevanza sociale incredibile, le Boyle Lectures, cioè i sermoni ispirati alla figura di Robert Boyle, questo chimico scettico amico di Locke, che avevano proprio come scopo quello di confutare sulla base dei principi della scienza newtoniana tutti gli attacchi alla religione cristiana. Ecco, Berkeley si inserisce chiaramente in questo solco.
La distinzione tra qualità primarie e secondarie era una
distinzione di Boyle, che troviamo già nel Saggiatore
di Galileo, una distinzione che noi abbiamo già visto essere ripresa da
Locke nel suo Saggio sull’intelligenza umana.
Le qualità primarie sono quelle che riguardano le
proprietà che gli oggetti hanno anche in assenza di un soggetto
che le percepisce e sono le qualità che Locke chiama oggettive,
che Galileo diceva misurabili e che tutti i soggetti percepiscono nel
medesimo modo perché hanno un riscontro oggettivo.
Le qualità secondarie sono invece le qualità che gli
oggetti hanno soltanto in quanto percepite da un soggetto dotato di
organi percettivi capaci di coglierle, ed è per questo che Locke parla
delle qualità secondarie come potere, la
struttura materiale degli oggetti ha il potere, cioè
la capacità di suscitare in me una sensazione, un’idea
di sensazione che mi rappresenta quella qualità - non c’è giallo nella
mente, ma c’è una configurazione materiale tale per cui se entra in
contatto con la mia vista io ho l’idea di giallo.
Ecco, secondo Berkeley questa distinzione è fallace, e deriva
dalla convinzione fallace che la mente sia in grado di
astrarre, perché presuppone che io possa concepire nelle cose
delle qualità a prescindere dal fatto che io stia percependo, ossia
astraendo dal fatto che si tratta di una mia
percezione.
Quindi la distanza, la forma, la grandezza sono tutte qualità che si
riconoscono appartenere agli oggetti indipendentemente dalla percezione
del soggetto perché noi erroneamente crediamo di poter separare
il contenuto percettivo dall’atto percettivo. Quindi
erroneamente riteniamo di poter mettere su due piani diversi un oggetto
e la nostra percezione di quell’oggetto.
Nel Saggio per una nuova teoria della visione Berkeley ci racconta come in una percezione della distanza il nostro apparato percettivo funziona in questo modo: si determina uno spostamento nell’asse oculare che è il vero oggetto della nostra percezione e noi ci abituiamo nel reiterare queste esperienze e ad assegnare ad ogni percezione del cambiamento dei nostri organi percettivi, quella che Locke avrebbe chiamato un’idea di riflessione, un corrispettivo oggettivo, che ci fa determinare la distanza di una certa cosa in una maniera convenzionale; a un movimento dei nostri occhi, che noi percepiamo come unico oggetto della percezione, associamo una misura di distanza che poi utilizziamo come se fosse qualcosa di indipendente dalla percezione.
Per rendere più perspicua questa tesi bizzarra, legge un passo: siamo
al paragrafo 18.
Tutto ciò significa che la via d’accesso che il soggetto ha
rispetto al mondo risente sempre della mediazione della percezione
diretta e la percezione diretta è sempre una percezione
che il soggetto ha delle modificazioni che occorrono nei suoi organi di
senso, impara a conoscere queste modificazioni, le associa a
determinati tipi di esperienza di cui ha una percezione mediata da
quelle percezioni originarie e si crea, per convenzione, un
mondo di grandezze, di pesi, di distanze, di forme, le quali non sono
mai percepite direttamente, ma sono sempre il risultato di un’abitudine,
di quell’istinto naturale, che avete visto ritornare qui con
questo refrain che fa parte della filosofia britannica del primo ’700,
che mi porta a giudicare istantaneamente che dei corpi stanno a una
distanza maggiore o minore rispetto al mio, che dei corpi hanno delle
proprietà di un determinato tipo delle quali io sono consapevole
soltanto facendo riferimento alla modificazione che percepisco
immediatamente dei miei organi di senso.
Non ha nessun fondamento la tesi lockiana per cui ci sono delle proprietà che stanno nelle cose perché alle proprietà che stanno nelle cose io devo pur poter accedere, ma non posso accedervi se non mediatamente, attraverso la percezione delle modificazioni che queste cose determinano all’interno dei miei organi di senso.
C’è un altro esempio in cui Berkeley dice che quando io giudico che delle cose siano molto lontane lo faccio perché penso che sia un giudizio immediato, ma in realtà è un giudizio mediato da un ragionamento che io svolgo sulla quantità di cose che occupano quello spazio che sta tra me e quelle cose che sto giudicando essere molto lontane, quantità di cose che provocando in me una modificazione degli organi di senso che io ho imparato ad associare a determinate distanze mi fanno pensare che affinché tra me e quelle cose ci possano stare tutte queste altre cose, tutti questi enti ai quali associo dimensioni di un certo tipo, distanze di un certo tipo, spazi di un certo tipo, le cose poste oltre debbano essere a una grande distanza.
Questo per dire che i giudizi che abbiamo sul mondo, anche per quegli aspetti che sembrano uguali per tutti i soggetti, sono sempre giudizi che risentono profondamente della costituzione empirica, soggettiva di ognuno e qui risiede la differenza nei giudizi individuali, una differenza che quando si tratta delle qualità cosiddette primarie viene tacitata da quell’accordo convenzionale - l’introduzione delle unità di misura che ci fa pensare di poter trasferire uno spazio di oggettività su qualcosa che ha un carattere invece solamente soggettivo e che invece manifesta quando si tratta delle qualità secondarie, nessuno si stupisce del fatto che una cosa appaia a qualcuno più dolce, a qualcuno più aspra, che qualcosa appaia con un odore più intenso ad alcuni e meno intenso ad altri, mentre tutti ci stupiamo del fatto che qualcuno possa pensare che una cosa grande non è effettivamente grande, o una piccola effettivamente piccola, ma la differenza soltanto apparente tra questi tipi di percezione sta nel fatto che in un caso siamo riusciti a trovare un accordo convenzionale che ci consente, misurando, di aggirare queste determinazioni soltanto soggettive e di concordare sul fatto che il Monte Bianco è alto 4810m; i sistemi di misurazione sono invenzioni degli uomini e che servono a facilitare loro la vita, ma che nascondono e nutrono un grande pregiudizio filosofico, che rivela l’illusione di ognuno di noi di poter prescindere dalla nostra componente soggettiva nella percezione del mondo oggettivo.
E legato a questo tipo di errore sta l’altro errore fondamentale della filosofia, che è quello di spingere oltre questa illusione quanto alla capacità astrattiva della mente e di pensare che gli oggetti del mondo possano stare lì indipendentemente dal fatto che noi li percepiamo.
Tutte le volte che io affermo qualcosa circa l’esistenza di
qualcos’altro mi riferisco immediatamente a una mia
percezione.
Non posso affermare l’esistenza di nulla che non sia oggetto di
una mia idea. Ed è soltanto un inganno pensare che la
percezione sia una via d’accesso a qualcosa che c’è anche se non lo
percepisco. Ma non ho nessuna buona ragione di pensare
che questo qualcosa c’è anche quando io non lo
percepisco.
Quelle che noi chiamiamo cose, le cose del mondo, ossia gli oggetti che
trascendono il soggetto, vorrebbero una realtà indipendente dalla
capacità rappresentativa del soggetto. Quelle che noi chiamiamo
cose non sono altro che nostre idee alle quali noi attribuiamo una
realtà autonoma rispetto al nostro atto percettivo perché
erroneamente pensiamo di poter astrarre la percezione dagli oggetti
percepiti.
Le cose secondo Berkeley non sono altro che idee e
di qui la qualificazione di questa filosofia e il battesimo di questa
filosofia da parte di Kant come idealismo berkeleiano.
La percezione delle cose del mondo è strettamente connessa alla
costituzione fisiologica di ognuno e gli organi di senso di ognuno, pur
svolgendo più o meno le stesse funzioni, differiscono per come sono
fisiologicamente composti. Non esiste una sostanza
materiale, una estensione contrapposta al
soggetto, non c’è nessuna buona ragione per pensare che si dia
qualcosa di contrapposto al soggetto che possa sussistere autonomamente
rispetto al soggetto.
Motto della filosofia di Berkeley: esse est percipi (infinito
passivo), essere è essere percepito.
Una cosa è nella misura in cui c’è qualcosa che lo percepisce. E qui
viene fuori lo sfondo apologetico della filosofia berkeleiano. Swift,
ironicissimo romanziere amico di Berkeley, gli diceva: “Non bussare
entra pure, tanto la porta è solo un’idea”.
Ma il principio di Berkeley dell’esse est percepi è il
fondamento di una metafisica di tipo spiritualistico,
una metafisica abitata da due soli inquilini, che sono gli spiriti,
ossia le sostanze pensanti che hanno un
carattere attivo, gli spiriti finiti, quindi gli
angeli, le anime umane e Dio, spirito infinito e poi gli oggetti
a cui questi spiriti pensano, che non possono che essere
idee.
Una metafisica di tipo spiritualistico e idealistico, la quale trova
nell’attività dello spirito infinito la garanzia della
permanenza del reale. Lo spirito infinito è uno spirito che, a
differenza degli spiriti finiti, non percepisce a intermittenza, ma
percepisce tutto.
Per cui io posso essere certo dell’essere di qualcosa solo
quando lo percepisco, ma quando la mia percezione non è
più attuale, e qui si tratta proprio di quell’attualità che
potrebbe essere un fraintendimento nelle impressioni humiane, qui
l’attualità è proprio la presenza
concreta, quella della percezione sensibile attuale lockiana,
la presenza concreta di qualcosa che cade sotto i miei sensi;
quando la mia percezione non è più attuale io non ho nessuna
buona ragione per credere nella permanenza della cosa che non sto più
percependo, quindi per attribuirle un essere, uno statuto
ontologico di qualche tipo.
La garanzia che il mondo non compaia e scompaia a
seconda che la mia percezione sia attuale o non attuale sta
nell’attività perpetua di percezione dello spirito
infinito, Dio percepisce tutte le cose ininterrottamente, e
questo fa sì che le cose sussistano.
Ma le cose non sono cose, sono idee che hanno la loro realtà originaria, il loro luogo naturale nella mente divina. Ed per questo che in Berkeley si ha una metafisica un po’ anacronistica rispetto al tempo, il cui valore sta però in questa funzione dichiaratamente apologetica. Si ha questo recupero di una concezione, che traspariva ancora un po’ in Cartesio, ma che viene di fatto abbandonata dalla modernità, della mente di Dio come serbatoio della realtà.
Nella mente di Dio c’è tutto, tutte le cose e tutte le connessioni
tra le cose. Tant’è che la nostra conoscenza che si configura
malebranchianamente perché Malebranche era fondatore
dell’occasionalismo, anche se si era appropriato di una teoria che non
era sua, ma lui l’ha reso un’arma efficace per risolvere un problema
cartesiano, la nostra conoscenza si attua con un processo di
percezione che parte direttamente dalla comunicazione che ci arriva da
Dio.
Conosciamo le cose quando le vediamo così come sono nella mente
di Dio e la nostra conoscenza è corretta quando le vediamo come
sono nella connessione che hanno con le altre cose. Le leggi di
natura, che sono le connessioni necessarie tra i fenomeni, sono
i rapporti che nella mente di Dio vengono istituiti tra le
diverse idee che noi percepiamo come fenomeni naturali.
Le nostre percezioni sono una maniera con cui Dio comunica
con noi.
C’è una metafisica della sostanza forte qui, il
soggetto è uno spirito, non è soltanto le sue idee,
cioè è una sostanza attiva che accoglie al proprio interno le
idee, che sono un qualcosa che non è attivo, ma che richiede
una sostanza attiva per essere pensato. Berkeley diventa il
grande nemico di Reid e di tutta la filosofia del senso
comune, afferma che c’è una metafisica della sostanza
immateriale. Il mondo non entra nella mia testa se non attraverso le
percezioni. L’essere delle cose sta nel fatto che io le percepisco. Non
è quel che io non percepisco, è quel che io percepisco. Non c’è
qualcosa che può essere senza che sia percepito.
Leggiamo il pezzo che Berkeley scrive sul Guardian L’1 giugno del ’12. Osserva l’armonia tra la chiesa visibile e quella invisibile. Vede una mosca e pensa sia un libero pensatore, un deista, che vede quel che vede a causa del suo punto di vista così angusto, avendo una visione della realtà deformata. Se noi prescindiamo da questo punto di vista così angusto, che è quello delle mosche sulla colonna, noi, piccoli spiriti finiti che pretendono di dare un senso alla realtà rimanendo attaccati al loro micro orticello e avendo una visione della realtà deformata, possiamo elevare lo sguardo.
Elevando lo sguardo e non avendo paura di riconoscere che le certezze che ci siamo costruiti con le vecchie metafisiche, tra cui quello che Berkeley chiama materialismo per come lo intendevano i suoi contemporanei, cioè l’affermazione dell’indipendenza tra la sostanza pensante e la sostanza materiale (una teoria filosofica che ci siamo costruiti perché abbiamo una visuale così limitata, che pensa di poter spiegare il mondo sulla base delle differenze che percepisco nella percezione di me stesso), ecco che non abbiamo buone ragioni per pensare che si dia una realtà esterna, materiale, che prescinda dalla percezione non mia, noi siamo le ultime propaggini di un sontuoso progetto, ma da quella del creatore, il quale contiene in sé le idee di tutte le cose ed è proprio attraverso la stabilità di questa sua percezione (e la percezione per Berkeley è l’atto dell’intellezione) che è consentito a noi piccoli umani di guardare non come una mosca sulla colonna, ma come degli spettatori di fronte alla magnificenza del creato, le cose nell’ordine e nella natura che queste cose hanno. I corpi sono sostanza materiale.
La sostanza materiale è una nostra illusione.
Ci accordiamo a chiamare materiali certe cose perché le percepiamo fuori
di noi, ma queste cose non hanno nessuna natura indipendente dal
fatto che noi le percepiamo, la materia non entra negli
spiriti.
La differenza tra la vita terrena e la vita eterna è di partecipare alla
percezione infinita. Nella vita terrena siamo
spiriti finiti perché non percepiamo tutte le cose
insieme e non le percepiamo tutte in continuativo, le percepiamo a
intermittenza, abbiamo una capienza limitata. Lo spirito
infinito invece ha una percezione perpetua di tutte le
cose.
Ma ci manca ancora un elemento. Il fine dell’uomo non è la conoscenza, ma è vivere felice, che è il fine della cristianità, l’elevazione della natura umana. La religione cristiana nobilita chiaramente più di qualsiasi professione o scienza. La mente dell’uomo sembra adattarsi alla diversa natura dei propri oggetti, si restringe quando ha a che fare con cose piccole e basse e si innalza quando deve contemplare idee grandi e sublimi. La nostra missione nel mondo non è quella di diventare grandi scienziati o di conoscere come funziona la natura, ma è quella di elevare la dignità della nostra natura umana, guardare le cose così come sono nella mente di Dio.
Ed è per questo che Dio comunica con noi attraverso le idee, comunica per salvarci, per guidarci. Il linguaggio - che per Locke aveva nella scorta delle riflessioni hobbesiane un valore comunicativo, cioè io pronuncio un nome e nella mente dell’interlocutore spunta quell’idea - qui ha una funzione di guida dell’esistenza. Le idee, che sono gli strumenti attraverso i quali Dio comunica con noi, sono parte di un linguaggio divino. E la stessa natura è un lungo discorso divino, un insieme di parole divine con le quali noi siamo indotti a condurre la nostra esistenza in una via che deve assecondare quella del processo della creazione. Questo ruolo del linguaggio è quello che si riscontra anche nel linguaggio umano.
Perché diciamo che un burrone dista x da noi (famoso esempio di
Berkeley)? Per evitare di caderci. Quella distanza viene canonizzata in
una misurazione che noi siamo in grado di riconoscere mica con
lo scopo di diventare più dotti rispetto all’effettiva natura di quella
distanza o alla misura dello spazio che separa due corpi, ma
semplicemente, per avere un ausilio nella conduzione della nostra
esistenza terrena.
E questo è il senso del linguaggio. Il linguaggio è una misura
di prevenzione rispetto ai rischi di sbandamento che l’uomo che
si occupa di cose piccole, che immiserisce il proprio intelletto,
rischia di commettere nella conduzione della propria esistenza.
Il mondo è una creazione di Dio che attraverso un nostro sistema di percezione ci comunica dei contenuti affinché noi siamo in grado di muoverci con sicurezza e con un margine tollerabile di prevedibilità all’interno di questo mondo finito con l’unico fine che è quello di smetterla di guardare, come la mosca sulla colonna, i dettagli apparentemente incongruenti del reale e adottare una prospettiva superiore. Vediamo come senza leggerla come un’operazione chiaramente orientata a una strategia apologetica, la filosofia di Berkeley sembra un sistema che ci riporta indietro di 500 anni nella storia della filosofia.
Gli spiriti finiti sono fuori dalla mente di Dio, a Berkeley serve questo scarto ontologico visto che è un creazionista. La mente di Dio ha dentro di sé tutte le cose, nel senso di tutte le idee, anche le idee degli spiriti.
La sede eminente delle idee è la mente di Dio e gli uomini che non possiedono in maniera innata le idee della loro mente le ottengono attraverso i sensi pensando di ottenere delle idee di realtà materiali che stanno fuori, ma in realtà ottengono idee che provengono direttamente dalla mente di Dio. Quando io percepisco, percepisco un’idea che è nella mente di Dio.
La percezione, secondo Berkeley, proprio sulla base di questa metafisica spiritualistica e immaterialistica, non è legata a un mondo materiale legato a delle leggi che funzionano in un certo modo, non c’è più quello scarto tra il determinismo della materia e la libertà dello spazio del mentale.
Dove sta il libero arbitrio? Sta nella capacità di percepire
insieme alle idee in maniera corretta o scorretta le connessioni tra
queste idee come stanno nella mente di Dio.
Quindi io conosco le cose correttamente quando percepisco non solo le
idee, ma anche la loro connessione per com’è nella mente di Dio, quindi
conosco le leggi di natura e non mi sto ingannando a pensare che se mi
butto dalla finestra cado perché quelle idee stanno in quella
connessione nella mente di Dio. Le leggi di natura sono
oggettivamente fondate in Dio. E questo funziona anche
per le azioni umane, per le connessioni tra ciò che è buono e ciò che è
cattivo.
L’essere umano in quanto spirito finito non solo non vede tutto, ma non vede sempre tutto bene, in maniera adeguata. Ed in questo scarto nella capacità percettiva che sta la differenza dei principi sulla base dei quali noi conduciamo le nostre esistenze. Anche il materialista, il libero pensatore è all’interno di questo progetto divino, con l’unica differenza che non lo conosce e quindi rimane schiacciato in una realtà mutila all’interno della quale istituisce delle connessioni tra idee, si dà delle spiegazioni che non hanno nessun corrispettivo oggettivo nella mente divina, che sono idee false che lo illudono di vivere in un mondo che non è quello in cui lui vive.
Con Berkeley ritorna un presupposto che la filosofia moderna pian
piano ha iniziato ad abbandonare, cioè la convinzione che ci sia
una sede del reale, in cui il reale gode di una
stabilità oggettiva del tutto indipendente dal soggetto. E il
processo di conoscenza si configura nuovamente come una adeguazione
dell’intelletto e della cosa, una forma di corrispondenza tra quello che
sta nella mia mente e la realtà come effettivamente è.
Questa idea è un’idea che la filosofia del ’700 ha abbandonato, ancora
profondamente radicata in una metafisica classica, una metafisica degli
enti che vuole il soggetto contrapposto a una realtà che ha una sua
autonomia ontologica rispetto al soggetto e che è la sede
dell’oggettività: quando io conosco qualcosa tale quale quel qualcosa è,
ciò è possibile perché io attingo direttamente a quella dimensione di
stabilità oggettiva in cui questo qualcosa si dà. Nel caso di Berkeley
questa sede della stabilità del reale è la mente di
Dio. La difformità tra le conoscenze dei soggetti e tra le
azioni dei soggetti sta nella non adeguatezza della
conoscenza, cioè nella incapacità di attrarre
all’interno della propria mente le cose nell’ordine della
natura, che è un ordine che le cose hanno indipendentemente dai
soggetti.
La grandezza di Dio passa anche dalla redenzione degli individui La mente di Dio, e tutta la realtà dentro di essa, sussisterebbe anche se non ci fossero gli spiriti finiti. Poi ci sono tutti gli argomenti teologici che Berkeley porta al suo mulino, ossia l’illustratio gloriae divinae, i vecchi argomenti per cui la teologia scrive i suoi esordi e si domanda ma perché un dio onnipotente, sommo e perfettissimo, ha dovuto creare questi esseri finiti peccatori e imperfetti: c’è la magnificenza, l’irrefrenabile manifestazione della grandezza di Dio, che è l’argomento che porta anche Berkeley, la manifestazione della grandezza di Dio passa anche attraverso la redenzione degli individui, redenzione che deve seguire una via filosofica, una via di purificazione dai pregiudizi della filosofia, pregiudizi che hanno un’origine filosofica e dove l’assassino sono le convinzioni di Locke riguardo alle capacità astrattive della mente. Il percorso di redenzione è il passare da questa miopia che ci chiude nello spazio angusto delle nostre esistenze, una miopia della quale siamo “volenterosi collaboratori” perché ce la mettiamo tutta a costruirci dei sistemi filosofici che ci confortino e che rendano sempre più coerente questa nostra condizione.
Ma di fatto il filosofo che riesce ad alzare lo sguardo, a sollevare il punto di vista, che non ha paura di abbandonare i pregiudizi della filosofia, gli stessi che troviamo oggetto di denuncia nelle Idee di Husserl, sono quelli che consentono di acquistare un grande vantaggio quanto alla nostra capacità di innalzarci, di acquisire un punto di vista che ci consente di concepirci come parte di un sistema che ha le sue proprie regole e dove la comunicazione tra il creatore e le creature è come la comunicazione tra un padre e i figli, dove il senso di questa comunicazione non è speculativo, ma un segnavia, un indicare la strada verso la nostra salvezza.
Con Berkeley si chiude il nostro cammino, ripartiremo da Leibniz.
Suo malgrado il fondatore della filosofia classica tedesca. Segna anche l’inizio di una filosofia nazionale tedesca, di una tradizione filosofica con dei tratti peculiari che ancora oggi attribuiamo ai filosofi tedeschi.
Ma Leibniz non è proprio un tedesco, è un cives mundi che teorizza una comunità di esseri umani al di là delle determinazioni geografiche e nazionali. Non scrive quasi nulla in tedesco, scrive in latino e in francese. È un dotto che viaggia in tutta Europa, trascorre anni in Francia, va in Olanda da Spinoza, va in Italia, viene inviato a Vienna; è un personaggio che si muove sulla scena internazionale.
Il progetto filosofico che anima tutta la sua filosofia: una comunità cristiana sovranazionale, un ecumenismo cristiano che vuole guarire i dissapori che a partire dalla Riforma sono nati. Attorno a questo elemento si creano i diversi interessi della filosofia leibniziana.
È un dotto poliedrico, il suo mestiere non è fare il prof universitario, tra i suoi interessi troviamo:
È un “dotto che parla ai dotti”, è figlio di professori universitari; studia a Lipsia dal padre del fondatore dell’Illuminismo tedesco, Christian Tomasius: Jacob Thomasius. Lui è un giurista quindi Leibniz inizia a studiare il diritto. Non proseguirà però in questi studi perché avrà un incarico lavorando per l’elettore di Magonza, fino agli anni ’70, quando diventa bibliotecario e storico di corte ufficiale ad Hannover, nella casa degli Hannover, imparentata con il ramo di Giorgio I, re d’Inghilterra. La madre di Giorgio I è la grande protettrice di Leibniz, colei che gli commissiona tutto quello che fa.
La sua produzione scientifica può essere definita
sregolata.
Leibniz non fa un sistema filosofico; scrive una serie
di opuscoli, libretti, indirizzati anche a chi non è filosofo.
La prima opera più o meno sistematica è del 1765 (Leibniz era già
morto e stramorto) - quando vengono stampati i Nuovi Saggi
sull’INtelletto Umano - opera che era stata scritta nel 1704 come
critica al Saggio di Locke. Quando Locke muore nel 1704 Leibniz
evita di pubblicare questo testo per rispetto verso Locke.
Quest’opera determina un cambio di paradigma. Ha
sicuramente avuto un impatto su Kant: Kant è Kant anche perché ha potuto
leggere questo saggio qui.
Ma la ricezione di Leibniz ha un peso importante anche nella filosofia tedesca pre-kantiana. Anche ‘la voce ufficiale della filosofia tedesca pre-kantiana’, Christian Wolff - che
Christian Wolff viene messo in contatto con Leibniz per scrivere la sua prima opera matematica; Leibniz lo prende nella sua stretta cerchia di amanuensi e Wolff ha così accesso a un serie di teorie leibniziane che non avevano avuto altra circolazione.
Wolff nei manuali è ritratto come l’“organizzatore” della dottrina filosofica leibniziana, ma questa è un’invenzione degli anni ’40 del ’700 quando la Germania sente il bisogno di rivendicare un’identità nazionale di fronte alla pressione che facevano sui confini le filosofie forti di allora, l’empirismo e il naturalismo francese. Viene quindi inventata la “filosofia leibniziano-wolffiana”, Leibniz diventa un prodotto DOP tipicamente tedesco, da esportare all’estero come il parmigiano. LEIBNIZ PARMIGIANO.
Ma non esiste una filosofia leibniziano-wolffiana. Ci sono molte tesi wolffiane che non appartengono a Leibniz.
Il punto di partenza della filosofia Leibniziana (1686) è la sostanza individuale. 1686 Leibniz pubblica un Discorso di metafisica, un brevissimo trattatello, una raccolta di tesi enunciate in una sorta di schema riassuntivo. In questo Discorso di metafisica compare il concetto di sostanza individuale, che diventerà poi la monade. Ma il concetto di monade verrà fuori solo 30 anni dopo il discorso di metafisica.
La sostanza individuale è una sostanza “onnimodo determinata”, cioè una sostanza il cui concetto contiene tutte le determinazioni a a partire dalle quali è possibile ricavare ogni qualità di quella sostanza Un concetto completo comprende tutte le determinazioni di una determinata cosa. Nel concetto completo io ho di una cosa tutti gli attributi, cioè tutte le proprietà essenziali e tutte le proprietà accidentali. La sostanza individuale, essendo espressa da un concetto completo, non è un genere, una specie, un universale; ma è sempre un particolare. Per questo tutti gli elementi che noi eliminiamo dal concetto di qualcosa quando vogliamo darne una definizione secondo la logica aristotelica dei generi e delle specie, vengono ricompresi da Leibniz all’interno del concetto della cosa. Si dice “concetto onnimodo determinato”, perché è un concetto precisato, cioè determinato, in ogni sua parte.
La sostanza individuale ha quindi un’essenza che risponde, come
insegnava Aristotele, al criterio della concepiblità -
cioè ai principi logici. Cioè non contraddizione, identità, e un terzo
principio che Leibniz aggiunge: principio di ragion
sufficiente.
È quel principio che dice che c’è sempre una ragione (ratio), o
motivo fondante, che determina una cosa ad essere, e ad essere quel che
è. Kant negherà questo principio. La ragione sufficiente è quella
ratio che mi basta a spiegare come mai qualcosa è ed
è come è.
Nell’essenza della sostanza individuale ho tutte le ragioni che
rendono la sostanza una sostanza individuale, cioè quella particolare
sostanza. Ciò significa che la sostanza individuale ha in sé la ragione
del proprio sviluppo; le ragioni sufficienti di ciò che quella sostanza
farà (patire, volere, ecc.) devono essere iscritte nell’essenza di
quella sostanza; la sostanza non può cambiare sulla base
dell’interazione con altro.
In altre parole, la sostanza individuale è isolata: non ha
commercium con ciò che è fuori di lei. Con Leibniz si parla di
panpsichismo: Leibniz ritiene che ogni cosa sia una sostanza
individuale - ogni cosa è qualcosa di perfettamente determinato in
tutte le sue determinazioni (onnimodo determinata).
Su questa determinazione onnicomprensiva si basa il principio di identità degli indiscernibili. Identità degli indiscernibili dice che ciò che è indiscernibile è anche identico. Non ci sono due foglie che sono uguali - ogni foglia intrattiene un rapporto diverso con il resto delle foglie del parco e con il resto dell’universo: non c’è possibilità di interazione con altre sostanze individuali. Le sostanze individuali, non essendo noi in una condizione di solipsismo ma trovandoci in un universo popolato da un’infinità di sostanze, le sostanze stanno in rapporti con le altre sostanze come punti di vista prospettici sull’universo.
L’universo è tutto popolato di sostanze individuali le quali sono ognuna un punto di vista sulla totalità dell’universo. L’immagine per capire questo è il “Mag/Meg/Magneti con le stanghette!!”, insomma quel gioco. Le sostanze individuali sono i pallini, ognuno ha un punto di vista sulla totalità di tutti gli elementi. Le relazioni all’interno della totalità sono esteriori, non si influenzano tra di loro. Ogni sostanza individuale può essere intesa come un punto di vista sulla totalità.
Le relazioni tra le sostanze sono modi di percepire le sostanze; sempre legate da rapporti che dipendono dal fato; che ognuna di esse è un punto di vista sul medesimo universo, che deve accordarsi con il punto di vista delle altre. Questa è l’armonia prestabilita.
L’armonia prestabilita dice che l’universo creato - Leibniz ha una
posizione teistica di un Dio che crea - ha creato un universo in cui le
sostanze individuali sono tra loro in una relazione armonica, cioè tale
per cui la maniera in cui ciascuna si rappresenta l’universo è conforme
a quella di tutte le altre sostanze. Ogni sostanza è come uno specchio
delle altre.
Questa armonia è prestabilita da Dio.
Questa è la soluzione che Leibniz trova per spiegare come le
sostanze, pur essendo completamente determinate in se stesse, riescono
ad accordarsi con le altre sostanze - e questo non sulla base di una
interazione meccanica (come aveva fatto Cartesio e prima ancora Newton);
ma sulla base di un finalismo voluto dal Dio architetto, che ha
creato le cose secondo un piano. Leibniz fa questo esempio per
spiegarci cosa intende per armonia prestabilita (questo fondamento è
l’unico elemento leibniziano che Wolff incorpora nella sua
filosofia).
Esempio: tutti i rapporti di dipendenza causale tra sostanze sono stati
spiegati sulla base di principi che prevedevano l’interazione - diretta
o indiretta - tra le sostanze. I due modelli che Leibniz ha a
disposizione:
Esempio è quello di due orologi che segnano perfettamente la stessa ora. Come è possibile?
L’ordine delle idee e l’ordine delle cose… Se con Spinoza avevamo una cosa che poteva considerare in due modi diversi, con Leibniz abbiamo un vero parallelismo: l’ordine delle cause del mondo fisico è perfettamente armonizzato con l’ordine delle cause del mondo mentale. Ma questo parallelismo serve a spiegare tutte le interazioni tra le sostanze. Tutte le connessioni che leggiamo nell’ordine della causalità sono in realtà sviluppi di un unico ordine pre-determinato da Dio. Adesso argomentiamo questa cosa, dobbiamo capire come Leibniz arriva a questa conclusione e quali sono gli argomenti che porta a sostegno della sua ipotesi.
In Monadologia o principi di filosofia (1714), dove Leibniz
annuncia la tesi che una sostanza individuale onnimodo completa e
determinata non può che essere concepita come una monade, cioè un atomo,
una unità. Questo perché soltanto l’unità, che è sinonimo di
semplicità - ciò che è unitario non è composto di parti, non è
qualcosa che può mutare sulla base dell’interferenza di altri corpi, o
perché si scontra con altri corpi; può mutare solo sulla base di un
principio interno di sviluppo. Per questo motivo gli
atomi devono essere immateriali, e
sono punti di energia, punti di forza.
Ciò che sta nello spazio può invece sempre essere scomposto.
Nella metafisica cartesiana la forza faceva interagire le sostanze; Nella metafisica della sostanza leibniziana la forza è la sostanza, la sostanza è vis, e queste monadi sono centri di forza, ossia entelechìe, principi dinamici teleologicamente orientati. La monade è una forza percettiva, o vis representativa, un punto di attività percettiva. Le sostanze individuali sono specchi dell’universo, cioè percepiscono l’universo. La percezione è l’attività fondamentale della monade, che nella sua natura unitaria fa qualcosa che sanno fare solo le monadi: raccoglie la molteplicità di quello che percepisce nell’unità del suo punto prospettico: reductio ad unum.
Questa forza percettiva progredisce sulla base di una appetizione (desiderio dinamica) che sta a fondamento della vita della monade - la vita della monade è passare da una percezione all’altra - ma visto che ogni percezione è percezione di un universo intero (e sempre lo stesso) , ogni volta posso vedere più qualità delle cose, da prospettive diverse, c’è un progresso nella mia comprensione delle diverse qualità della sostanza.
Prima la sostanza è buia e io non vedo nulla, poi si accende la luce e vedo che c’è un quadro, poi aumenta la luce e vedo il soggetto del quadro, ecc..
Le rappresentazioni si muovono su una scala che va dall’oscuro
all’adeguato; nel 1684 Negli Acta Eruditorum, una sorta di
rivista dell’Illuminismo tedesco, Leibniz pubblica uno scritto
intitolato: Meditationes De Cognitione.
In queste 4 pagine importantissime (leggile!) c’è la
classificazione delle percezioni. Il loro ordine un
incremento nella perspicuità con cui la monade vede l’universo, un
incremento del grado di adeguatezza della monade rispetto alla sua
condizione ontologica (quella di essere una forza percettiva):
Già Cartesio aveva introdotto al divisione confusione e distinzione.
Ma la differenza è che Cartesio non aveva considerato l’esistenza di contenuti inconsci della mente, la sostanza che pensa ha un’attività sempre definita e sempre attiva. Il cogito è il passaggio dalla confusione, da una zona di oscurità all’interno dell’anima, nel senso di conoscenze che non sono capace di mettere bene a fuoco, a una condizione di evidenza.
Abbiamo anche l’idea in Leibniz che le nostre idee siano insieme compositi di elementi, su cui dobbiamo fare luce separatamente se vogliamo conoscere la sostanza.
Nella Monadologia Leibniz dice che la monade “non ha porte e finestre”; cioè non è in un rapporto di relazione causale con le altre monadi; non c’è nulla che entra e esce. C’è l’armonia prestabilita, le monadi sono in armonia tra loro ma non si toccano e non si parlano.
Se percepire significa rappresentare (la vis rappresentativa
è la monade), rappresentare è re-presentare, cioè
riprodurre nell’interiorità della monade ciò che sta fuori dalla monade.
Ma la rappresentazione di Leibniz non è una rappresentazione pittorica
(quella dello specchio è solo una metafora!!) la rappresentazione
riproduce i rapporti che legano le cose. La percezione, il processo
rappresentativo, è un processo che esprime i rapporti che ci
sono tra le cose.
È rappresentativo il rapporto tra una melodia e lo spartito, tra una
carta geografica e il mondo geografico. L’atto rappresentativo è
una concordanza di rapporti.
L’opera dell’artista fa emergere virtualmente ciò che è nella
venatura.
Il processo percettivo determina il modo in cui le monadi
appaiono.
Ma se tutto è fatto di monadi, punti di forza immateriali, che statuto
ha la materia? Il tavolo ha una capacità percettiva? Incrementare il
grado di chiarezza della percezione significa conoscere le cose al di là
della loro apparenza, ciò conoscere ciò che sta sotto a ciò che noi
percepiamo: in altre parole passare dal piano fisico della materia al
piano metafisico della sostanza.
Le monadi che hanno solo capacità appercettiva oscura, cioè che non hanno attività percettiva qualificata come distinzione, appaiono fatte di materia. Hanno solo una appercezione passiva. La materia è un fenomeno ben fondato.
L’estensione è la maniera in cui ci appaiono le sostanze pensati con una capacità appercettiva sopita. La materia è monade, ma è una monade non percipiente. In questo senso il grado di chiarezza delle percezioni ci permette di distinguere i diversi ambiti della realtà.
rappresentazioni oscure - cose inanimate rappresentazioni confuse - animali non razionali rappresentazioni distinte - animali razionali
Dio si rappresenta simbolicamente tutti i punti di vista. Le monadi create, sostanze finite vedono tutto esattamente come Dio, ma da un punto di vista particolare; e questo fa sì che non riesca a vedere tutto con la stessa chiarezza. Hanno un punto di vista determinato, mentre Dio accoglie in sé tutti i punti di vista, con una conoscenza massimamente adeguata di tutto.
Il Dio di Leibniz è filosofo summus, è innanzitutto filosofo. Dio è un logico. Dio è un matematico, è massimamente sapiente in quanto incarna le leggi della logica. È un Dio completamente opposto al Dio cartesiano volontarista che volendo avrebbe potuto cambiare le leggi della matematica. Il Dio di Leibniz è invece la legge della logica, infatti l’intellegibilità del progetto divino dai nostri intelletti è la possibilità che ciascuna monade ha di vedere le cose dalla prospettiva.
Domani parleremo:
Leibniz nella Monadologia (par. 17) Esempio del mulino.
La percezione è inesplicabile mediante figure meccaniche, non posso ridurre la percezione al movimento. Se entriamo dentro un mulino troveremo sempre altri meccanismi, ma non potremo mai vedere la ragione della percezione; la ragione della percezione va cercata nella sostanza semplice, ossia nel composto, e non nella macchina.
La riduzione ad unum è possibile solo in una sostanza semplice perché
se la materia potesse pensare noi potremmo pensare al pensiero come
frammentato dalle diverse parti del corpo pensante, e non ci sarebbe un
singolo individuo (cioè una singola mente) a cui ricondurla.
La percezione invece ha un punto di vista unitario, il pensiero è
qualcosa che non si può frammentare.
Le modificazioni provocati dagli urti sono spiegabili in termini di modificazioni dello spazio occupato da determinate parti del corpo in seguito all’urto con l’altro corpo; ciò che rende una percezione un’attività praticabile soltanto da strati semplice è il fatto che la percezione ha un elemento di unità. Questa è la reductio ad unum di cui parla Leibniz. La percezione non è un movimento, è in un altro dominio ontologico.
Le modificazioni della monade non avvengono per urto, per contatto con le altre sostanze semplici e immateriali. L’unico modo per concepire la monade in questo modo è come una entelechìa, cioè come un ente che ha in se stessa le ragioni sufficienti a determinare le proprie modificazioni.
L’universo leibniziano è popolato da monadi che rappresentano la totalità.
La monade:
La monade dominante tiene in un unico organismo tutte le monadi, sulla base dell’armonia prestabilita. L’anima ha i suoi pensieri le sue percezioni, il corpo ha i suoi movimenti ma le due cose non interferiscono. Non c’è interazione tra le due.
Secondo Leibniz tutto l’universo è un organismo.
Il finalismo è un ingrediente principale della filosofia dei Leibniz. Se con la rivoluzione scientifica le cause finale erano state espunte a favore delle cause efficienti - e la critica al finalismo aveva riguardato tutti i filosofi moderni, su tutti Spinoza, il finalismo viene riabilitato da Leibniz che vi riconduce la comprensione di due livelli del mondo, quello fisico e quello metafisico.
Nel migliore dei mondi possibili deve esserci una certa quantità di male per non violare il principio di identità; il male è privatio bonii, mancanza di bene e di perfezione necessaria. I mondi possibili di fronte all’intelletto divino i mondi possibili sono tutti identici, a patto che rispettano il principio di non contraddizione e di identità. Anche quello con tanto male è possibile. È come se la mancanza di perfezione sia la possibilità di istituire uno iato ontologico fondamentale in ogni teologia creazionistica. C’è una caduta nella creazione; il male è fondamentale.
Dio può quindi scegliere il mondo che vuole, l’unico vincolo è che sia possibile. Ma Dio è buono quindi sceglie il migliore; ma questo non sulla base di una riflessione persuasiva o di una scelta, ma perché la sua bontà lo vincola, lui è moralmente necessitato a scegliere questo mondo; la scelta è il risultato necessario della sua natura: Dio è buono e per questo abbiamo la garanzia che questo sia il migliore dei mondi possibili.
Dio non può tradire la propria natura buona, non può scegliere altrimenti - se Dio scegliesse un’altra cosa, non sarebbe Dio.
Non può esserci una pluralità di mondi, perché vorrebbe dire che Dio non si comporterebbe da Dio.
Se invece ci fossero una quantità di mondi identici, sarebbero indiscernibili quindi identici.
Ma che bisogno ha Leibniz di pensare alle monadi come entità che non si modificano dall’esterno? Se lo facessero, ci sarebbe un grande caos? E va bene. Il punto è che Leibniz è comunque un apologeta del Dio giudaico-cristiano.
Dio deve intervenire ogni qual volta? No, quello è il Dio occasionalista che interviene ogni volta che c’è un’interazione che percepisco come causale.
Sono quelle che determinano la monade e la rendono discernibile tra
tutte le altre.
Il fatto che io sia un animale razionale e che io oggi ho una maglietta
nera sono due eventi ugualmente necessitati.
Se Cesare non avesse passato il Rubicone, non sarebbe stato Giulio
Cesare, dice Leibniz.
Ma dov’è il confine tra necessità e contingenza?
Leibniz distingue tra due regni di verità:
Le verità di ragione e le verità di fatto sono entrambe ugualmente necessitate, le prime perché rispondono al principio di non contraddizione e di identità, le seconde perché rispondo al principio di ragion sufficiente. Dio vede le due verità con lo stesso tipo di necessità, mentre noi conosciamo le prime a priori (innate) e le seconde a posteriori, cioè esperienza, cioè nei libri di storia.
In un mondo come il nostro, dove nella monade ci sono le ragioni sufficienti di tutte le modificazioni, che avvengono in un ordine predeterminato dalla natura prestabilita di Dio (un po’ di fatalismo qui); Leibniz si serve di questa distinzione per spiegare che in realtà non è necessario che io agisca come agisco secondo le mie proprie determinazioni, ma è necessario in questo mondo, che è in sé contingente, cioè è uno dei mondi possibili.
Quindi Leibniz sposta la contingenza del reale al livello di Dio. La libertà sta in quel microspazio di assoggettamento della sensibilità alla ragione, che è uno spazio intellettuale, uno spazio che mi porta a liberarmi dal vincolo del corpo vivendo una vita rivolta verso il bene. d Libertà che è anche una libertà di, uno spazio di libertà in una prospettiva per cui la razionalità ha un certo margine di influenza.
Illuminismo è fiducioso nei confronti dell’umanità.
Gli esseri umani sono destinati (Beschtimmung) a migliorarsi, il loro destino è un innalzamento in cui trova realizzazione superiore la dignità degli uomini che sarà poi celebrata al massimo dalla filosofia kantiana.
Due note sul pietismo, altra corrente determinante del ’700. Il pietismo è un movimento religioso che nasce in seno al luteranesimo e rappresenta per il luteranesimo ciò che la riforma ha rappresentato per la cristianità: riportare una religione alle origine, di affrancarla da tutte le forme che rendono la religione una religione esteriore, devota alle immagini.
Il pietismo ha come proprio fine precipuo quella di ricondurre l’individuo a un rapporto con la divinità - rapporto
La libertà di coscienza è il fondamento della coscienza dei attraverso il precetto luterano della libera interpretazione delle scritture. Il rapporto di devozione con Dio pone l’individuo in una rapporto diretto privo di intermediari con Dio, innalzandolo a un livello morale.
Il pietismo è una religione
Due personaggi chiave del pietismo: Spener che negli anni ’70 fonda a Francoforte dei collegia pietatis, conventicole dei gruppi religiosi di lettura, dove i fedeli si incontrano per discutere la scrittura. Allievo di Sprener è A.H. Francke, un teologo che opera a Halle, una piccola città prussiana vicino a Lipsia, è la più antica università prussiana, estremamente importante perché per tutta la metà del XVIII secolo è il punto dove passano tutti i filosofi del ’700, è un centro propulsivo. Kant è voluto stare a Koninsberg perché gli piaceva e c’era il porto, movimento, che gli dava un grande sguardo.
La cattedra della filosofia di Halle ha visto passare tutti i dotti che noi annoveriamo tra i rappresentati del secolo d’oro che è il XVII tedesco.
Fonda le Fondazioni Franche, un orfanatrofio, istituzioni scolastiche con una vocazione filantropica, per cui accoglievano i giovani che non provenivano da famiglie che gli garantivano un’istruzione, e li formavano introducendoli all’interno della cultura pietista. Il pietismo non è una religione che si pone in contrasto rispetto allo sviluppo della filosofia tedesca.
Tutta la filosofia dell’illuminismo tedesco va letta come un intreccio continuo con il pietismo: tant’è che il padre fondatore dell’illuminismo tedesco si forma all’interno di questa koinè culturale. Questo è il figlio del maestro di Leibniz, Jakob Thomasius: Christian Tomasius.
Tomasius incarna quello spirito di rinnovamento che apre la via a questa nuova stagione. Proviene da una famiglia di dotti: il padre è prof. di giurisprudenza a Lipsia, lui studia giurisprudenza a Lipsia e lì avrà la prima cattedra di filosofia.
Negli anni 80 del 60 Tomasius tiene una lezione in abiti francesi (spadino e casco ornamentale) in tedesco. Con Thomasius si ha l’ingresso della lingua vernacolare, corrente, nell’aula di filosofia. E su cosa tiene la sua lezione? Non sull’Organon aristotelico, ma un’operetta (che oggi annovereremmo con una forma di galateo che proliferano ) Il Manuale di prudenza di Baldassar Cassìan, una sorta di manuale per condurre in maniera soddisfacente la propria esistenza mondana: un manuale a pronto uso di una nuova classe sociale che in Germania faticava ad affermarsi: la classe borghese - figli di commercianti e proprietari terrieri che riuscivano ad accedere a forme di istruzione fino a quel momento precusogli.
Questa nuova parte della popolazione che finalmente aveva accesso all’istruzione superiore. Ma la Germania non era l’ambiente più favorevole a far emergere questo tipo di istanze sociali: era ancora gravemente scossa e danneggiata. Guerra dei Trent’anni 1618-1638
Germania diventa unica nazione nel 1860, fino a quel momento i territori tedeschi sono staterelli sottoposti all’autorità di alcuni principi locali, con alcuni che fanno ancora parte del Sacro Romano Impero Germanico, quello dei principi elettori che possono partecipare all’elezione dell’imperatore. Organizzano i loro territori con regimi di governo feudali, ancien regime, forte presenza dell’autorità locale, che spesso si muove in armonia con quella religiosa. Autorità del principi inverata dall’autorità del vescovo, c’è una connivenza tra potere politico e potere religioso. I filosofi dell’illuminismo cercano di rompere questa connivenza sulla base di una naturalizzazione del principio di autorità, rideterminando il fondamento religioso del potere come fondamento naturale del potere.
In questi territori fiorisce infatti il pensiero giusnaturalista, che vuole trovare il potere che non è costituito da nessuna autorità costituita. La gestione satellitare dei piccoli centri di autorità in questa geografia politica così sconnessa com’è quella degli stati germanici non consente una campagna così diretta come quella che era stata quella dell’Illuminismo borghese.
I borghesi sono i nuovi destinatari dell’insegnamento universitario.
Thomasius è la prima forma di filosofia che si oppone alla scolastica, alla burocraticizzazione del sapere, che lo rende atto solo a essere insegnato nelle aule del sapere. È con Thomasius che si apre la distinzione tra
La vita mondana è all’interno di un mondo fatto di esseri umani che vivono in comunità, è una filosofia concreta.
Introduzione all’etica filosofia dei costumi
Sono tutte opere pensate nel contesto di una filosofia aulica, cioè non raffinata ma adatta alla corte, che non è la corte dei principi, ma la corte delle abitazioni, cioè la piazza insomma - la polis greca, spazio di confronto pubblico su cui Habermas costruirà la sua teoria della sfera pubblica proprio a partire da queste riflessioni, come uno spazio di confronto e discussione.
Illuminismo tedesco si distingue classicamente in 3 fasi
Con Kant arriva a compimento la missione dell’Aufklarung - la filosofia kantiana non sarebbe stata possibile senza questa opera preparatoria, ma la sua opera è un’opera nuova, ha altri problemi e strumenti, non parla più la lingua della filosofia precedente, e per questo motivo si rende incommensurabile. Per questo motivo Kant cade fuori dal novero degli autori che di solito annoveriamo nell’illuminismo tedesco.
Thomasius ha una scuola abbastanza nutrita, di autori minori - che tuttavia tradiscono gli intenti dell’opera del maestro, mantenendo il sentimento di avversione per una filosofia eccessivamente metafisica e intellettualistica, hanno delle intuizioni assimilabili a quelle della filosofia lockiana (sensualisti che insistono sui limiti della ragione e sulla modestia della ragione), ma purtuttavia danno vita a una scolastica abbastanza nutrita. Impeto scolastico degli epigoni si traduce in una produzione sconfinata di manuali, di compendi, di opuscoli, che però non produce grandi innovazioni.
In questo lento progredire succede qualcosa: Christian Wolff, un giovane matematico, che era entrato in contatto con Leibniz per le sue eccellenti doti di matematico ha una cattedra ad Halle, dove insegnava pure Thomasius. Siamo nel 1706.
Wollf si lamenta del fatto che la filosofia di Thomasius manca di certezza, è un’insieme di precetti - ma non è filosofia. La filosofia non è ad vitam acta, ma è una scienza, ed è in questo che i tommasiani rifiutano. Wolff dice che Thomasius non capisce niente di matematica, non si serve della matematica per conferire fondatezza alla sua filosofia.
Bisogna trovare un metodo che corrisponde alla conoscenza naturale; nella scienza meglio si realizza quel tipo di articolazione dei pensieri che è la nostra logica naturale, il modo in cui procederebbe naturalmente il nostro intelletto se non fosse influenzato dai vizi di una ragione pigra come quella di tutti noi.
Il metodo matematico è il metodo scientifico, il metodo della matematica è la via per conferire alla filosofia lo statuto di sapere scientifico, ossia certo.
Tutte le sue opere sono metodo scientifica pertractate, cioè trattate secondo il metodo matematico, che ha le seguenti regole:
Nulla potrebbe seguire che non ha la propria ragione sufficiente di ciò che precede, e ciò che precede possiede la condizione sufficiente di ciò che segue. Questa è la connessione logica che si stabilisce tra i pensieri certi, e corrisponde precisamente alla connessione ontologica tra gli enti a cui il pensiero si riferisce. La realtà è costruita su nessi necessari, il pensiero quando penetra la realtà conoscendola riconosce al proprio interno la stessa stringenza logica che si esprime nei rapporti ontologici tra gli enti.
Aggiungendo al gruppo dei principi logici fondamentali, oltre a quello di identità e non contraddizione aggiunge il principio di ragion sufficiente, aderendo alla filosofia leibniziana.
Nella filosofia wolffiana accanto a questo elemento leibniziano ci sono elementi del tutto estranei alla metafisica leibniziana.
Prima di tutto il dualismo delle sostanze. La metafisica wolffiana è dualistica. Il mondo di Wollf è fatto
Ci sono sostanze semplici (spiriti e spiriti connessi con dei corpi, cioè anime) e sostanze composte di parti semplici, gli atomi della natura, che sono però dei concetti limite (linguaggio non wolffiano), qualcosa che devo pensare che ci sia, perché so che se qualcosa è composto può essere scomposto, verità assunta come incontrovertibile fino a Kant, che dirà che il composto sia composto di parti semplici è un giudizio sintetico, che qualcosa sia composto da parti semplici è invece una surrezione, uno di quei vizi che io introduco in quei ragionamenti senza neanche accorgermene. Ci vorrà Kant per distruggere su questo presupposto un’intera metafisica.
Altro elemento estraneo alla filosofia leibniziana: una certa attenzione verso il contributo che l’esperienza può dare alla conoscenza. L’esperienza è fonte e banco di prova delle nostre conoscenze. Tutte queste non solo partono dall’esperienza, ma devono essere verificate dall’esperienza, come un movimento circolare che attingendo dal primo contatto con il mondo elabora spiegazioni plausibili che rendano ragione dei fenomeni che si osservano, che rendono plausibili nel mondo.
Questo si chiama connubio rationis-experientia, la ragione e l’esperienza procedono a braccetto. Questo va di pari passo con la discussione sul commercium psico-fisico.
Partendo dall’esperienza, l’osservazione mi dice che a dei cambiamenti dell’anima corrispondo dei cambiamenti del cormo, solo questo mi dice l’esperienza. Compito della filosofia è trovare quel nesso che non posso trovare nell’esperienza. L’ipotesi più verosimile per rendere ragione di quella corrispondenza è il parallelismo psicofisico, pensare che le modificazioni dei corpi seguano lo stesso ordine delle modificazioni delle menti, allora mi rivolgo nuovamente all’esperienza con questa prospettiva.
La filosofia in questo movimento viene verificata dalle ipotesi che formula nell’esperienza. Per questo nella filosofia wolffiana le discipline filosofiche hanno una componente empirica o sperimentale. È un grande sistematore della filosofia in generale, per cui il nostro modo di procedere nel pensiero ricompone i nessi tra le cose, la stessa filosofia come edificio del sapere impone un ordine agli oggetti di cui si occupa.
Per Wolff la filosofia è così distinta:
La logica è presupposta e preparatoria, mi consente di individuare quei nessi inferenziali, connessioni tra le verità che sono la garanzia della scientificità, cioè della certezza, di un sapere.
La logica individua la struttura formale che tiene insieme le
realitates, cioè le realtà formali di tutte le cose, è quel
principio di connessione interno al reale inteso nella sua concezione
più formale - la logica è cioè quella che mi rende manifesti i principi
della possibilità, richiedendo che siano rispettati i 3 principi
dell’identità, della non-contraddizione e del principio di ragion
sufficiente.
La logica mi dà lo scheletro di tutto, ed è propedeutica alla filosofia,
che si rivolge invece alla maniera in cui tutto ciò che è può
essere.
La filosofia teoretica è la metafisica. Questa:
Queste sono le 3 metafisiche speciali. Questa suddivisione è quella canonica fino a Hegel, ha un successo clamoroso.
La filosofia morale invece si compone:
La filosofia wolffiana è la voce ufficiale della filosofia tedesca, soppianta la tradizione tomasiana, la quale però non si estingue e non sparisce, ma mantiene una sua “vita carsica”, emergendo qua è là nel corso della storia della filosofia tedesca. Ai tempi di Wolff c’è un grande esponente di una tradizione dei pensieri kantiani, che si chiama Prusius, che è un grande avversario di Wolff, e ci fa capire che la narrazione tomasiana non è ancora completamente scomparsa.
Lambert Tetens
C’è una presenza capillare della filosofia wolffiana a partire dal secondo decennio del 1700
Wolff darà vita a una nutritissima scolastica, amplissima schiera di ripetitori del suo pensiero, che penetrano in una maniera impressionante in tutte le università tedesche.
In quest’opera di grande diffusione del proprio pensiero, cioè dal 1728 traduce in latino tutte le sue opere. Dal precetto tomasiano di parlare anche nelle aule universitarie - e anche quando si parla di filosofia - in lingua corrente, rendendo la filosofia più fruibile, Wolff in un’opera di pura disseminazione della propria egemonia culturale di tradurre tutte le sue opere in latino. Queste opere si diffondono in tutta Europa
L’Enciclopedie è un collage di opere wolffiane: il sistema di Wolff diventa il sistema di riferimento della sapienza Europea. Le opere di Wolff vengono pubblicate ovunque; Verona e Ragusa sono le città dove vengono più pubblicate le sue opere.
Le opere di Wolff non vengono messe all’indice - questa per lo meno era l’idea dei papisti, ma non l’opinione del mondo hallense, che guardava con una certa circospezione la nascita di questo astro filosofico e in qualche modo contribuisce a rendere Wolff il grande eroe dell’illuminismo tedesco.
Nel novembre 1723: Wolff viene cacciato da Halle con decreto regio, su richiesta di un gruppo di teologi di Halle e della vicina Jena.
Nel Dizionario filosofico Voltaire racconta della cacciata di Wolff, elemento molto popolare.
Questo fatto viene interpretato dalla letteratura satirica del tempo in questi termini. Spettro dello spinozismo come tema letterario.
Lo Spinoza che c’era al tempo non era lo Spinoza che abbiamo noi, né quello che avevano in mano Hegel, Schelling, ecc.
Spinoza era lo Spinoza descritto da Pierre Bayle: un pericoloso ateo che diffondeva teorie materialistiche immanentistiche - questa lettura all’epoca ebbe una enorme fortuna, con autori come Stosch, Laur, e Knuzen-Bade (?). Tra questi però finisce in mezzo anche Wolff.
In particolare Lange e Budde sono particolarmente rilevanti inq uesto senso; si coalizzano per respingere indietro questa ondata wolffiana che stava dilagando per Halle.
La goccia che fa traboccare il vaso è una questione che scrive Wolff
sulla filosofia pratica dei cinesi.
Il problema storiografico è che tutte le fonti storiche sono vicine a
Wollf, sono nel suo punto di vista, quindi Wolff è rappresentato come un
povero martire perseguitato dai suoi aguzzini.
Ma c’è una lettera reale in cui gli viene intimato effettivamente di lasciare Halle pena la morte.
Wolff viene:
Per quanto le accuse rivolte Wolff possano essere suffragate dai testi, ci sono tanti fingimenti e giri. Wolff in scritti successivi sottolinea come l’armonia prestabilita pone un pericolo di fatalismo, ma non nella misura in cui Dio sceglie per suo libero arbitrio il mondo, non è sosttomessa a nessuna legge che non sia la sua propria. Il fatalismo cade.
Wolff si sposta a Marburgo, ma la sua opera lì non avrà successo di pubblico.
Prima traduzione in tedesco di Spinoza è di Schmitt, autore con velate simpatie wolffiane che va ad aggiornare il testo dell’Etica per renderlo fruibile al lettore comune tedesco.
Schmitt traduce anche i libri del Pentateuco in una chiave assolutamente wolffiana, e questo lo fa sentire in termini di spinozismo e di eresia in generale, per aver posto in termini razionalistici una questione sul testo sacro.
Ecco perché Wolff è un campione dell’illuminismo.
La ricezione di Wolff successiva sarà terribile invece.
Trattato dei tre impostori (Einaudi)
Questi autori hanno creato il lessico filosofico, quando si arriverà a Kant si vedrà come tutto ciò su cui lui costruisce è stato il prodotto di una lunga elaborazione, iniziata da Tomasius e poi perfezionata da Wolff e dalla sua scuola.
Una delle cose che Wolff contesta a Spinoza è l’elaborazione di un metodo non realmente matematico ma vagamente matematico.
Il primo illuminismo Lezione di Tomasius all’università di Lipsia e si fa concludere con l’affermazione della filosofia wolffiana degli anni ’20.
Rifiuto della filosofia come sapere tecnico che perde il contatto con la vita. Weltassheit, una saggezza aperta al mondo - un sapere pragmatico teso a migliorare le condizioni di vita concreta in un’esistenza mondana. La prima lezione in tedesco di Tomasius era su una sorta di Galateo, di manuale di prudenza. Abbiamo visto come la filosofia di Tomasius, data la sua avversione verso una logica intesa in senso aristotelico e a una metafisica pensata come una collana di sofisticherie.
Si crea a un certo punto una scolastica tomasiana che percorre la lunga stagione dell’Illuminismo tedesco, che si conclude negli anni ’80 con la comparsa della filosofia critica di Kant.
Abbiamo visto come l’affermazione della filosofia wolffiana va intesa in polemica con l’idea di Tomasius chela filosofia possa rinunciare a essere un pensatore sistematico, cioè che riesca a raccogliere nelle nostre conoscenze la medesima connessione che si dà nel mondo, ribadendo la necessità di affermare una convergenza tra realtà formale e struttura logica del reale.
Il concetto di connessione afferma le proprie radici nell’indubitabilità del principio di ragion sufficiente, è il principio cardine della filosofia wolffiana.
Il concetto di connessione apre la strada al concetto di ordine, il concetto che Wolff chiama scientifico e prevede la definizione dei termini, la connessione di tutte le verità come coronamento di questa connessione sistematica del sapere.
La matematica è lo strumento di questo sapere, non perché sia la scienza per eccellenza, come nel ’600, ma quella che meglio realizza l’applicazione del metodo: bisogna procedere per dimostrazioni rigorose e mantenere un pensiero univoco. Questo è l’agire naturale del nostro intelletto, che si comporta così quando è viziato da una serie di pregiudizi.
La struttura deduttiva della nostra ragione trova una espressione eccezionale nelle matematiche.
Questo è precisamente il modello di sapere contro il quale si erano ribellati i tomasiani e dal quale ripartirà Kant, per cui la filosofia, seppur concepita come sapere fondato, contesterò l’idea che la filosofia e la matematica debbano procedere allo stesso modo; e farà questo a partire dalle indicazioni che provenivano da uno degli epigoni di Tomasius, Ugus Crusius?
Wolff, in seguito alle denunce dei teologi pietisti, viene cacciato.
Viene accusato di essere un fatalista spinoziano, che nega la libertà e in questo modo rinuncia a qualsiasi imputabilità morale per i soggetti agenti - la medesima concezione che aveva fatto balenare a Cartesio l’idea del dualismo metafisico, che salvasse una parte di libertà.
Wolff risolve adottando la stessa teoria avanzata da Leibniz nella sua teoria dei mondi possibili; ogni evento del mondo è governato dalla medesima necessità degli eventi fisici (parallelismo psicofisico - le modificazioni dei movimenti di corpo e mente sono armonizzate ma anche indipendenti) - questo non lascia spazio alla via segnata dalla necessità naturale.
Questo nexum rerum fatalis non è fatale, non è deciso da nexum rerum sapienti, cioè stabilito in quanto conforme alla migliore delle decisioni possibili in base alle possibilità di Dio. Questa è una scelta non obbligata da Dio, ma resa necessaria dalla sua natura buona.
Dio sceglie questo preciso mondo come oggetto della creazione. Questa connessione necessaria non è stabilita da un fato cieco, ma è una connessione sapiente, da lui solo che può vedere l’intero sistema di ragioni sufficienti in cui si realizza la massima quantità di bene e minima quantità di male.
L’elemento del fatalismo è un elemento che costringe gli autori a
soluzioni rocambolesche per difendere una teoria dell’imputabilità
morale.
La moralità si realizza con azioni e comportamenti
intellettualisticamente guidati, cioè sempre rivolti alla conoscenza del
bene che può venire solo dall’intelletto e afferma al grado massimo la
natura razionale umana.
Gli esseri umani non possono che muovere verso il bene, e in questo senso promuovono un perfezionamento che si adatta alla lettura del migliore dei mondi possibili.
È un intellettualismo etica che si ammanta di eudaimonismo, perché il pensiero verso il bene è un cammino verso la felicità - nei testi di questi autori c’è la beatitudo, la gioia dell’anima.
Questo cammino verso la perfezione è uno dei tratti che viene mantenuto all’interno della riflessione illuministica tedesca anche quando la filosofia wolffiana è al suo declino. Siamo negli anni ’50, Wolff è stato per 30 anni il protagonista egemone della cultura tedesca - assicurata anche da una serie di azioni politiche.
La cacciata dai territori prussiani lo rende l’eroe dell’illuminismo contro le tenebre oscurantiste dell’ideologie - mosse orchestrate con il fine di penetrare ogni anfratto della produzione accademica tedesca: la scrittura di manuali, la creazione di una scuola nutrita. Le cattedre sono quasi integralmente occupate da filosofi wolffiani.
Anche Koningsberg diventa un feudo wolffiano. Lo stesso kant, che si forma con un personaggio eccezionale che è Martin Gnuzen, che era un wolffiano eterodosso, il quale affermava l’interazione psicofisica il punto della teoria wolffiana che l’aveva fatta entrare in contrasto con i pietisti.
Martin Gnuzen riesce a realizzare la convergenza di due elementi apparentemente eterogenei, come il pietismo e il wolffismo, in un sistema filosofico del tutto eccezionale che influenzerò la filosofia kantiana.
Negli anni ’50, che sono gli anni della formazione di Kant, si apre la stagione del tardo illuminismo, che dura fino alla pubblicazione della Critica della Ragion Pura.
In questa tarda stagione non abbiamo un capofila o un esponente di spicco, ma una serie di questioni e temi che ci consentono di individuare una certa “aria di famiglia” tra tutti questi pensatori, che rimangono spesso ignorati nei manuali:
C’è l’idea di una concezione di una filosofia aperta al mondo, che sappia farsi popolare. Sono questi anni di filosofi che parlano la lingua del popolo - il tedesco si è affermato come lingua tecnica della filosofia.
I filosofi parlano di questioni che possono riguardare l’uomo comune. Sono temi anzitutto di filosofia pratica; non abbiamo in questo periodo grandi sistemi speculative o grandi riflessioni gnoseologiche/epistemologiche; abbiamo grandi sistemi di filosofia pratica, con la riproposizione di un dialogo, assolutamente nuovo in Germania, tra filosofia e religione, con l’intento di sondare fino a che punto sia ammissibile sulla base di un negoziato razionale la componente positiva della religione; fino a che punto sia possibile accettare quella concrezioni di racconti trasmessi dal testo sacro a cui i fedeli sono chiamati ad assoggettarsi.
In questo senso l’opera paradigmatica è il Nathan di Lessing. È un’opera breve la cui tesi centrale è che il nucleo dell’insegnamento religioso è perfettamente compatibile con gli insegnamenti di un’etica razionale, con il modello di razionalità che era stato portato avanti dall’illuminismo. La religione positiva è una concezione che appartiene al novero delle credenze che non intaccano la religione, che ha un valore essenzialmente morale.
I tre anelli sono le tre religioni monoteistiche che si sovrappongono in un punto comune a tutti e tre i cerchi, e quello porzione è il nucleo della religione; perfettamente indagabile a partire da quei principi razionali presentati dalla filosofia wolffiana.
La convinzione lessinghiana di una educazione del genere umano che deve passare per un rischiaramento concettuale per trovare uno spazio di comunicazione di concetti nel quale non si introducano ambiguità - è quello che vede il passaggio da una condizione d’infanzia dell’umanità, verso la luce razionale che è quella che deve condurre l’uomo alla verità nell’affermazione della propria natura razionale, che è anche vicinanza a Dio.
In questa fase iniziano i primi contatti di Kant con il mondo filosofico a lui contemporaneo. Kant si forma in un ambiente pietistico. Quando si iscrive all’università, c’era un biennio propedeutico di filosofia, seguito da diritto, teologia o medicina.
Kant non era animato da un interesse innanzitutto filosofico, nel senso in cui si intendeva la filosofia al tempo - come credenza mondana. Kant ha un chiaro interesse scientifico. Il punto di interesse di Kant è la giustificabilità della scienza.
La scienza per Kant è la scienza newtoniana. È l’orizzonte scientifico entro il quale si forma il giovane Kant, e nei confronti del quale Kant arriva a porsi quelle domande che gli faranno varcare i confini della scienza naturale per entrare nella filosofia.
L’interesse filosofico per Kant arriva quando capisce che per giustificare la scienza newtoniana ha bisogno di riformulare i principi filosofici su cui la scienza newtoniana si forma. Hume aveva inferto alla scienza newtoniana un colpo esiziale con la sua critica al concetto di causalità, destituendo dalla scienza quel carattere apodittico e incontestabile.
La causalità è una credenza e i valori costruiti sulla credenza ha valore solo probabile; la scienza della natura secondo Hume ha valore solo probabile e fino a prova contraria.
Kant non riusciva ad arrendersi a questa idea. Risolvere questo problema non significa riavvolgere il nastro e affermare che il principio è un principio analitico. Bisognava, pur avvertiti dalle affermazioni di Hume, restituire certezza alla filosofia in una dimensione a priori.
Tutti i primi scritti di Kant (da metà anni ’50 al 1770) hanno un marcato interesse scientifico che costringe Kant a scavalcare i fenomeni naturali verso i principi metafisici su cui essa riposa.
La riflessione sui fenomeni naturali implica una maniera di intendere il reale che è di competenza non degli scienziati ma dei metafisici: spazio, tempo, qualità, quantità. Tutti quegli ingredienti di cui gli scienziati naturali si servono e di cui spesso sono inconsapevoli.
Bisogna rifondare la validità della scienza. Attraverso questa via Kant giunge al problema da cui nasce la filosofia. Il problema da cui nasce la filosofia kantiana è la filosofia.
In che misura la metafisica può ancora “tenere” come disciplina filosofica in un mondo descritto così bene dalla fisica newtoniana?
Wolff aveva distinto in:
Kant opera una rifondazione totale della metafisica così intesa. La filosofia kantiana è una critica alla metafisica.
Ma Kant non è humiano: mette in atto una riforma della metafisica così radicale da riproporre una sottilissima ontologia - scienza dei principi fondamentali dell’ente che ci viene fornita dalla prima parte della ragion pura.
Quando si parla di determinati enti che si sottraggono alla pratica sperimentale bisogna essere consapevoli che il fondamento su cui si fonda la nostra scienza non è più un fondamento speculativo: ci muoviamo nel campo della filosofia pratica, della “morale”, in cui trovano legittimazione tutti i nostri istinti relativi all’anima, al mondo come totalità e a Dio.
La critica di Kant alla metafisica non è una condanna della metafisica; è una rivoluzione nel modo di pensare ai fondamenti della metafisica, è un ripensamento della metafisica quanto alle sue implicazioni epistemiche.
Siamo disposti a dire che alcune nostre credenze e conoscenze riposano su fondamenti diversi da quelli della scienza possiamo fondare una scienza che mi dice qualcosa alla necessità più che legittima che io ho di affermarli.
La teologia, cioè, è una scienza. Non una scienza che mi dice come è fatto Dio, ma su quali presupposti io posso legittimamente ammettere l’esistenza di Dio senza timore di venire smentito; è un modo di guardare i problemi della metafisica che non ha il proprio focus sull’oggetto, ma sulla legittimità della pretesta, o come dice Kant, del nostro bisogno, di ammettere quegli oggetti.
Cercheremo di capire quali sono le vie che Kant percorre per arrivare a risolvere il problema ineludibile della ragione: la metafisica. Il problema della metafisica è che ha un mondo che ha la sua ragione d’essere nella ragione, facoltà totalmente incapace di soddisfarsi di ciò che ha in questo mondo.
La metafisica riguarda un sapere per il quale un matematico darebbe tutte le sue conoscenze - riguarda temi su cui la nostra ragione strutturalmente non riesce a distogliere lo sguardo. Cionondimeno, la ragione così come è stata abituata a considerarsi, non trova in sé gli strumenti per risolverli.
O vive in uno stato di schizofrenia che la conduce allo scetticismo, o si getta in un dogmatismo.
Critica della ragion pura significa sottoporre ad esame la ragione, per vedere se non abbia potenzialità altre rispetto ai sostenitori del metodo matematico e del procedere deduttivo.
Lo scetticismo è l’eutanasia della ragione - la ragione scettica è una ragione rinunciataria. Quello della critica è un dovere ed è un compito arduo. È difficile ripensarsi.
Il 1770 è un anno fondamentale, l’anno in cui Kant sale in cattedra dopo aver cercato invano di procurarsi un lavoro stabile, facendo prima il precettore, poi il bibliotecario.
Nel 1770 Kant pubblica la Dissertazione sulla forma e i principi del mondo sensibile e del mondo intellegibile. È un’opera di cesura tra fase pre-critica e fase critica.
Nell’opera troviamo:
Ma secondo lei l’opera che segna il vero passaggio è un’altra: I sogni di un visionario chiariti attraverso i sogni della metafisica, una recensione che Kant scrive agli Arcana Celestia, di Emmanuel , un cultore di saperi esoterici. Una sorta di libro di storie esoteriche.
Kant decide allora di scrivere questa lunga recensione seguendo un’idea: che questo modo di procedere dei visionari, l’argomento che portano a sostegno della loro posizione non è distante dal modo in cui procedono i metafisici, che scavano analiticamente tra i loro concetti e propongono immagini della realtà che si sottraggono a qualsiasi tipo di verifica e verso i quali siamo tenuti ad avere lo stesso atteggiamento che si ha nei confronti di un visionario: credere, o non credere, prenderle per buone o no.
Se gli edifici dei metafisici fossero costruiti su un procedimento razionale perfettamente verificabile, allora i metafisici andrebbero tutti d’accordo e non ci sarebbe nessun conflitto.
I metafisici sono come i sognatori e i visionari. Quando uno sogna
vive in un mondo che è suo proprio. Kant dice che anche quando uno vive
in un mondo che è suo proprio sta sognando.
I metafisici sono dunque dei sognatori.
Scopo di Kant è proporre una riforma della metafisica.
La metafisica, così come viene concepita tradizionalmente, è conoscere come sono fatte le cose, indagandone le proprietà recondite.
La metafisica è scienza dei limiti della ragione umana. È scienza dei limiti delle nostre capacità conoscitive.
Il ricercatore prima di avventurarsi per grandi conquiste, deve conoscere bene i confini del suo piccolo paese.
Il tema del confine e del limite è un tema tipicamente kantiano che ha il suo inizio in questo punto della sua produzione filosofica.
La scienza dei limiti è qualcosa di diverso dalla domanda lockiana. Locke non vuole fare una scienza dei limiti della conoscenza, ma usare un metodo storico, un approccio descrittivo e non normativo. I saggi sull’intelletto umano sono una descrizione empirica dell’intelletto, ma senza costruire una scienza in quanto può essere continuamente invalidata dalla realtà empirica.
La scienza non può essere a posteriori, ma interrogarsi sui fondamenti che rendono possibili le nostre conoscenze. La scienza deve guardare agli strumenti di cui il soggetto si serve prima di intraprendere il viaggio verso la meta della sua ricerca.
Questo ribaltamento di prospettiva e di punti di vista è noto nella letteratura come la rivoluzione copernicana della filosofia kantiana.
Kant non usa mai il termine rivoluzione copernicana, ma nella prefazione alla seconda edizione della critica della ragion pura (1787) (prima edizione 1781) Kant, risponde a una recensione dicendo che la sua opera è stata rivoluzionaria perché è riuscito a cambiare il punto di vista mantenendo fermo l’assetto delle cose.
Il ricercatore può cambiare il punto di vista assumendo il punto di vista del sole o assumendo il punto di vista della terra.
Non significa adattare il soggetto all’oggetto, ma cambiare il punto di vista sull’interazione indiscutibile tra soggetto e oggetto.
Posso guardarlo dal punto di vista dell’oggetto assumendo che esso abbia proprietà recondite per me che devo andare a cercare, o assumendo che il soggetto abbia strumenti per guardare all’oggetto che però mi sono ancora sconosciuti: di qui nasce l’esigenza di una critica della ragione.
Nella dissertazione del '70, che apre la fase critica, Kant inizia questo cammino di studio della facoltà conoscitiva.
La metafisica è una scienza dei limiti dell’intelletto. La facoltà conoscitiva alla quale Kant guarda è quello assunto in tutta la filosofia pre-kantiana, canonizzato nella terminologia wolffiana.
C’è una facoltà conoscitiva superiore e una facoltà conoscitiva inferiore. Nella facoltà superiore sono comprese nella loro distinzione intelletto e ragione, mentre la facoltà conoscitiva inferiore comprende la sensibilità e le artes, è quello spazio che va dalla dimensione puramente passiva della sensibilità alla dimensione della fantasia.
La distinzione leibniziana (e anche wolffiana) delle condizioni dell’anima; tra conoscenze chiare ma confuse e le conoscenze chiare ma distinte. La facoltà conoscitiva inferiore è quella che si occupa delle immaginazione, memoria; la facoltà conoscitiva superiore porta le medesime intuizioni a una chiarezza maggiore.
L’anima è un punto di vista sull’universo, si rappresenta il mondo in un continuo passaggio tra gradi di chiarezza e di distinzione. L’oggetto è il medesimo, il grado di chiarezza e distinzione cambia. Non cambia il contenuto, ma il grado di chiarezza.
Rappresentazioni confuse sono sensibili, quelle distinte sono intellettuali. Questa distinzione tra soggettività e intelletto per i leibniziani è di tipo logico; cambia soltanto il grado di chiarezza. La chiarezza è una delle perfezioni logiche della conoscenza - un’altra perfezione logica è la verità.
Logico si contrappone a estetico; riguarda la conoscenza, che per questi autori è qualcosa che compete soltanto all’intelletto. I sensi sono ricondotti alla conoscenza, ma il senso in quanto tale non mi dà nessuna conoscenza.
I sensi hanno altre perfezioni, che riguardano l’estetica, la scienza della sensibilità. La conoscenza sensibile ha delle perfezioni che non sono la verità o la chiarezza, ma la vivacità per esempio. Le perfezioni estetiche non riguardano la conoscenza vera e propria, quella dell’intelletto.
Questa nuova maniera di guardare la sensibilità è chiaramente distinta dalla logica come scienza delle perfezioni.
Secondo Kant: Sensibilità e intelletto sono due capacità distinte. Distinzione genetica non significa che hanno due origini distinte, ma che producono rappresentazioni del tutto differenti, le rappresentazioni dei sensi non sono come quelle dell’intelletto, perché la sensibilità e l’intelletto non sono la stessa facoltà che getta più o meno chiarezza sui contenuti, ma sono l’una una facoltà ricettiva, e l’altra una facoltà spontanea.
Ricettività non significa soltanto passività. La
sensibilità, nel modo in cui la intendono Locke e di Cartesio, è la
nostra capacità di venir affetti da qualcosa di esterno. La sensibilità
di Kant non è passività, ma è ricettività, cioè una capacità
attiva di subire modificazioni. Ricevere significa non
solo subire ma anche disporsi a decidere.
Significa che la mia sensibilità funziona così: qualcosa entra in
contatto con i miei organi di senso, ma i miei organi di senso sono
pronti a coglierle. C’è un elemento che non è riducibile alla
passività. Questo non si metterebbe in moto senza essere sollecitato da
nulla. Qualcosa è spontaneo quando non è determinato da una causa; la
sensibilità non è spontanea - è ricettiva. Ha bisogno di essere
svegliata.
La sensibilità ha delle forme a priori, che sono:
Sono le strutture (forme) che la sensibilità possiede indipendentemente dal fatto che si dia un oggetto che la tocca e una priorità logica, cioè rappresentano le condizioni grazie alla quale l’oggetto può toccarla.
A priori: rispetto all’esperienza, perché le possediamo prima del contatto con l’oggetto. Se non le avessi, quel contatto non sarebbe possibile. C’è una priorità temporale e logica.
Queste forme a priori sono anche pure, cioè non sono contaminate da qualcosa che viene dall’esperienza. Le forme a priori sono rappresentazioni proprie della sensibilità. Danno vita a rappresentazioni diverse. Le rappresentazioni che la ricettività produce si chiamano intuizioni.
Intuizione significa rappresentazione immediata.
Non era ovvio dire che queste rappresentazione fossero immediate. Intuizione non era un termine tecnico della filosofia, era un modo come un altro per spiegare come i sensi si riferissero all’esperienza.
I concetti sono le rappresentazioni mediate. Nella Dissertazione Kant ci dice che i concetti sono tipici della metafisica: qualità, quantità, ente. Sono concetti di cui disponiamo in maniera spontanea. Nella Dissertazione Kant diceva: quando conosco le cose in modo sensibile, conosco le cose uti apparent; cioè conosco le cose condizionate dalle mie forme a priori, in quanto la mia ricettività concerne quei “sensori” che abbiamo che ci consentono di cogliere cose che altrimenti non coglieremmo.
La sensibilità quindi mi fa intuire le cose dell’esperienza sulla base delle condizioni di spazio e tempo. Non conosco la cosa com’è, ma la conosco nella misura in cui si adegua agli unici canali che ho per rappresentarla, cioè nella loro natura fenomenica.
L’apparenza non è la parvenza; l’apparenza è il fenomeno, cioè come si dà a me - è l’unico modo in cui io posso avere un’esperienza.
Negli anni ’70, l’intelletto mi permette di conoscere le cose uti sunt, cioè nella loro natura noumenica.
I fenomeni sono le cose mediate dai fili della sensibilità I noumeni sono le cose come sono in sé
Quando io conosco le cose spontaneamente, cioè applicando a esse i miei concetti, le conosco tali e quali sono Quando invece filtro le mie informazioni attraverso i dati sensibili, li conoscono come mi appaiono
Quindi, risultati della dissertazione:
Perso i primi 6-7 minuti di registrazione.
La sensibilità non si comporta nei confronti del mondo come la tavoletta di cera e il sigillo, il foglio bianco nei confronti dell’esperienza a ha una capacità attiva di cogliere i dati dell’esperienza. Questa distinzione fonda la distinzione nell’animo umano di una componente del soggetto, ma rispetto alla quale il soggetto è completamente passivo (materia) e una soggettiva, che dipende dal soggetto (e non dagli individui), che possiede indipendentemente da qualsiasi contatto con l’esperienza delle strutture che le consentono di organizzare il materiale che le è fornito dal mondo esterno.
La cosa più simile che abbia trovato è la distinzione leibniziano-wolffiana tra Il grado di chiarezza e distinzione. Ma nessuno aveva chiamato il primo elemento materia della rappresentazione e il secondo forma della rappresentazione. Kant nella seconda dissertazione dice ciò che potrebbe essere chiamato (vocari potest) forma della rappresentazione. La sensibilità cade sul mondo, non sul soggetto. La sensibilità è ricettiva perché per potersi attivare ha bisogno di un primo contatto con qualcosa di completamente irriducibile al soggetto, qualcosa di trascendente al soggetto.
La forma è invece qualcosa che il soggetto possiede a priori. Ieri si è soffermata sulla condizione di duplice apriorità della forma rispetto alla materia. La forma è a priori nel senso che non è contaminata dall’esperienza e sta nel soggetto prima di qualsiasi esperienza. Se noi potessimo cogliere un individuo razionale, con nulla fuori di lui (non possiamo farlo), questo soggetto avrebbe una struttura originaria in cui stanno queste forme, sono a priori perché non dipendeno dall’esperienza.
Ma sono a priori in un senso nuovo (non nel senso in cui ne parlava già Hume, cioè come l’origine delle connessioni che stabiliamo tra le idee - mentre prima di Hume l’a priori o a posteriori riguardavano solo il corso delle cose, cioè che veniva prima e ciò che veniva dopo, una eco aristotelica.
L’accezione trascendentale di a priori è una espressione tutta kantiana, che prima non c’era. Le forme sono a priori nel senso che costituiscono le condizioni di possibilità delle rappresentazioni di cui sono forme. Condizione di possibilità è intesa sempre come condizioni empirica, e a priori in quanto non derivata dall’esperienza, è il senso che possiamo dedurre del trascendentale. Non c’è mai una definizione univoca di trascendentale. Trascendentale è tutto ciò che riguarda la condizione a priori della possibilità di qualcosa. Le condizioni a priori di spazio e tempo sono le condizioni a priori delle possibilità delle nostre rappresentazioni sensibili; se non ce le avessimo non potremmo avere rappresentazioni sensibili.
Spazio e tempo sono rappresentazioni particolari, che possono competere soltanto alla sensibilità. Questo è il risultato della critica che Kant muove alla teoria delle facoltà della scuola wolffiana.
Il soggetto non va visto cioè come una vis rappresentativa, una forza che si articola, che può presentarsi nella chiarezza sensibile e poi aumentare in chiarezza per diventare chiarezza intellettuale
Ma il La sensibilità in quanto ricettività dà origine a intuizioni, cioè rappresentazioni immediate. L’intelletto in quanto spontaneità da origine a rappresentazioni mediate (che si riferiscono sempre ad altre rappresentazioni) che sono i concetti. La sensibilità produce soltanto L’intelletto produce soltanto concetti.
Questa distinzione fatta già nella dissertazione del ’70 è una
rottura con la tradizione precedente enorme: nell’attribuire la forma
alla soggettività indipendentemente da qualsiasi contatto con
l’esperienza Kant rompe l’equivalenza tra sensibile ed empirico che era
stata la linea portante fino al 1770. Ciò che riguarda l’esperienza,
l’empirìa, è legato all’esercizio dei sensi.
La possibilità è sempre legata prima all’ambito della posteriori. Per
Kant esperienza, empirico e sensibilità non sono più la stessa cosa. C’è
una componente della sensibilità pura. Posso parlare di intuizioni pure
ancorché sensibili. Non è una distinzione da poco.
È possibile costruire delle scienze sensibili pure, che non hanno nulla a che fare con l’esperienza, che il soggetto può completare del tutto a priori senza ricorso a nessun tipo di esperienza a posteriori, come la matematica. La matematica per esempio non è una scienza a posteriori, non ha bisogno di nessuna esperienza (e di nessuna verifica dell’esperienza) per essere verificata. La attraverso le forme a priori della sensibilità.
Dalla Dissertazione del ’70 alla Critica della Ragion Pura passano 11 anni, battezzati come il decennio silenzioso. Per dieci anni non pubblica niente, è il decennio probabilmente più produttivo della storia della filosofia oltre che della biografia Kantiana: è il decennio in cui Kant ogni 4-5 mesi scrive ai suoi corrispondenti: ho pronta un’opera che rivoluzionerà la filosofia e che andrà alle stampe in varie fiere. Di fatto però quest’opera non arrivava mai alla conclusione.
Le numerosissime note e appunti hanno indotto alcuni studiosi a ritenere che la Critica della Ragion Pura sia il risultato di un collage (patchwork theory). Cioè Kant avrebbe cucito insieme una serie di appunti. La stesura definitiva (1000 pagine) avviene in soli 5-6 mesi.
Attraverso le corrispondenze noi siamo in grado di ricostruire il cammino della composizione della critica, e porta Kant a rivedere la parte relativa alla sua teoria della conoscenza del mondo fenomenico, e ad abbandonare quell’idea (secondo lui retaggio del dogmatismo) secondo cui una conoscenza intellettiva può arrivare a farci conoscere le cose come sono.
Uno dei dogmi della filosofia kantiana è infatti l’inconoscibilità del noumeno, il dogma per cui il noumeno non si può conoscere. È l’introduzione che Kant introduce all’uso delle tesi della dissertazione. Come ci arriva? Seguendo un interrogativo che in qualche modo già traspariva dal passo che abbiamo letto ieri ma diventa manifesto in una lettera che Kant scrive a un suo allievo, poi amico, celebre medico esponente dell’illuminismo berlinese Marcus Hertz una lettera del febbraio del ’72 - all’inizio dei primi anni del decennio silenzioso, in cui Kant dice: ho tutto pronto, ma c’è ancora una questione che non riesco bene a risolvere: il rapporto che c’è tra le mie rappresentazioni e le cose alle quali queste rappresentazioni pretendono di riferirsi, soprattutto quando si tratta di rappresentazioni a priori - quindi detto in un’opera che diventerebbe tipica dice: con quale diritto queste rappresentazioni dentro la mia mente pretendono di riferirsi a qualcosa fuori dalla mia mente? Con quale motivo posso attribuire alle cose delle proprietà che stanno nella mia testa. In che senso non questa teoria del mondo fenomenico non è solo un fenomenismo alla Locke, che mi costringe a dire che ciò che c’è è diverso da ciò che mi appare, avviandomi alla via dello scetticismo.
In quest’opera Kant affronta quello che noi abbiamo visto essere
il problema della filosofia moderna - il modo in cui
bisogna mettere le idee all’interno della mente del soggetto, cioè
l’inaugurazione di un teatro rappresentativo (wave
of ideas theory).
Questa dimensione della conoscenza non poteva essere attribuita né alla
teoria platonica né a quella aristotelica. Il problema di questa
corrispondenza è tipicamente moderna, a partire da Cartesio, quella che
è stata definita la crisi della coscienza moderna, il
momento in cui il soggetto per staccarsi dalla natura deve gettare un
ponte che gli consenta di rappresentarsi la natura.
Le rappresentazioni a priori sono evidentemente le rappresentazioni della metafisica. Il problema di Kant è sempre quel problema: come faccio a servirmi di determinati concetti avendo perso qualsiasi connessione con l’origine delle cose e le cose a cui quegli oggetti paiono riferirsi.
Questa teoria della sensibilità è identica così come la troviamo nella Dissertazione identica nella Ragion Pura nella sezione Estetica Trascendentale richiedeva un salto di prospettiva, che Kant aveva pensato come una rivoluzione analoga a quella di Copernico, una rivoluzione che consiste nel cambiare il punto di vista del soggetto, una rivoluzione è una rivoluzione nel modo di pensare, che deve portare i filosofi a cambiare la prospettiva nel modo di considerare gli oggetti della filosofia; e il modo di cambiare questa prospettiva è descritto da Kant in una maniera molto chiara nella Prefazione alla seconda edizione della Critica della Ragion Pura, dove si dice:
“È venuto il momento di compiere anche nella metafisica un cammino inverso, muovendo dal pensiero che siano gli oggetti a doversi accordare con la nostra conoscenza. Ciò si accorda meglio alla possibilità di una conoscenza a priori degli oggetti, che enunci qualcosa sugli oggetti prima della loro conoscenza”.
Cambiare punto di vista significa quindi assumere l’ipotesi che nell’oggetto possa darsi qualcosa che non starebbe nell’oggetto se non ce lo mettessi io a priori, cioè se non fosse un qualcosa che non fosse dall’inizio del soggetto.
Le cose stanno qui come il pensiero di Copernico, che constatando l’impossibilità di descrivere i moti con l’ipotesi di far ruotare il mondo allo spettatore, pensò di far ruotare lo spettatore e così cambiare prospettiva. Kant vuole introdurre una nuova ipotesi per andare oltre alle poche soluzioni che abbiamo incontrato nella storia della filosofia: + o si fa come i razionalisti, convergenza tra intelletto e natura degli enti + o si fa come gli empiristi, per cui la conoscenza è soltanto fenomenica e non possiamo arrivare alle essenze
Ma questa ipotesi di pensare alle qualità dell’oggetto come qualcosa che li rende possibili per me, significa cambiare il modo in cui si concepisce il rapporto tra il ricercatore e l’oggetto che si deve spiegare, cioè la ragione non deve più guardare al mondo come una scolare guarda al maestro, ma deve interrogare il mondo. Non ci vuole una lezione frontale col mondo, ma un bel seminario, dove bisogna chiedere ciò che si vuole capire. Non deve essere passivo e aspettare ma deve attivamente cercare di capire, attivamente interrogare l’oggetto per cercare se nell’oggetto c’è qualcosa che non stia originariamente nell’oggetto ma fa parte ed è il presupposto del modo in cui viene indagata dal ricercatore.
A noi possiamo riconoscere lo statuto di scienza in termini kantiani, cioè oggettivo (termine tecnico della filosofia kantiana: universale e necessario, cioè che vale per tutti e incondizionatamente). Come l’evidenza cartesiana, chiaro e distinto.
un sapere oggettivo è un sapere: + valido per tutti gli esseri razionali + valido sempre
Secondo Kant, meritano l’appellativo di scienza la matematica e la fisica, che riguardano conoscenze che non possono essere messe in dubbio.
In effetti i matematici e i fisici, a un certo punto di sviluppo della loro disciplina, hanno avuto un colpo di genio. Sempre dalla Prefazione alla Seconda Edizione. La matematica per diventare scienza ha mediato molto con gli egizi, ma il passaggio che l’ha fatta diventare scienze è dovuta a un singolo uomo: quello che dimostrò per la prima volta i teoremi sui triangoli, perché capì per la prima volta che non doveva attenersi solo al concetto della cosa stessa, ma piuttosto produrre la figura, costruendola secondo ciò che rappresentava in essa a priori, sapendo che non doveva attribuire alla cosa niente di ciò che conformemente al proprio senso lui ci ha posto.
La Critica della Ragion Pura come Platone e Aristotele si citano rispetto all’edizione A e B. A significa prima edizione. Berkeley seconda. B XI significa che sto leggendo la seconda edizione, undicesimo capitolo della Prefazione.
Rispetto al testo: dobbiamo pensare a spiegare a un bambino le proprietà delle figure geometriche. Quando voglio spiegare i teoremi, disegno un triangolo e inizio a descrivere. La prima cosa che dice il bambino: quella perpendicolare non è veramente una perpendicolare, è di 88 gradi. E di fronte a queste obiezioni, si dice al bambino: pensa a come l’abbiamo disegnata, pensa come l’abbiamo costruita! Non interrogo la figura sulla base di ciò che la figura mi mostra; interrogo la figura sulla base di ciò che io vi ho messo, cioè sulla base di come io l’ho voluta costruire.
Così Talete ha avuto il colpo di genio, capendo che le figure non andavano solo osservate, ma interrogate sulla base di ipotesi che noi avevamo imposto loro a priori senza prenderle da nessuna parte. Io voglio che il triangolo abbia gli angoli in quel modo, io procedo a dedurre proprietà che sono del tutto indipendenti dalla realtà empirica della figura, cioè riguardano un triangolo ideale come sono tutti gli enti della matematica.
La matematica è riuscita a compiere questa rivoluzione perché le figure non sono date al soggetto, ma sono costruite dal soggetto. Il fatto che siano costruite fa risuonare in modo inevitabile il fatto che sono sintesi. Quando io costruisco sto unendo delle cose - questo è il carattere sintetico della nostra capacità di pensiero.
La matematica costruisce i propri oggetti a priori, utilizzando la parte a priori della nostra sensibilità che sono le forme pure dello spazio e del tempo. Quando io conto costruisco delle unità che prima non avevo.
L’esempio che Kant fa nella Critica della Ragion Pura è: 7 + 5 =
12
Questo perché 12 eccede il numero di dita di una mano. 7 + 5 = 12 è il
risultato di una sintesi: io parto da 5 unità e aggiungo altre
7 unità. Cioè unisco in successione nel tempo - in un tempo puro che
permette la successione - le altre unità, e arrivo al 12. Il 12 è frutto
di una sintesi che io compio del tutto a priori. 5 + 7 = 12 è
un giudizio sintetico a priori.
È un giudizio perché gode del predicato “fare 12”. È sintetico perché 5 e 7 non contengono il concetto di 12. Sintesi di unità omogenee secondo il tempo. È a priori perché posso farlo a prescindere da qualsiasi esperienza.
Tuttavia è sensibili, perché usa la forma pura a priori della sensibilità, l’intelletto, per arrivare alla sintesi. Questa idea è rivoluzionaria: se la certezza della matematica riposava sul fatto che era una conoscenza analitica, cioè la cui validità è ricavabile se passa il test del principio di non-contraddizione, cioè se io riesco scomponendo il concetto del soggetto, a ricavare il predicato. Per questo Hume riteneva che 5 + 7 = 12 è un giudizio analitico, perché se tolgo da 12 5 ottengo 7.
Ma in quest’ultima operazione non sto seguendo la stessa direzione del primo ragionamento. Sto producendo un giudizio analitico a priori, che però non aumenta la mia conoscenza, mi permette di arrivare alle definizioni dei concetti, ma non mi consentono di capire come posso progredire nelle conoscenze.
5 + 7 = 12 può essere analitico solo se io già so che 5 + 7 = 12.
Ma il problema di Kant non è come rendere chiare le idee (Wolff), ma come ce le formiamo, in che senso possiamo dire che 5 + 7 = 12.
I giudizi sintetici della geometria sono sintetici a priori, perché come ci mostra il triangolo questo non è una rappresentazione che mi è data e di cui devo dare un’analisi - il triangolo è una rappresentazione a cui a un certo punto pervengo, ma come ci pervengo? Tirando fuori un’idea di triangolo da ogni triangolo che vedo? No! Il triangolo è frutto di una costruzione: guarda come l’hai costruito, si dice al bambino, guarda le regole che gli abbiamo imposto.
Il soggetto produce utilizzando la forma pura dello spazio - se non ci fosse, non sarebbe possibile ritagliare all’interno di questa facoltà pura le , sulla base delle quali noi interroghiamo ciò che ci troviamo davanti nell’esperienza. La matematica procede alla costruzione dei suoi concetti attraverso sintesi che si formano attraverso le intuizioni pure di spazio e intelletto, forme a priori della nostra sensibilità.
La matematica è una scienza perché si fonda sui giudizi sintetici a priori, perché quella colla che tiene uniti gli elementi non analiticamente compresi gli uni negli altri è il pensiero, una caratteristica comune a tutti gli esseri umani. Soltanto in questo modo noi possiamo pensare a questi saperi come saperi certi.
La colla di Hume era l’inclinazione, un elemento psicologico che mi porta ad abbracciare delle credenza. Ma se poniamo sul piano empirico il fondamento dei nostri sensi, potremo sempre credere che arriverà un essere umano senza proprietà. Se invece fondiamo le conoscenze a priori sui principi della razionalità non possiamo essere smentite.
La fisica procede allo stesso modo come scienza della natura.
Berkeley 12: Galileo Galilei fece cadere le sfere con un peso da lui precedentemente stabilito: costoro si resero conto che la ragione scorge soltanto ciò che essa produce secondo il proprio disegno, e compresero che essa deve far procedere i suoi giudizi secondo leggi stabili, senza farsi guidare dalla natura con le dande, i guinzagli con cui si fanno imparare i bambini a camminare.
Peranto è indispensabile che la ragione si presenti alla natura con in una mano la certezza del fatto che le connessioni tra i fenomeni sono oggettive, e nell’altra l’esperimento, per essere istruiti dalla natura non come scolaro, ma come giudice, che nell’esercizio delle sue funzioni costringe i testimoni a parlare. La ragione deve senza indulgere in fantasticherie, interrogare alla natura ciò che vuole sapere da essa. Lo scienziato impone alla natura certe regole, e poi sperimenta. Non cerca delle generalità, ma impone alla natura certi vincoli sulla base dei quali può poi trovare natura le polarità che sta cercando.
Anche la fisica procede sulla base di giudizi sintetici a priori. Kant ce lo dimostra ma mentre per dimostrare che la matematica è a priori gli basta l’estetica, cioè la forma della sensibilità, per dimostrare che lo è la fisica il percorso è più lungo e si trova nella Logica di Kant.
Kant scrive un’operetta per spiegare meglio le tesi della Ragion Pura, che sono i Prolegomeni, cioè Parole introduttive ,Considerazioni preliminari. Anche se Kant non ha reso immediatamente perspicuo il suo argomentare, dai Prolegomeni almeno una cosa in più si capisce: per spiegare ciò che è stato fatto nella Critica della Ragion Pura, Kant disse: adotto per questa volta un approccio analitico e non sintetico. Non accompagno più il lettore passo passo fino ad arrivare alla conoscenza certa, come faccio nella Ragion Pura, che in questo senso segue un metodo sintetico (cioè accumula elementi). Ne seguo un altro parto dalle scienze che consideriamo oggettive, cioè matematica e fisica pura, e analizzandole vi mostro che questi saperi possono rivendicare il titolo di conoscenze oggettive perché sono costruite a partire da giudizi sintetici a priori.
La grande la possibilità di connettere a priori qualcosa che in realtà non è connesso trova un modo di rendere oggettiva la conoscenza sintetica che consente di ampliare il sapere, che fino ad allora era relegata al campo del probabile.
Hume, nella relazione tra idee e materie di fatto. Sono analitici perché analizzare significa scomporre - scompongo il concetto del soggetto, cioè trovo la definizione, e in quella definizione trovo il predicato. E sono a priori perché per trovare il predicato mi basta stare in quel concetto, non ho bisogno di altri elementi dall’esperienza. Vantaggi: + giudizi certi e necessari
Svantaggi: + sono tautologie, giudizi sterili e infecondi, non mi fanno progredire il sapere es. il triangolo ha tre lati, il tutto è maggiore della parte.
Sono sempre giudizi che richiedono un’esperienza puntuale, che richiedono di conoscere proprietà che non stanno il soggetto ma provengono dall’esperienza - per questo sono a posteriori.
Vantaggi: + introducono nuovi elementi nell’esperienza Svantaggi: + non sono necessari - cioè hanno bisogno di una verifica empirica: il loro contrario è possibile
Le materie di fatto di Hume erano giudizi sintetici a posteriori.
Kant introduce i giudizi sintetici a priori.
I giudizi sintetici a priori: * sintetici: mettono insieme cose che prima non erano insieme, dove il predicato non è contenuto nella definizione del soggetto, ma questa sintesi non avviene su base empirica, bensì a priori: non proviene dall’esperienza, ma dipende dal soggetto, cade sul conto del soggetto.
Tutte le scienze sono costruite a partire da giudizi sintetici a priori.
Si può raggiungere in metafisica il grado di conoscenza oggettiva che hanno i matematici e i fisici? Bisogna vedere se lo conoscenze della metafisica riposano su giudizi sintetici a priori.
Metafisica divisa in metafisica generale, cioè ontologia e metafisiche speciali, cosmologia, teologia e ???.
Se la metafisica vuole essere una scienza, dovrà riposare su giudizi analitici a priori. Qui parte il lungo cammino della filosofia critica, il cammino propedeutico alla formulazione di un sistema di filosofia che sarà una metafisica. La critica è la bonifica del terreno sul quale potremo costruire delle metafisiche: una metafisica della natura e una metafisica dei costumi, cioè un sistema di metafisica e un sistema di filosofia pratica, un’etica, una morale.
Però prima bisogna bonificare: quindi la Critica della Ragion Pura potrebbe continuare come scienza. mentre la ragion pratica dovrebbe continuare con …. nel suo uso pratico
Nella sua spiegazione lei seguirà il metodo sintetico, cioè la via che Kant segue nella Ragion Pura.
La Ragion Pura è divisa in due grosse parti:
La questione dell’estetica merita una discussione più approfonditi. Un gruppo di wolffiani avevano intravisto la possibilità di sviluppare una scienza della sensibilità che non la vedesse soltanto ancella della ragione, parte da dover perfezionare logicamente per poter raggiungere la conoscenza razionale, io posso trovare nella sensibilità dei principi propri, che sono i principi su cui dover costruire una scienza del gusto, una scienza del bello.
Posso dire che nella sensibilità trovo un sacco di cose che non trovo nella conoscenza razionale: l’impressionante, piacevole, ecc.. Kant aveva ha disposizione questa teoria della sensibilità come fondamento di una teoria del gusto. A partire da questa idea per cui la sensibilità può avere una sua autonomia, Kant ha l’idea di poter concepire l’autonomia della sensibilità in un modo che non la relega in uno spazio che non ha niente a che fare con ciò che non è conoscitivo - la sensibilità ha una grande importanza per la conoscenza.
C’è qualcosa nella sensibilità che non la lega necessariamente ad altro, senza farne lo spazio di una teoria del gusto? L’estetica era in mano a tutti i dotti del ’700, ma solo Kant ha l’idea che dall’estetica si possa trarre una teoria trascendentale della sensibilità che entra all’interno di una riqualificazione della scienza che ha bisogno della sensibilità come termine di confronto.
Solo Kant pensa che la sensibilità possa essere investita di principi che non sono propri
Kant aveva letto l’Estetica di Baumgartner come tutti gli altri, ma prende questo materiale e ne fa qualcosa di completamente nuovo.
Traduzione UTET di Pietro Chiodi della Ragion Pura. Utilizzabile anche quella Bompiani con il testo a fronte.
Lo spazio è una intuizione pura a priori dove costruisco figure che non mi sono date ma sono costruite sulla base di regole che io pongo, cioè regole che si svolgono in uno spazio che secondo Kant ha regole conformi alla geometria euclidea.
Costruire: secondo Kant l’idea leibniziana-wolffiana e
condivisa da tutti i sistemi razionalistici - per cui la ragione con il
corretto metodo può arrivare a informazioni certe. Queste filosofie
assimilavano il metodo della filosofia a quello della matematica - ma
per Kant questa è un’associazione indebita; se la matematica ha che fare
con oggetti che ci costruiamo arbitrariamente, quindi non ho bisogno di
nessuna verifica empirica - ma non è analitica, è sintetica a priori -
nel caso della filosofia, cioè Kant intende l’ontologia, metafisica e
metafisiche speciali, io ho a che fare con oggetti che non possono
essere costruiti perché se fossero costruiti avrebbero una pretesa di
validità oggettiva. Gli oggetti della filosofia sono altri tipi di
rappresentazioni che non sono immediatamente date come lo spazio e il
tempo, ma concetti che devono essere giustificate; non sono condizioni
senza le quali non si dà la percezione delle cose, ma prodotti della
spontaneità del soggetto, che può essere applicata in forma
debita o indebita.
Lo spazio e il tempo sono prodotti della ricettività del soggetto. La
matematica quindi costruisce i propri oggetti, la filosofia ha a che
fare con oggetti dati, pretende di dire qualcosa su oggetti che non
stanno nella testa, ma fuori di noi.
Quando quindi parlo di un ente e dei suoi rapporti con altre sostanze e le sue caratteristiche, sto dicendo qualcosa di oggetti fuori di me.
Oggi partiamo da questa distinzione tra oggetti della matematica e oggetti della filosofia.
Rivediamo la struttura fondamentale di questa parte della Ragion Pura:
Per Kant ragione e intelletto sono due facoltà sono distinte:
producono rappresentazioni diverse, che rispondono a regole
diverse.
La logica dell’intelletto si chiama analitica; la logica della
ragione si chiama dialettica. Kant recupera una terminologia
aristotelica per implicare dal punto di vista terminologico la presa di
distanza dalla scolastica wolffiana e leibniziana.
La logica dell’intelletto è una logica della verità: grazie all’intelletto giungo al sapere certo, al sapere vero ; la logica della ragione si chiama logica della parvenza, per dire che la ragione non è in grado di procurare delle conoscenze vere, ma se la uso come strumento conoscitivo l’unico risultato che ottengo è una parvenza, un inganno, una illusione.
Dialettica. Gli analitici sono le regole per il corretto uso
dell’intelletto quando vogliamo arrivare alla verità. Per Aristotele la
dialettica prende avvio da quelle conoscenze non certe, ma probabili. Di
qui l’apodittica - e la non certezza delle premesse si riverbera sulla
validità del sillogismo, sulla validità della conclusione.
La logica dialettica della Ragion Pura è una logica trascendentale, cioè
una logica che deve considerare i principi a priori come le possibilità
della conoscenza. Il fatto che Kant la chiami logica trascendentale
significa che non è la logica tradizionale, la logica sillogistica, la
logica generale. Non è la logica generale perché questa è viziata da un
carattere di formalità che è a un tempo il suo punto di forza e il suo
problema.
Logica classica:
Riguarda le leggi formali del pensiero, senza prestare nessuna
attenzione agli oggetti a cui noi applichiamo questa operazione.
La logica aristotelica cioè è formale, riguarda solo la forma. Dopo
Aristotele non ha fatto nessun passo in avanti. La logica trascendentale
invece non può limitarsi ad avere un carattere esclusivamente formale,
deve guardare alle condizioni di possibilità della conoscenza, quelle
che rendono possibile qualcosa come oggetto della conoscenza, deve dirmi
qualcosa dell’oggetto a cui mi riferisco.
Deve dirmi a quali condizioni deve sottostare quell’oggetto per essere
oggetto della mia conoscenza. Le condizioni intersoggettive, non
psicologiche, non naturali, ma logiche, cioè relative alla
natura della ragion pura, cioè del pensiero.
Quando entriamo nella logica ci troviamo di fronte a un oggetto - l’intelletto - che occorre scomporre, per vedere se nell’analitica, come nel caso della sensibilità troviamo le condizioni di possibilità di qualsiasi esperienza. Partiamo dalla logica generale, formale, sulla quale tutti convengono - tutti riconoscono nella logica un sapere certo.
La logica prevede che l’intelletto formuli giudizi secondo la tavola delle 4 famiglie di giudizi,
Le famiglie di giudizi raccolgono tutte le quattro tipologie che il
nostro intelletto è in grado di pronunciare, cioè tutte le maniere in
cui siamo in grado di collegare un predicato al soggetto.
L’idea di Kant è vedere se è possibile ricavare a partire da questa
tavola dei giudizi una tavola di operazioni che l’intelletto compie a
livello trascendentale. Se questi giudizi sono giudizi che io pronuncio
indipendentemente dagli oggetti a cui mi riferisco, è possibile che
l’intelletto usi le stesse regole non solo sul piano formale, ma anche
quando pone le condizioni di possibilità degli oggetti della sua
conoscenza?
L’intelletto è sempre la stessa facoltà, che procede unificando cose
- nel caso della logica trascendentale unifica soggetti e predicati.
Come si comporta questa facoltà quando non la impiego nel suo uso
formale, ma trascendentale, cioè quando la considero come sede delle
condizioni di possibilità degli oggetti che vogliono essere oggetti
della mia conoscenza?
La logica trascendentale si pone in un piano sotto alla logica formale -
che potremmo chiamare un piano fondativo, cioè quello in cui pongo le
condizioni di possibilità di quegli oggetti, e poi posso procede ad
predicare cose con loro secondo la logica formale.
A partire dalla tavola dei giudizi Kant deduce una
tavola dei concetti puri dell’intelletto, che si chiamano
categorie.
Deduce perché questa parte si chiama così: Deduzione
metafisica.
Significa:
La deduzione metafisica delle categorie è quella con cui Kant mostra che sono esattamente 12 come i giudizi, divisa in 4 famiglie ognuna con 3 membri, e che sono la faccia trascendentale delle operazioni formali dell’intelletto.
L’intelletto è uno solo, e può avere un impiego formale e produrre giudizi, e un impiego trascendentale e allora dispone di categorie. Esattamente come spazio e tempo, rappresentazioni pure, anche le categorie sono concetti puri e a priori. Ma mentre spazio e tempo erano rappresentazioni immediate perché raccoglievano immediatamente un dato, le categorie sono mediate, in quanto si rivolgono ad altre rappresentazioni.
I concetti puri - comprese le categorie quindi - sono regole di sintesi, difatti l’intelletto è la facoltà delle regole. Così come nell’uso generale l’intelletto mette insieme, unisce soggetto e predicato, nell’uso trascendentale l’intelletto unisce altre rappresentazioni. L’intelletto è una facoltà sintetica, che dal punto di vista generale si esprime con il giudizio, dal punto di vista trascendentale impone delle regole ad altre rappresentazioni, che vengono fornite dalla sensibilità. L’intelletto contiene cioè le regole di sintesi delle intuizioni empirica.
Quindi finora:
In Analitica Trascendentale B 106 troviamo la tavola delle Categorie. Inerenza e sussistenza significa sostanza e accidente.
Bisogna sapere che le prime due famiglie di categorie, la quantità e la qualità, sono categorie che Kant chiama Matematiche, perché si riferiscono alla maniera in cui io concepisco l’oggetto della mia conoscenza in termini matematici, cioè come una quantità e come una qualità, cioè come qualcosa che ha delle proprietà che si esprimono attraverso gradi. Le categorie matematiche mi dicono che alle mie intuizioni empiriche impongo la regola di essere delle quantità e delle qualità, cioè delle proprietà esprimibili in gradi. Tutte le cose che mi si presentano devono assecondare la condizione di essere esprimibili in termini matematici.
Le altre due famiglie delle categorie sono categorie dinamiche: non riguardano la costituzione dell’oggetto, ma la maniera in cui l’oggetto si presenta rispetto agli altri oggetti e rispetto al soggetto: se è reale, ecc.
Queste categorie sono le condizioni a priori a cui ogni oggetto della conoscenza deve rispondere se vuole essere un oggetto della conoscenza. Così come nessun oggetto nel caso di spazio e tempo nessun oggetto poteva essere oggetto di intuizione fuori dallo spazio e del tempo, così nessun oggetto che si sottragga alle categorie può essere un oggetto della mia conoscenza, cioè nessun oggetto che si sottragga a questo modo di unire le intuizioni empiriche può diventare un oggetto della mia conoscenza.
Ma la deduzione metafisica non è sufficiente; io posso anche aver
dimostrato che il mio intelletto possiede queste capacità unificanti; ma
possono effettivamente queste regole applicarsi alle mie intuizioni? Le
categorie hanno la pretesa di dirmi qualcosa degli oggetti… Le
categorie, che sono rappresentazioni a priori, come possono pretendere
di saltare l’abisso che separa il mio pensiero dalle cose, fungendo da
condizioni di possibilità delle cose? Come possono effettivamente
pretendere di dire qualcosa degli oggetti fuori di noi?
È una sintesi legittima o illegittima? Hanno una corrispondenza con il
reale?
Questa è la domanda che muove una delle parti più complesse della ragion pura, la deduzione trascendentale delle categorie, che segue la deduzione metafisica. Qui non si tratta più di legittimare la pretesa di avere dei concetti a priori, ma legittimare la pretesa dei concetti di dirci qualcosa su ciò che è fuori di noi. La domanda a cui Kant si risponde qui è: quale legittimità i nostri concetti a priori permettono di riferirsi a cose fuori di noi? Questo come abbiamo visto era stato il grande problema della filosofia moderna.
Il soggetto si trova di fronte a un oggetto. Come concepiamo la conoscenza di qualcosa che sta fuori di noi? Come un elenco di proprietà che individuiamo in qualcosa. Quando conosco un oggetto significa che ho la rappresentazione di qualcosa che ha delle proprietà che entrano nella mia mente con una modalità conoscitiva. Il punto di arrivo era sempre per i vari filosofi riuscire a ritrarre nella mente l’elenco delle proprietà di qualcosa. Tutte queste proprietà sono proprietà che accolgo attraverso i sensi, e su questo erano d’accordo Locke, Hume, Cartesio e Leibniz - vedo una forma, un peso, una serie di informazioni che mi arrivano dai sensi. Il problema era capire come mai queste proprietà che sono insieme nel soggetto sono insieme anche nella mia testa. Dove sta la connessione?
In entrambi i casi però c’era un problema
Nel conoscere qualcosa, l’unico elemento irriducibile all’oggetto è
l’unità - è il fatto che sia un
concetto.
L’unità è l’unico elemento che l’oggetto non riesce a passarmi, è un
elemento irriducibile all’oggetto che proviene dal soggetto. È il
soggetto cioè che traccia i confini tra le proprietà che
appartengono a quell’oggetto e agli altri. L’unità è inattingibile per
l’oggetto, quindi proviene dal soggetto.
Il soggetto ha la capacità di comporre, ridurre o sintetizzare nel suo punto di vista la molteplicità delle percezioni, e lo fa rispetto ai singoli oggetti. Lo fa perché questa struttura unificante e sintetica e la struttura della soggettività trascendentale. Quando noi guardiamo al soggetto, la struttura logica trascendentale che è la Ragion Pura, troviamo un centro di sintesi, un punto di sintesi che si esprime nelle diverse facoltà che riconosciamo al soggetto.
L’intelletto si esprime in forme particolari di sintesi delle categorie, che dunque sono espressione della struttura sintetica originaria del soggetto che si chiama io penso. L’io penso è la soggettività trascendentale.
Non è:
È un’azione sintetica originaria. Il soggetto secondo Kant è
questa funzione sintetica originaria che è il centro propulsivo di tutta
la nostra sensibilità, che si esprime in diverse maniere e in diversi
ambiti, e affonda le sue radici in un punto preciso, l’Io Penso. Kant lo
chiama unità originaria, appercezione trascendentale -
appercezione in Leibniz era la percezione che riferiva al soggetto le
sue stesse percezioni, un soggetto trascendentale.
In questo l’appercezione è consapevole perché è quel tipo di operazione
logica che è la condizione di possibilità di ogni mia
rappresentazione.
Dice Kant: l’Io penso deve poter accompagnare ogni mia
rappresentazione. Questo significa che l’Io Penso è l’ultima
condizione a priori della possibilità del mio rappresentare - la
struttura sintetica originaria, senza la quale io non penserei.
Tutto ciò significa che se non ci fosse l’Io penso io non avrei unità rappresentative tutte distinte, rappresentazioni distinte che posso distinguere, e non avrei la coscienza in cui queste rappresentazioni si unificano come mie rappresentazioni.
Io penso che… Io penso che… è la premesse implicita di ogni nostro pensiero. Ogni nostro pensiero cioè si riferisce all’unità della nostra coscienza. Noi siamo soggetti perché abbiamo un polo unificatore grazie alla quale possiamo avere dei pensieri. Senza l’io penso noi non potremmo dire a quale coscienza unitaria si riferisce il rappresentare. È a partire dall’Io penso che si dirama la capacità sintetica che si esprime nelle diverse facoltà.
Quindi, con quale legittimità le categorie pretendono di riferirsi agli oggetti fuori di noi? Risposta: senza le categorie noi non potremmo avere degli oggetti, sono le condizioni con cui qualcosa può darsi per un soggetto.
Senza le categorie non potremmo comporre le nostre percezioni nel concetto di un ente che ha quelle proprietà. Non potremmo cioè unificare, sintetizzare le percezioni. La regola di sintesi è la categoria di sostanza, la prima delle categorie di relazione.
Quando dico che questo è un tavolo, sto dicendo che questo tavolo è una serie di intuizioni empiriche tenute sotto la regola sintetica della sostanza, che mi dice che quelle categorie permangono. Infatti la definizione classica di sostanza (aristotelica) è ciò che permane al variare degli accidenti.
Il fuoco causa il fumo. Ho messo insieme una serie di intuizioni empiriche (colore, odore, ecc.) grazie alla categoria di sostanza, idem per il fumo. Poi ho unito attraverso una regola sintetica questi due oggetti, in un rapporto di successione necessaria non invertibile, secondo la causalità, la seconda categoria di relazione. Questo altro non è che un modo in cui il mio intelletto impone una regola del tutto a priori a quei fenomeni.
Mettiamo in evidenza il fatto che gli oggetti a cui ci stiamo riferendo sono fenomeni, poli a cui si rivolge la mia sintesi condizionati dalle forme a priori della sensibilità.
Ho sempre a che fare con sintesi che si applicano a materiale dato; le mie categorie si applicano come regole di sintesi alla mia sensibilità.
Le intuizioni senza concetti sono cieche, i concetti senza contenuto sono vuoti. Le categorie senza concetti sono cieche, i concetti senza categorie sono vuoti.
Se io ho le intuizioni ma non ho la categoria con cui unificarle sono come il soggetto lockiano, che non riesce a trovare il fondamento che le tiene insieme in un concetto unico; la categoria, se non si applica a intuizioni, è vuota. L’io penso ha bisogno di riempire queste rappresentazioni, che come regole di sintesi devono avere un materiale da sintetizzare.
Le categorie, in generale, sono espressioni particolari dell’Io penso. Le categorie hanno un impiego adeguato quando si riferiscono alle intuizioni empiriche - quando non si riferiscono alle intuizioni empiriche, sono concetti vuoti, che non mi dicono nulla di qualcosa di reale e di dato. Mi dicono qualcosa di qualcosa che non posso nemmeno sapere se c’è - l’unico modo che ho per sapere se qualcosa c’è è intuirlo.
1773 Kant scrive L’unico argomento possibile per la dimostrazione dell’esistenza di Dio, affermando un principio che rimarrà discusso in tutta la filosofia occidentale. Se io voglio parlare di qualcosa, o lo costruisco, o lo devo incontrare nell’esperienza. L’esistenza è una posizione assoluta, cioè un fatto - non la posso dedurre da un’analisi concettuale. Kant smonta così l’argomento ontologico.
Se io ho 100 talleri, che posso analizzare perfettamente nel mio concetto, questi continueranno a non essere reali. E questo vale per tutti gli oggetti della metafisica. Di questi oggetti posso dire qualcosa soltanto nella misura in cui si conformano alle condizioni della possibilità di essere oggetti per me, cioè di venire intuiti.
Risultati deduzione trascendentale delle categorie:
Intuizione empirica:
Così si costruisce il fenomeno. I fenomeni sono gli oggetti della mia esperienza.
L’io penso è il soggetto trascendentale, che non va confuso con il
soggetto empirico, il soggetto capace di farsi fenomeno - quello
dell’analisi introspettiva in senso lockiano. Quando vedo dentro me
stesso e vedo tutti i miei desideri ecc. Io mi comporto
introspettivamente come mi comporto nei confronti degli oggetti fuori di
me, intuendomi nel tempo e mettendo insieme queste intuizioni sotto la
categoria della sostanza.
La soggettività empirica è quella che mi rende oggetto del mio
conoscermi.
Kant dice: il mio sistema filosofico si chiamerà idealismo trascendentale. L’idealismo trascendentale concilia le posizioni dei razionalisti e degli empiristi. Tiene insieme un sapere certo a priori con un sapere fecondo a posteriori.
Che cosa vuol dire idealismo trascendentale? Kant dice che ci sono esempi di idealismo prima di lui:
Il suo idealismo è il migliore perché riconosce la realtà soltanto ideal delle forme pure a priroi della sensibilità. Spazio tempo e categorie prese in se stesse non sono che idee, non sono altro che una mia intuizione pura.
Sbagliava Newton a dire che spazio e tempo erano dei contenitori - non hanno una realtà indipendente dai fenomeni- e non sono neanche dei fenomeni per cui concepisco dei rapporti tra le cose che in realtà non sussistono, come volevano i leibniziani.
Sono rappresentazioni che diventano reali quando vengono applicate a degli oggetti dell’esperienza. Quando dico che qualcosa si trova nello spazio e nel tempo, voglio dire che quella cosa si dà realmente nello spazio e nel tempo. Nell’esperienza le forme a priori sono reali; quando dico che due cose sono in un rapporto di causalità non sto dicendo come Hume che questa è solo una mia maniera di vedere le cose, ma sto dicendo che posta la condizione che mi muovo in condizioni empiriche cioè nell’esperienza, quelle categorie hanno una realtà effettiva e sono dimensioni concrete e tangibili dei fenomeni. Non sono le cose in sè, ma sono le cose per come possono darsi in quanto oggetti della conoscenza.
La conoscenza deve conformarsi alle regole del soggetto, ma conformandosi non perde la realtà oggettiva che perdeva nei sistemi fenomenistici. Sto dicendo che nel mondo dei fenomeni, l’unico orizzonte del mio conoscere, tutte le strutture che le rendono possibile sono reali - quel mondo è possibile perché io come soggetto lo strutturo impiegando le mie forme a priori. Lo posso fare solo nella misura in cui - momento che Hegel vedrà benissimo - l’incontro tra il soggetto e qualcosa di completamente trascendente al soggetto, non riesco ad accedere ad altro se non come fenomeno.
Il problema della filosofia di Kant va concepito in questi termini: non c’è una realtà vera inattingibile dal soggetto, ma la cosa in sé va concepita come concetto limite, cioè il punto verso il quale la mia ricostruzione del modo in cui si forma la conoscenza arriva senza poterlo valicare come premessa fondamentale affinchè la mia mia sensibilità si mette in modo. C’è un qualcosa di irriducibile, ma di cui io posso rednere conto solo fenomenizzandolo
Il realismo trascendentale è realismo empirico, è quello dei
razionalisti, che pretende di dire come sono le cose in sé,
indipendentemente dal fatto che siano cose per un soggetto. Cosa in sé
significa cosa non considerata dal soggetto, cioè come polo di una
polarità inscindibile tra soggetto e oggetto.
Se io penso di poter dire qualcosa dell’oggetto fuori dalla polarità
soggetto-oggetto non ho gli strumenti per farlo, è impossibile.
La cosa in sé va dunque concepita come un concetto
limite.
Se nella prima critica la cosa in sé era un x, nella seconda edizione
della Ragion Pura.
Per Kant il fenomeno non è sede di una parvenza, di un’apparenza mutevole; è l’unico spazio per una conoscenza certa. Ciò che è intuibile non copre tutto lo spazio del pensabile.
L’intelletto, che applica le proprie regole alle intuizioni
empiriche, è un intelletto che conosce.
Intelletto: concetto + intuizione.
Io posso pensare anche rappresentazioni che non esistono; ma se io pretendo che quelle rappresentazioni siano conoscenze, dovrò trovare il modo di riempire quelle rappresentazioni. Solo l’intuizione mi garantisce la sussitenza di qualcosa. Questo se pretendo, come i metafisici, che il mio pensiero sia un pensiero certo, cioè se voglio che il mio pensiero sia qualificato come conoscenza.
Nella dialettica quindi avrò sì a che fare con parvenze, perché non avendo intuizioni legate all’esperienza, vado per campi, mi muovo in zone che non sono verificabili.
Dirà Kant nella Prefazione ala prima critica: la ragione deve entrare nel mondo tenendo per mano la fiaccola delle forme a priori e nell’altra il bastone dell’esperimento. Il mondo dei fenomeni è il mondo della conoscenza per me, il mondo della natura è il mondo dei fenomeni così come si danno al soggetto, un mondo che si dà in modo uguale a tutti i soggetti.
prox recupero giovedì mattina dalle 9 alle 11.
Deduzione è un termine che Kant usa in senso non logico - non è l’operazione che mi consente di inferire, ma caratterizza in senso giuridico: si tratta di sondare la pretesa legittimità di qualcosa. La pretesa presa in esame da Kant è quella delle categorie; da un lato la convinzione che le categorie siano le 12 regole di sintesi del molteplice (deduzione metafisica, che abbiamo visto procedere a partire dalla tavola dei giudizi); e poi la pretesa di riferirsi agli oggetti fuori di noi (deduzione trascendentale).
A fondamento dell’attività sintetica dell’intelletto sta un’attività trascendentale, che rende possibile.
Nel caso della deduzione trascendentale la legittimità è provata a partire dal fatto che senza categorie non sarebbe possibile rappresentarsi alcunché. Le categorie sono condizione della possibilità delle cose di apparire per noi.
Abbiamo visto come Kant riconosca a Locke il merito di aver capito che in mancanza di una supposizione del soggett (Locke), o comunque di un contributo del soggetto, c’è almeno un elemento che riconduco all’oggetto che non sta nell’oggetto: il fatto che è l’unico.
Il secondo passaggio della deduzione trascendentale è che gli oggetti che si danno in questo modo sono regole di sintesi
Le categorie sono regole di sintesi a patto che questa sintesi non sia vuota ma si rivolga a intuizioni empiriche, cioè spazializzate e temporalizzate. Questa parte della logica analitica è seguita da una parte che si chiama Analitica dei principi.
L’analitica dei principi è la parte della Logica Trascendentale in cui Kant spiega una questione fondamentale: è vero che le categorie devono fungere da regole di sintesi dell’intuizione empirica, ma come possono degli oggetti intellettuali riferirsi a intuizioni sensibili, se sensibilità e intelletto sono facoltà geneticamente differenti
facoltà della ricettività che produce intuizioni intelletto: facoltà della spontaneità che produce concetti
Come possono queste due cose così eterogenee applicarsi l’una a l’altra? Qualcosa deve fungere da elemento di collegamento. Kant individua nell’immaginazione produttiva la facoltà mediana tra sensibilità e intelletto. L’immaginazione è una facoltà trascendentale, contiene dei principi a priori in grado di mediare tra sensibilità e intelletto. E come fa l’immaginazione a mediare? Si serve di un elemento immediato come la sensibilità, ma puro come le categorie: il tempo.
Il tempo è forma a priori del senso interno, intuizione pura, forma a priori di tutte le mie rappresentazioni - in questo senso prioritaria. Il tempo è il candidato ideale per fungere da cerniera tra le intuizioni sensibili e il concetto intellettuale.
L’immaginazione determina il tempo a priori, cioè stabilisce a priori delle modalità temporali in cui devono darsi le intuizioni empiriche per poter essere comprese sotto i concetti. Questa determinazioni a priori del tempo che l’immaginazione produce sono chiamate da Kant schemi trascendentali.
Gli schemi sono delle rappresentazioni. Sono tutte forme rappresentative, cose che hanno una natura ideale. Sono rappresentazioni che mi dicono quale regola la mia intuizioni devono seguire per potere essere ricomprese sotto una categoria.
Lo schema è un prodotto dell’immaginazione. Se io penso allo schema del triangolo, penso a quella determinazione che io devo dare alla mia forma a priori dello spazio per poter costruire una figura che abbia tre lati, tre angoli, e sottostia alle regole che io voglio che abbia. Lo schema è la regola che mi dice come devo procedere quando devo fare qualcosa. Insieme di regole che io assumo per stabilire qualcosa.
Lo schema del triangolo non è un immagine del triangolo. Nella nostra ragione sta la capacità di determinare a priori quali devono essere le proprietà specifiche che qualcosa deve avere affinché io possa riconoscere qualcosa come appartenente a quella specie.
Ma finché si tratta di esemplari - come un cane - io ho un ausilio specifico, che sono le immagini; ma quando io ho a che fare con concetti puri come la sostanza, che non sono esprimibili in immagini - gli schemi diventano regole, che devono stabilire la successione temporale in cui devono darsi le intuizioni affinché quel concetto possa applicarsi.
Così, quando io dico o concepisco qualcosa, la mia immaginazione determina a priori la permanenza di tutte le intuizioni empiriche; affinché io possa applicare la regola di sintesi a un insieme di intuizioni empiriche, ho bisogno che l’immaginazione le determini tutte a priori in un unico tempo.
Quando l’immaginazione determina a priori che tutte quelle determinazioni empiriche permangono, cioè stanno nel medesimo momento, il mio intelletto riesce ad applicare la categoria di sostanza. Per esempio, quando io mi rappresento questo tavolo come una sostanza, io ho una moltitudine di intuizioni empiriche legate alle percezioni delle singole qualità: forma, colore, peso e altezza; la mia immaginazione produttiva stabilisce del tutto a priori che questo qui e ora è un qui e ora permanente - che non vengono meno, non cambia il tempo in cui si danno. Ma sono rappresentazioni che devono darsi tutte sempre, cioè nel medesimo tempo.
Una moltitudine di intuizioni empiriche sintetizzate dall’immaginazione come appartenenti al medesimo tempo, si può sigillare questa intuizione con la categoria della sostanza. La so Def. kantiana di sostanza: la sostanza è una sintesi di intuizioni empiriche determinata a priori sotto lo schema della sostanza (?).
Altro esempio: quando io dico che tra due fenomeni vige un rapporto di causa-effetto, come procede nell’intelletto su due fenomeni, su due sintesi, intuizioni empiriche che sono il fuoco e il fumo. Intelletto si trova di fronte questi due fenomeni mediati dallo schema della successione: l’immaginazione determina a priori che tra questi due fenomeni si dà una successione temporale in un’unica direzione. Solo a questa condizione, soltanto se l’immaginazione ha provveduto a determinare a priori la successione temporale io posso concepirli in un rapporto di successione.
Questo tipo di successione o permanenza, stabilito dall’immaginazione a priori, è un tipo di lavoro non empirico - non ha nulla a che fare con il fatto che ne percepisca prima uno e poi un altro.
Immaginiamo una casa. Il fatto di conoscere una casa non ha nulla a che fare con la successione delle mie percezioni. Questo tipo di percezione è possibile perché in un piano più fondamentale, non empirico ma trascendentale, io ho già costruito l’ente casa - e il fatto che tutti questi elementi stiano in una permanenza, cioè in una determinazione temporale a priori, fa sì che io possa procedere in tempi diversi componendo i vari elementi.
Questo lo posso fare perché dal punto di vista trascendentale tutte le intuizioni empiriche devono, per poter essere, essere permanenti, darsi sempre nello stesso modo. Se così non fosse, io non potrei considerare quella casa com’è. La maniera in cui io descrivo la casa o ne conosco le varie particolarità, è possibile perché in un prima logico, e non temporale, io ho fatto sì che quello fosse un oggetto. Se quella casa, come qualsiasi oggetto, non fosse prima stato strutturato dalla soggettività, non si potrebbe dare a un esame empirico.
Questa è la ragione per cui l’Io kantiano è un Io puro, ossia una soggettività che stabilisce le regole a cui le regole devono sottostare affinché possano essere delle cose per me - è l’Io trascendentale che determina che se un oggetto deve essere un oggetto per me deve essere concepito come una sintesi di intuizioni empiriche sotto lo schema della permanenza, quindi sotto la categoria della sostanza.
In qualsiasi oggetto empirico poi, prima di poter affermare qualsiasi cosa riguardo a quell’oggetto io devo disporre di un oggetto per me. Quindi abbiamo una prima fase, che è quella dell’incontro fa il soggetto e qualcosa che può diventare qualcosa per il soggetto soltanto se viene spazio-temporalizzata - e questo è il livello delle intuizioni empiriche.
Queste intuizioni empiriche subiscono un primo processo di sintesi attraverso l’immaginazione, che le determina a priori in un tempo; e solo a quel punto possono essere sintetizzate sotto la regola pura di concetto intellettuale che esprime i rapporti di relazione, totalità, qualità di vario genere eccetera.
È per questo che la logica trascendentale, i principi a priori dell’intelletto sono prioritari rispetto alla logica generale. La logica trascendentale viene prima della logica generale.
È possibile un solo schema per categoria. Ogni categoria ha bisogno di una traduzione che faccia da cerniera, qualcosa che traduca la regola della categoria in un linguaggio comprensibile alla ragione, e questo è il tempo.
Quando guardo alle cose dal punto di vista trascendentale, io guardo a quella struttura che la realtà empirica deve avere che è a fondamento di tutte le mie rappresentazioni. La filosofia trascendentale mi spiega come il fatto che io veda le cose in un certo modo è possibile perché prima che le cose mi si diano in quel modo lì ho imposto alle cose una “deformazione”.
La casualità è un rapporto in cui uno dei due elementi - la causa - deve necessariamente venire prima dell’altro. La causa, producendo l’effetto, deve necessariamente essere presente prima.
Abbiamo una struttura fondamentale stabile della realtà e una veste, che l’intelletto non può determinare a priori, che è irriducibile, che va a nutrire la “stortura” fondamentale della realtà.
Nel lavoro scompositivo, la rappresentazione fondamentale è quella delle sostanze. Se uno dovesse stabilire un ordine nella costruzione per Kant, diremmo che la categoria di sostanza è la più importante, dato che rende possibile la comunicazione tra enti.
Le categorie mi spiegano come io formo il fenomeno come frutto di una molteplicità di qualità che stanno insieme.
Le categorie della qualità e della quantità mi consentono di parlare di ogni fenomeno in termini matematici, perché sia dal punto di vista della quantità che della qualità io posso sempre pensare al fenomeno come un qualcosa che si produce in una maniera che io posso esprimere in termini matematici.
Posso esprimere le qualità del fenomeno in termini di quantità, perché le qualità mi appaiono sempre secondo una scala; quando dico che un fenomeno ha una determinata qualità, che io posso percepire come spazio puntualizzato, dirò che questo fenomeno ha qualcosa che si manifesta per me e che in una scala da 0 sale può essere misurato e confrontato.
Quindi le qualità delle cose, e non soltanto le loro quantità sono esperibili in termini matematici, perché le qualità delle cose si manifestano sempre secondo un grado, una forma di qualità intensiva e non estensiva.
La categoria della quantità, che mi dice che un fenomeno è una quantità estensiva, cioè si dà sempre nello spazio.
L’ordine temporale con cui intervengono le categorie è una domanda a cui è difficile dare una risposta. Non c’è un punto della critica in cui Kant parla dell’ordine.
Ad esempio, il numero è lo schema della categoria della quantità; ossia io posso applicare la categoria della quantità a qualche riflessione se seguo la regola del numero, quello schema che mi dice che devo poter ridurre le quantità a unità omogenee.
Come faccio a sapere che 5 + 7 = 12? Perché quanto faccio un’operazione algebrica di qualsiasi tipo parto da un’unità data, per poi aggiungere una serie di quantità omogenee secondo una regola. La successione delle quantità omogenee che o deciso di addizionare alla mia prima quantità.
Nel caso delle qualità, lo schema è il grado, che mi dice che secondo una determinazione
Quando dico che qualcosa ha una qualità dico che ha una qualità tale per cui io lo percepisco - se dico che non ha una qualità, dico che non ha una proprietà a un grado tale da poter valicare i confini della mia percezione - e in questo senso la mia conoscenza è conoscenza
Quando dico che a un certo ente compete una proprietà non dico che è
una proprietà dell’ente in quanto tale, ma che è una proprietà dell’ente
per me.
Quanto al fatto che quella proprietà compete o meno a quell’ente in
assoluto, non posso esprimermi.
Realtà, esperienza e conoscenza in Kant sono la
stessa cosa.
Io posso dire che è reale soltanto ciò che si dà; posso dire che è reale
soltanto ciò che io conosco. Realtà e conoscenza sono i confini del
mondo fenomenico, cioè della mia esperienza.
Io conosco - cioè metto insieme concetti e deduzioni - soltanto cose che si danno per me.
L’esperienza è il dominio della conoscenza, e l’esperienza è l’unica realtà possibile, perché l’esperienza è quella zona in cui io strutturo le cose a priori in modo tale che mi appaiano.
Per Kant il sapere è il sapere della scienza, il sapere universale e necessario che mette d’accordo tutti gli esseri razionali. È un sapere che mette insieme intelletto e ragione.
Quando si va oltre il confine dell’esperienza, lo spazio della storia, della religione e della morale - lo spazio di tutte le cose che non sono matematizzabili.
Nella Critica della Ragion Pura Kant ci fornisce una solida epistemologia, dicendo che l’esperienza è l’unico spazio in cui posso esercitare e raggiungere la conoscenza.
La ragione ha anche dei problemi che non può eludere, ma non può risolvere: i problemi delle metafisiche speciali, che riguardano “il senso della vita”.
L’epistemologia è il pezzo fondamentale della filosofia critica. Una
volta che Kant ha spiegato quali sono i criteri del sapere, deve
affrontare tutte le cose che la ragione non può affrontare. Tutte queste
cose richiedono un uso della ragione diverso. Si può parlare di sapere
propriamente detto soltanto se si parte dalle condizioni
conoscitive.
L’intelletto si trova in una bilancio che oscilla tra certezza del
sapere e la speranza.
Kant smonta la convinzione che le conoscenze della metafisica devono
avere la stessa necessità che hanno le altre conoscenze; non è così ma
ne parleremo.
Finiamo la metafisica generale, o scienza dell’esperienza. Abbiamo fatto
L’ultimo passo della Logica kantiana, quindi della Analitica, riguarda i principi puri dell’intelletto puro.
Uso dell’intelletto tra categorie schemi e principi, c’è un rapporto di assoggettamento progressivo. Gli schemi vengono prima delle categorie; le categorie vengono prima rispetto ai principi e rendono possibile la loro applicazione - ma se non ci fossero i principi non avrei i materiali a cui applicare l’esperienza.
La tavola dei principi puri dell’intelletto rappresenta la tavola fisiologica del mondo, ossia una tavola in cui stanno i principi fondamentali che l’intelletto incontra.
Nell’intelletto stanno le regole pure a priori che si impongono a quel materiale dato irriducibile e che costituiscono le scheletro trascendentale della realtà.
Kant chiama questo schema trascendentale della natura la natura formaliter considerata, cioè considerata dal punto di vista formale. Va pensata come una struttura fondamentale che sta sotto tutto ciò che connette i nostri sensi.
La tavola fisiologica dell’intelletto la troviamo nell’ultima parte dell’analitica, ed è quadripartita, come la tavola delle categoria, come il gruppo degli schemi.
Quali sono le regole generalissime che attraverso gli schemi e le categorie si applicano alla natura e hanno la loro radice nell’unità originaria?
Il primo principio dell’intelletto puro, che riguarda la categoria della quantità, Kant li chiama assiomi dell’intuizione, quelle certezze che assumo in ogni intuizione e dalle quali segue ogni considerazione che posso fare circa gli oggetti dell’intuizione. Questi sono quelli che mi dicono che tutti gli oggetti dell’esperienza, se vogliono essere oggetti dell’esperienza devono essere se non è una quantità estensiva, cioè non è possibile che qualcosa pretenda di essere un oggetto per me se non occupa uno spazio.
Locke aveva detto che il corpo era uno strumento fondamentale per far entrare le idee nella mente, e Kant si muove su questa strada profondamente anti-cartesiana, e dice che qualsiasi oggetto di conoscenza deve essere concepito come una qualità estensiva. Nulla di ciò che si sottrae al giudizio può essere oggetto di conoscenza.
Non è possibile che qualcosa voglia essere oggetto per me se non mi si manifesta in un grado tale che io possa vederlo o sentirlo.
Kant dice che ci sono soltanto 3 maniere in cui io posso concepire i fenomeni:
Se qualcosa deve essere un oggetto per me, oltre a essere nello spazio e avere della qualità che posso percepire, deve essere collegato con tutto il resto dell’esperienza, la cui unitarietà è determinata dal soggetto.
È necessario che un oggetto per me sia con il resto della mia esperienza in un rapporto di connessione necessaria.
Riguarda il pensiero empirico in generale.
Ci sono delle affermazioni che io non posso dimostrare e che assumo in tutto il mio pensiero.
Tutte le volte che mi trovo a che fare con oggetti che non si accordano con una delle 3 condizioni, qualcosa non va.
Da quando gli uomini hanno iniziato a studiare la natura, sono tutte maniere di spiegare il funzionamento della realtà che presuppongono a loro fondamento una struttura formale trascendentale della natura.
Non sarebbe possibile la fisica se non ci fosse una soggettività trascendentale che organizza la realtà in un modo tale che si può descrivere la sua struttura.
I concetti fondamentali dell’ontologia, su cui costruiamo la nostra realtà, sono leggi che il soggetto impone e hanno validità solo nella misura in cui sono concepiti come parti di una realtà empirica. Sono cioè concepiti come concetti necessari affinché la realtà possa essere la realtà per me.
Idealismo trascendentale e realismo empirico. Tutti questi principi non sono che rappresentazioni, manifestazioni, pensieri di una soggettività. Non hanno nessuna realtà in sé.
Le forme sono reali empiricamente. Il fenomeno nell’esperienza è un oggetto vero, non è una mera visione.
La logica della verità (analitica) si conclude con l’ultimo gruppo di regole che governano l’utilizzo delle categorie, l’utilizzo di quei principi di sintesi validi nella misura in cui vengono applicate a delle intuizioni empiriche, cioè a un elemento dato alla ricettività della sensibilità. Questi principi rappresentano lo scheletro di ogni concezione pura della natura, cioè una che guarda soltanto alle condizioni formali date all’interno della soggettività trascendentale; cioè nel soggetto stanno le forme di rappresentazione del dato sensibile che appartengono al soggetto del tutto a priori e hanno una natura del tutto pura sulla quale si costruiscono le strutture portanti del nostro modo di intendere la natura.
Natura è l’insieme dei fenomeni. In Kant le nozioni di natura, esperienza e conoscenza sono coestensive e assolutamente equipollenti.
oggetto conoscibile = fenomeno Allo stesso modo possiamo dire oggetto e fenomeno allo stesso modo, consapevoli di come il fenomeno è sempre una rappresentazione del soggetto che si riferisce a un elemento irriducibile al soggetto stesso, il dato dell’esperienza.
La tavola dei principi puri dell’intelletto considera la natura da un punto di vista formale, cioè la maniera in cui deve darsi un oggetto affinché possa diventare un oggetto di conoscenza per il soggetto. La tavola con i principi presenta le condizioni a priori della possibilità del darsi della natura. Non sarebbe nulla che noi chiamiamo natura se non si assoggettasse a quelle regole che in maniera del tutto a priori sono imposte dal soggetto.
Queste 4 voci della tavola dei principi - assiomi dell’intuizioni, anticipazione della percezione, analogie esperienza, postulati opensiero empirico in generale, mi dicono come deve essere aftto qualcosa epr entrare nella mia esperienza, cioè deve essere:
quantità intensiva: qualcosa che si dà necessariamente nello spazio. La quantità quando è riferita alle proprietà degli oggetti. Quando mi trovo di fronte a qualcosa che pretende di essere oggetto della mia conoscenza devo presupporre che tocchi la mia sensibilità, e per toccarla deve avere delle proprietà che superano la mia soglia di attenzione. Quando affermo che un oggetto non gode di certe prorpeità, non sto affermando nulla sullee prorpietà di quell’ oggetto, ma sto dicendo che io non la possiedo in un grado sufficiente a superare la soglia della mia percezione. Questo è l’atteggiamento dell’idealismo, che predica delle cose proprietà cosniderando le cose come oggetti della coscienza, e non in quanto cose in sé, che godrebbero di un patrimonio di qualità anche senza un soggetto in grado di individuarli
analogia dell’esperienza: qualsiasi oggetto che si candida a diventare oggetto ci conoscenza deve necessariamente essere percepito come un ente o come una prorpietà di un etne, essere in un rapporto di causalità con eventi recenti, e rapporto di comunanza governato da leggi omogenee con tutti gli altri fenomeni. Non può darsi un oggetto se non rispetta questo tipo di relazioni. Non esistono ontologie settoriali che si sottraggono a rapporti di dipendenza con altri tipi di esperienza.
postulati empirico in generale: qualsiasi oggetto che si candida
deve accordarsi necessariamente alle condizioni formali dell’esperienza,
cioè che ci siano quantità intensive e legami di dipendenza e comunanza
tra i fenomeni. Se si accorda a queste condizioni, questo oggetto è
possibile.
Quando in un’indagine scientifica chiamo in casa un elemento come causa
dei fenomeni, occorre che questo elemento si accordi alle condizioni
formali dell’esperienza. Ciò accade quando formuliamo delle possibili
soluzioni a determinati problemi. Ipotizzo che ci sia un ente che è
causa di quel determinato fenomeno, anche se non l’ho esperito. Se poi
quell’elemento mi si dà anche in maniera concreta e lo esperisco, allora
è reale - la realtà di qualcosa può essere confermata soltanto dalla
ricettività sensibile - soltanto dalla mia intuizione possibile. Non
posso intuire un ente che si sottrae alle determinazioni
spazio-temporali. La prova ontologia in questo senso è contraddittoria,
in quanto prova a dedurre l’esistenza, che però è una posizione
assoluta. L’esistenza non si dimostra, è sempre legata alla percezione
sensibile, cioè all’intuizione. Esistono soltanto enti
spazio-temporalizzati, solo di loro posso predicare
l’esistenza.
Quando un oggetto mi si dà nell’esperienza e risponde alle condizioni formali della natura io posso dire che un ente è necessario, cioè non potrebbe non esserci. Quando di fronte a un fenomeno ho l’intuizione empirica e la conoscenza del rapporto che lo lega con tutti gli altri fenomeni, quel fenomeno lì è anche necessario. Quando dico che il fumo segue il fuoco dico che il fenomeno non potrebbe non darsi nella misura in cui si accorda con le categorie formali e materiali dell’esperienza
Le categorie modali, realtà, possibilità e necessità sono stabilite a priori dalla struttura del soggetto. Le categorie modalità sono sempre attribuite alla modalità e all’esistenza dell’oggetto, nel contesto dell’idealismo trascendentale è sempre determinata a priori dalla struttura del soggetto. Per affermare la necessità di qualcosa devo vedere come si colloca all’interno della struttura formale del reale che costituisco io stesso, per questo sono un Io legislatore - le leggi che pongono riguardano soltanto l’aspetto formale della natura - come dovrà essere il fenomeno per fare sì che io lo potrò incontrare. Come sarà il fenomeno me lo dirà l’esperienza.
Intelletto styabilisce quali devono essere le regole a cui le regole devono conformarsi afficnhé io possa conoscerla con ceretzaa. Si delimitano i confini del sensibile.
Che cosa posso sapere? Qual è lop spazio in cui posso muovermi
per seguire il percorso sicuro della scienza? L’Analitica risponde
a questa domanda. Il cammino della conoscenza è delimitato dai confini
dell’esperienza. Questa, il mondo fenomenico, è il mondo reale, il mondo
della fisica. È lì le mie condizioni ono molto precise.
Che cosa devo fare? Cosa mi è lecito
Nell’Antropologia - testo tardo del ’98 - Kant dice che queste tre domande possono essere compendiate in un’unica: che cos’è l’essere umano, cioè quali sono gli ambiti in cui mi posso muovere con certezza.
La fisica è una scienza come la matematica, confinata al mondo fenomenico e si basa su giudizi sintetici a priori, cioè è un sapere necessario.
Arrivato fino al minuto 23.34.
Kant distingue due usi della ragione:
Le tre idee: l’oggetto delle metafisiche speciali:
Queste tre idee sono il prodotto di una forma di operazione specifico della ragione. Vengono chiamate idee in riferimento esplicito a Platone. Il quadro è quello del rappresentazionalismo cartesiano: le idee non sono fuori dl mondo, ma sono rappresentazioni che non lasciano nulla fuori di sé e possono essere considerate degli assoluti, e hanno al loro interno tutte le loro possibili specificazioni.
Idea di cosmo è la totalità inconidizonata di tutti i fenomeni in generale Idea di Dio è la totalità incondizionata di tutte le condizioni di qualsiasi oggetto in generale, di tutto ciò che è pensabile, esperibile, ecc. e può diventare oggetto per noi.
Intento della dialettica è mostrare che quando la ragione procede avvicinandosi ai contenuti che produce con un atteggiamento speculativo, cade inevitabilmente in una illusione, una illusione trascendentale: si distingue dall’illusione dei sensi e delle fallacie logiche nel senso che è una parvenza inemendabile, cioè di fronte alla quale la ragione, pure se avvertita, ci crede sempre.
Le metafisiche tradizionali nelle loro tre componenti si pretendono scienze certe, cioè sedi di saperi oggettivi, universali e necessari. Fine della dialettica è mostrare che dal momento che il sapere certo oggetto della scienza deve necessariamente procedere a partire da giudizi sintetici a priori, nella metafisica questi giudizi vengono stabiliti violando la regola che Kant aveva stabilito nella deduzione trascendentale, cioè quella che limitava l’uso delle categorie solo esclusivamente ai dati intuitivi, cioè il materiale della sensibilità. Se non si riferiscono a questo materiale le categorie sono concetti vuoti e non possono dirmi nulla sull’oggetto.
Le tre parti della Dialettica ci fanno vedere come gli stessi procedimenti dei metafisici (Wolff, Cartesio, Leibniz) fossero basati su giudizi sintetici a priori. Credevano che le loro conoscenza circa il cosmo Dio ecc. Fossero assolutamente certe perché fondate su giudizi analitici, Kant svela che i loro giudizi erano in realtà sintetici, ma utilizzati in maniera inadeguata.
Nella metafisica speciale psicologica, la scienza dell’anima, questi arrivano a formulare delle tesi in merito alla natura dell’anima:
Il punto di partenza era il cogito, l’intuizione immediata dell’essere pensanti, cioè del pensare. La metafisica e la logica di Wolff iniziano con questa affermazione - ognuno di noi è certo del fatto che pensa, e questo non può essere in dubbio da nessuno che non voglia instaurare un dubbio scettico.
Nella critica di Kant questo argomento di Wolff viene detto argomento del cogitamus, perché se in Cartesio avevamo un procedere individuale e soggettivo - un soggetto che afferma delle cose rispetto a se stesso e poi le allarga per analogia - a rigor di logica le affermazioni di Cartesio riguardano soltanto il soggetto - di cui il problema del solipsismo ecc.
Wolff allarga la prospettiva in una cornice intersoggettiva - ognuno di noi parte da questa prima certezza, quella del pensare, e da questa derivano del tutto a priori una scienza dell’anima: se io penso deve esserci in me qualcosa che ha la capacità di pensare (questo è un giudizio analitico), e se qualcosa ha la capacità di pensare deve essere fatto in modo da poter essere soggetto di pensiero, cioè deve essere:
Queste sono le tesi di ogni metafisica psicologica, che Kant
raccoglie in una tavola, in una topica di ogni psicologia razionale.
Tutti i metafisici che parlano di anima convengono sulla validità di
queste 4 tesi - partono dall’intuizione immediata del pensiero arrivando
a dedurne analiticamente gli altri caratteri che abbiamo appena
visto.
Ma questi giudizi non sono giudizi analitici. Kant
mostra che tutte le volte che io predico la sostanzialità di qualcosa,
l’unità di qualcosa e così via sto pronunciando dei giudizi sintetici.
Queste sono tutte categorie, cose che non mi si danno nell’esperienza,
ma modi in cui io organizzo dei dati empirici. Se mi mancano questi dati
empirici, le regole di sintesi non sintetizzano nulla e sono concetti
vuoti.
La tesi di Kant: le affermazioni della psicologia razionale non sono conoscenze universali e necessarie, perché manca il loro oggetto, che può essere solo dato nell’intuizione.
Nella fattispecie gli psicologi metafisici incappano in questo errore perché sono vittime di un paralogismo - un sillogismo sbagliato - viziato in particolare dal fatto di assumere un medesimo termine con significati diversi. Una ambiguità cioè del termine medio, che andrebbe eliso per passare dalla premessa maggiore alla conclusione. Il sillogismo funziona quando il termine medio è la funzione sotto la quale io ricomprendo il particolare della premessa minore sotto la regola della premessa minore. Ma se questo termine è ambiguo, il sillogismo è fallace.
L’esempio che si porta è quello del rombo: se io dico rombo, non
capisco se sto parlando della figura geometrica o del pesce.
Il termine medio che la psicologia fraintende è il termine
soggetto.
Questa è una parte che cambia molto tra la prima e la seconda edizione.
L’intuizione del cogito implica la possibilità
Non lo predico di altro, ma predico tutto di quell’essere pensante.
Il termine soggetto compare nella prima premessa, nella seconda premessa, ci conduce alla conclusione che lo identifica con la sostanza.
Ma se nella prima premessa il soggetto è il soggetto empirico. Come arrivo io all’intuizione del cogito con una intuizione empirica, con una introspezione, nella seconda il soggetto è il soggetto trascendentale, che non si dà nell’intuizione altrimenti diventerebbe fenomenico.
Quando concepisco fuori dall’intuizione l’Io penso, penso a qualcosa che deve accompagnare la mia rappresentazione come una rappresentazioni logica, non come qualcosa che mi si dà nell’intuizione empirica.
Questa ambiguità vizia la forma di questo sillogismo, rendendolo un paralogismo. Posso legittimamente predicare la sostanzialità del soggetto empirico perché opero sulle percezioni empiriche. Unisco le percezioni secondo la regola dell’unità della categoria della sostanza. Posso cioè parlare del soggetto empirico come se fosse una sostanza.
Quando i metafisici predicavano l’unità, la sostanzialità ecc. non si riferivano certo al soggetto empirico. Questo è qualcosa che è necessariamente legato alle condizioni dell’esperienza, una quantità estensiva che io colgo estensivamente, connesso agli altri fenomeni in un rapporto di necessità. Quando i metafisici parlavano dell’anima come condizione ontologica distinta parlavano di un soggetto puro - ma ciò che è puro non è mai fenomeno.
Per questo motivo il loro procedere argomentativo viola le regole
della logica - anche della logica generale che loro assumevano a
garanzia della certezza dei loro ragionamenti.
Idea di anima è una idea della ragione che non può pensare di avere un
corrispettivo fuori dal soggetto. Non c’è un oggetto a cui questa idea
può pretendere di applicarsi. Per questo motivo Kant introduce sì una
deduzione delle idee, ma non una deduzione trascendentale. Nel caso
delle idee la domanda della deduzione è superflua, perché le idee per
definizione non pretendono di riferirsi alla realtà.
Kant vuole svelare la sede dell’illusione. Non è il tentativo di
passare sotto lo schiacciasassi tutte le tesi dei metafisici, ma la
necessità di mostrare come tutti i fenomeni sono incappati in queste
illusioni, che sono inevitabili. In questo senso la critica serve da
farmaco, serve a curare una patologia della ragione.
Occorre trovare il modo di limitare i danni.
Prima di vedere qual è l’uso che la ragione può fare di queste idee - che non può cancellare - vediamo la seconda e la terza idea.
Idea del mondo come totalità è al centro di una delle parti più belle della ragion pura, ed è anche il punto da cui è partito Kant nel formulare la dialettica trascendentale.
Il problema delle antinomie - contrapposizioni tra tesi e antitesi in
cui la ragione si trova ad affermare due cose opposte e contrarie.
Il punto che ha fatto venire a Kant l’idea che i metafisici si erano
ficcati in una strada senza uscita.
Le antinomie sono modellate sulla tavola delle antinomie, dei giudizi, delle regole di sintesi di cui dispone la soggettività trascendentale. Queste antinomie riguardano una sotto la categoria della quantità, nella possibilità di concepire il mondo come un qualcosa, una serie di enti collegati.
Categoria della quantità (quantità intensive):
Questa serie ha un inizio nello spazio e nel tempo, oppure è
una serie che non ha un inizio nello spazio e nel tempo..
Categoria della qualità (quantità intensiva):
il mondo è composto di enti che possono essere ridotti alle loro parti
semplici, oppure no. La scomposizione del mondo è senza
fine.
Queste due prime antinomie - che si chiamano matematiche - sono mosse
dalla stessa idea: ho a che fare con una totalità che è tale perché è
chiusa. Se dico che il mondo ha un inizio significa che c’è un limite,
un punto di partenza; oppure una totalità infinita incondizionata perché
essendo infinita non lascia nulla fuori di sé.
Kant dice: nel primo caso ho il vero infinito, un infinito chiuso;
dall’altro ho un indefinito. Il punto è che non c’è mai nulla che cade
fuori dalla serie e possa comprometterne la proprietà di essere una
totalità incondizionata.
Che faccio, scompongo e non mi fermo mai?
Le antinomìe matematiche sconfiggono la ragione. Sono entrambe false:
sia che io prenda la posizione delle tesi dei razionalisti o dogmatici -
il mondo è finito nello spazio e nel tempo, la materia è scomponibile
fino a un’unità semplice - sia che assuma la posizione dell’antitesi -
il mondo è infinito e scomponibile all’infinito - posizione degli
empiristi e degli scettici, dice Kant - mi trovo ad affermare qualcosa
circa un oggetto che non si dà nell’intuizione.
Il mondo come totalità non si darà mai nell’intuizione, perché questa
esige sempre una condizione che non può essere compresa all’interno
della serie.
Nello studio dei fenomeni - e il mondo è la totalità dei fenomeni - io non posso mai illudermi di arrivare a un punto fermo, e non posso mai illudermi che il non arrivare a un punto fermo possa essere considerato il risultato dello studio di un oggetto che posso assumere come una totalità.
Nello studio dei fenomeni naturali io passo sempre da una causa a un effetto, e questo è il modo di procedere dell’intelletto, che non può mai pensare di arrivare a un punto in cui si rompe il rapporto di causalità / di condizionamento.
L’intelletto non può neanche percepire la totalità dei fenomeni come incondizionata, ,perché trasferirebbe fuori dal principi. L’incondizionato è qualcosa che mi richiede sempre di uscire dal fenomeno. I fenomeni stanno sempre in una condizione necessaria con altri fenomeni. Nonostante la ragione si illuda e abbia delle buoni psicologiche per preferire la tesi o l’antitesi, questa deve essere consapevole che questo non è altro che il germe dell’illusione che si trova nella sua stessa natura.
Deve quindi tenere in una mano l’arma della critica, che le deve ricordare che tutte le volte che si illude di poter trovare un punto fermo nella totalità dei fenomeni si sta illudendo, si sta rendendo vittima di un vizio logico - applicare le categorie a qualcosa che non è fenomeno.
Qui Kant ci dice che tra le due prospettive - quella dei dogmatici dei razionalisti e quella degli scettici - andrebbe preferita quella degli scettici. Lo scetticismo è sì la morte della filosofia, ma è una morte dolce della filosofia, una eutanasia. Ma gli scettici si trasformano in dogmatici e in questo commettono un errore.
Hume per esempio: la causalità è un modo per ordinare l’esperienza. Hume poi però afferma che la sostanza, la causalità e le altre determinazioni metafisiche che attribuiamo agli enti non esistono, cioè non hanno una realtà empirica nei fenomeni.
Questo è ciò che Kant riesce a dire: in quanto tali sono mie rappresentazioni, ma in quanto forme della mia esperienza si danno realmente nel mondo. Hume era partito bene, mantenendosi attaccato all’esperienza - poi però affermando la non sussistenza reale delle categorie ha fatto un’affermazione metafisica: non esistono sostanze.
Tesi e antitesi sono entrambe false, perché sono entrambi tentativi di predicare qualcosa del mondo come totalità incondizionata, cosa che nell’esperienza non si dà.
Nel mondo, accanto alla causalità naturale - la causalità efficiente
- c’è anche una causalità libera, o causalità per spontaneità. Si
incontrano cioè delle serie causali il cui principio non è
determinato.
Nel mondo ho la causalità delle leggi naturali, secondo leggi
meccaniche. Poi ci sono i soggetti, che sono in grado di
auto-determinarsi, è questa è la libertà, libertà dell’arbitrio. Agisco
sulla base di principi che non sono quelli del mondo naturale. Il bene
mi determina ad agire in un modo anziché in un altro. Antitesi: nel
mondo c’è solo causalità naturale. Dall’altra parte ci sono gli
empiristi come Locke e Hume, che dicono: c’è solo la causalità naturale,
ci illudiamo da avere una causalità libera ma anche il nostro agire è
determinato da altri elementi che hanno su di noi un potere causale.
Ci fanno capire che forse occorre sottolineare un fraintendimento
iniziale: tutti questi fenomeni parlano del mondo, ma ne parlano in
maniera ambigua. Intendono per mondo cose diverse. Quando io dico come
fa lo scettico che nel mondo non posso arrivare a un elemento che si
sottrae alla serie della causalità, cioè a un elemento che è a sua volta
legato a un altro come suo effetto, o che nella serie delle contingenze
non possono arrivare a un ente che non è più contingente ma necessario,
costoro stanno parlando del mondo fenomenico, nel mondo naturale come si
dà nella nostra intuizione.
E la natura deve prevedere una serie di enti reciprocamente dipendenti,
che non può ammettere un inizio della serie.
Quindi se io per mondo il mondo dei fenomeni, sono vere le antitesi. Hanno ragione gli scettici in questo caso perché intendono il mondo come un insieme di oggetti per noi.
Ma il mondo fenomenico è l’unico modo che noi abbiamo per intendere il mondo? No. C’è l’esperienza della libertà.
Se io non limito il mio concetto di mondo al mondo fenomenico e penso
a una compatibilità non contraddittoria tra mondo sensibile e mondo
intellegibile, posso introdurre una causalità che non viola la causalità
naturale ma si determina con principi che non violano la
causalità.
Gli esseri umani hanno questa duplice natura, e ne sono consapevoli:
sono dei corpi che rispondono alle leggi dei corpi, ma sono anche
cittadini del mondo intellegibile, un mondo in cui non vige la
causalità efficiente, meccanicistica, dei corpi, ma in cui c’è un
principio di autodeterminazione
Quello che Kant nella Fondazione della metafisica dei costumi, 1785, chiamerà autonomia.
Il principio sulla base del quale la mia volontà viene determinata
dalla ragione. Il soggetto si determina da sé ed è norma a se stesso.
Questo è l’omologo sul piano pratico di ciò che la critica, il
pensar da sé, è sul piano speculativo.
Sul piano pratico, questo principio di riferimento della ragione a se
stessa è l’autonomia, la capacità della ragione di determinare da sé
sola la propria volontà.
La scoperta della libertà che ognuno di noi fa nella sua esistenza,
non me la fa conoscere - la conoscenza è di pertinenza della
scienza e richiedere di stare dei fenomeni, l’intuizione, il dato,
ecc.
Io ho una certezza morale e pratica della libertà, perché ognuno di noi
esperisce in se la capacità di determinarsi secondo fini - la capacità
di fare una cosa anziché un’altra, e di farla secondo un comando, un
vincolo, un imperativo. Questo vincolo ci rivela che siamo liberi:
nessun vincolo è tale se non lascia la possibilità alternativa.
La libertà è la ratio essendi, la ragione di essere della moralità. Se non fossi libero non potrei obbedire all’imperativo. La moralità è la ratio cognoscendi, la ragione che mi consente di conoscere (sempre in modo non speculativo) che sono libero.
Le antinomie, soprattutto quelle dinamiche, sono il punto in cui Kant introduce la duplicità di regni di cui partecipa l’essere umano, che non è solo soggetto fenomenico, ma anche soggetto noumenico: che si sa come soggetto che conosce, che può avere una conoscenza oggettiva del mondo - ma anche come soggetto pratico, che agisce nel mondo.
Il soggetto può fare un uso speculativo, ma anche un uso pratico. Quando mi penso come soggetto intellegibile, mi muovo nello spazio della libertà, lo spazio in cui prendono forma i fini essenziali che rappresentano il punto verso il quale inevitabilmente la ragione tende; ragione che ha un bisogno, una tendenza insopprimibile, un sentimento a muovere verso qualcosa che va oltre il fenomeno. Questo qualcos’altro è qualcosa a cui la ragione ha accesso quando smette i panni della ragione speculativa, in cui incontra un sacco di fallimenti - e capisce che il suo uso proprio è un uso pratico.
La IV antinomia ci porta nelle braccia della teologia: l’essere necessario è un modo per parlare di Dio. L’essere necessario è un’idea della ragione - la ragione, che sta stretta nel mondo dei fenomeni e ha bisogno di andare oltre la pur fertile pianura dell’esperienza, ha bisogno di pensare che tutti questi fenomeni siano specificazioni di un’unica realtà, che Kant con un linguaggio un po’ immaginifico chiama il substratum dei fenomeni.
I fenomeni sono tutti contingenti: c’è bisogno di qualcosa da cui farli derivare. Dal punto di vista trascendentale significa necessità di poter pensare qualcosa che contiene tutte le possibilità dell’esperienza. Questa possibilità è Dio.
Per questo Kant dice che le religioni monoteistiche sono più conformi a ragione di quelle politeistiche - la ragione, nel tentativo di condurre all’unità, arriva all’unità. La ragione con le prove di Anselmo, Tommaso, ecc. presuppone sempre l’argomento ontologico: che Debba esistere qualcosa che renda la realtà quella che è. In termini trascendentali, che io debba considerare come condizione pura ciò che è, ciò che è dato.
La ragione antropomorfizza questa idea, che ha già trasformato in ideale, individualizzandola in individuo - ma già composta in un concetto completo (termini leibniziani) cioè una sostanza individuale. L’idea di Dio è ciò un ideale, ossia con l’idea di Dio io procedo a determinare completamente quella rappresentazione, e così determinandola ne faccio una sostanza individuale.
Kant chiama l’idea di individuo un’ideale perché l’idea completamente
determinata, perché contiene tutte le condizioni possibili e si pone
alla nostra ragione come un archetipo, nella fattispecie un
archetipo morale.
Quando io penso a Dio penso a un’idea della ragione onnimodo
determinata, quindi una sostanza immateriale dove sono tutti i fini a
cui la ragione tende. L’archetipo morale in noi, Dio, è qualcosa che io
non posso conoscere ma legittimamente concepisco nella consapevolezza
che non ci sarà mai un oggetto esterno alla ragione che gli
corrisponde.
Quindi la certezza che io ho nei confronti della natura non-chimerica di queste mie rappresentazioni di un’anima, di una libertà e di Dio sta nel fatto che sono il risultato di una attività trascendentale della ragione. Quando la ragione muove in queste direzioni, deve abbandonare qualsiasi pretesa conoscitiva - qualsiasi pretesa di dire qualcosa di qualcosa che non sia una sua idea.
Qual è il fondamento epistemico alla base dell’assenso che do a queste idee?
Siamo sul piano trascendentale, possiedo l’idea di Dio come possiedo la categoria di sostanza.
Il fondamento epistemico di questo assenso è la fede. Non è la devozione.
Kant distingue tre gradi per l’assenso (tener per vero - gli epistemologi oggi dicono hold to be true):
Fede e sapere sarà il primo scritto dell’Hegel maturo (1802-1803), a Jena. Hegel la chiamerà così pensando proprio a questa suddivisione kantiana fatta nella Dottrina nel metodo.
In fondamenti dell’assenso possono essere ragioni oggettive o soggettive.
Quando mi muovo nello spazio dell’opinare non ho abbastanza ragioni oggettive/soggettive per determinare il mio senso nella direzione del sapere o della fede. L’opinare può evolvere il sapere - possono ritenere qualcosa di vero sulla base di un’opinione e poi quella cosa è davvero vera. Oppure posso accorgermi che mi sbagliavo.
Agli antipodi dell’opinare sta il sapere. Il fondamento del sapere è o la percezione sensibile attuale o la dimostrazione. C’è un motivo non riconducibile al soggetto molto forte, che chiama il soggetto alla persuasione. In questo modo al motivo oggettivo si aggiunge quello soggettivo, il convincimento.
Nella fede io non ho motivi oggettivi, dimostrazioni o fatti. Ho dei forti motivi soggettivi, degli elementi di persuasione che mi portano a dare l’assenso a qualcosa anziché ad altro. Nel caso delle tre idee della ragione - l’anima, la libertà e Dio - io non posso sapere perché mi mancano le intuizioni; non possono avere opinioni perché sono sul piano trascendentale - ma ho fortissimi motivi soggettivi: il bisogno della ragione.
La ragione ha un bisogno insopprimibile (trascendentale nel senso che è connaturato alla ragione) di affermare queste idee. Questa si chiama fede razionale pura: nasce dalla ragione come assenso fondato dal bisogno ed è pura perché non ha alcun elemento empirico.
Ma perché ha questo bisogno? Perché i fini essenziali verso cui la ragione tende richiedono come ingrediente fondamentale le idee. La ragione guarda ad un fine essenziale - gli uomini tendono per natura al loro appagamento, a esprimere la loro piena natura - sono la realizzazione del sommo bene sulla terra. Significa vivere in un mondo in cui gli uomini realizzano a pieno la loro dignità di esseri umani.
Ciò verso cui noi tendiamo è un ideale di un posto in cui
vivremo bene, in cui ciascuno ha perfezionato la propria natura
secondo le possibilità intrinseche di quella natura.
Il sommo bene è un mondo in cui si è artefici della propria felicità,
cioè il proprio benessere - chi si comporta bene è felice, chi si
comporta male non è felice.
Ma il sommo bene, il regno dei fini, è un concetto limite. È irraggiungibile, ma è ciò che ci muove.
L’immortalità dell’anima, la libertà e Dio sono 3 ingredienti fondamentali del sommo bene. Non posso pensarmi come soggetto destinato a realizzare la propria dignità se in questo mio percorso non ammetto che la mia anima sia immortale - che il mio cammino possa proseguire al di là di questa vita, in un compito mai finito - se non penso che non ci sia un Dio che ricompensa i virtuosi, e soprattutto se non penso di poter agire secondo un principio di autodeterminazione.
Diventano 3 ingredienti fondamentali della realizzazione da parte della ragione del suo bisogno. Se non ammettessi questi tre principi, mi renderei indegno della mia umanità. Se rinuncio ai fini essenziali non vivo come un essere umano. Non si tratta di andare a cercare la compatibilità tra ragione e fede, o quella zona di sovrapposizione in cui la ragione ammette delle cose che può riconoscere. Non è in questo senso la religione, ma nel senso che i contenuti della religione hanno un’origine razionale. È la ragione stessa che come risposta a un suo bisogno escogita queste idee, che non hanno una realtà empirica, ma una realtà pratica. Questo significa che io le ammetto non come chimere: la loro realtà è quella di essere prodotti della ragione rispetto ai quali essa sa benissimo che non potrà mai trovare fuori da se stessa.
Giudicherò la religione senza bisogno di miracoli o altre
sollecitazioni empiriche, ma solo in base a quell’archetipo morale, che
è Dio, prodotto dalla mia ragione come una sua esigenza.
La fonte dell’informazione quanto alla realtà pratica di Dio è la
ragione.
Nella Critica della Ragion Pratica (1788) Kant dirà che sono
postulati della Ragion Pratica - delle verità che io ammetto
per non invalidare qualcosa che è assolutamente vero. Kant introduce i
postulati perché se si negassero i postulati, bisognerebbe negare anche
la morale.
Ma i postulati, così come comparivano nella Ragion Pura, non
sono ingredienti essenziali della moralità, ma il portato necessario
della nostra natura morale. La morale - qualcosa fondato solo nella
religione - ci conduce alla soglia della religione.
Le idee della ragione hanno pertanto un valore regolativo, perché rappresentano dei punti di orientamento del nostro tendere alla nostra realizzazione come esseri noumenici. Ma questa funzione regolativa che la fede e la hanno rispetto al nostro agire, ce l’hanno anche dal punto di vista speculativo.
Infatti se le idee non sono mai rappresentazioni di oggetti di conoscenza, le idee forniscono allo studioso della natura dei punti di orientamento, ossia lo studio dei fenomeni va condotto come se il mondo fosse una totalità, cioè come se nel mondo ci fosse una serie causale che vale per ogni termine della serie. Ma io devo sapere che non arriverò mai alla totalità della serie.
La psicologia, l’insieme del senso interno, va studiata come se
l’anima fosse una totalità, cioè come Nella formulazione della scienza
le idee sono i fuochi immaginari, punti prospettici che mi consentono di
proiettare la singolarità sulla molteplicità. Natura architettonica
della ragione: dispone un ordine trovando delle omogeneità che le
consentono di costruire delle unità più alte che consentono però di
mantenere le specificità dei singoli elementi. Questa struttura viene
imposta dalla ragione alle nostre conoscenze, e l’intelletto ha il
compito di riempirle. È proprio questa struttura architettonica della
ragione a caratterizzare la scienza come un sistema. Non si dà sistema
senza un’idea.
Non ho un sapere organico senza architettura, avrei solo una
giustapposizione di elementi. Quando invece il sapere è pensato in
maniera organica, come fosse un organismo, in cui le parti crescono
potenziandosi, in un sapere così considerato la struttura deve essere
stabilita a priori dalla ragione che dispone le idee.
Tra le parti del sapere non c’è il rapporto estrinseco che c’è in una macchina, il sapere non si stabilisce con un criterio accumulativo, ma c’è una concezione organicistica per cui la sua struttura fondamentale è trascendentale, esprime una architettura della ragione. Le conoscenze empiricamente date non possono essere stabilite dalla ragione: di cosa si tratta effettivamente lo scopre l’intelletto quando guarda alle intuizioni della possibilità.
Pertanto il sapere si può incrementare in maniera intensiva, ma non si può pensare che emergano nuovi membri, che spuntino nuovi membri nel sapere.
Questo è importante perché i modelli che abbiamo incontrato finora erano tutti costruiti sulla base di un presupposto fondativo originario: il primo grande sistema che abbiamo incontrato nella modernità è quello cartesiano.
La solidità di questo sistema è garantita da due elementi:
Nel caso di Kant la struttura scientifica e sistematica delle scienze non si basa su un fondamento, ma viene stabilita in maniera teleologica dalla ragione. La ragione proietta sulle diverse conoscenze a disposizione dell’intelletto una sturttura sistematica che consiste nell’organizzazione delle parti.
Sono due modelli di fondazione del sapere scientifico molto diversi - quando arriveremo a Reynolds e Fichte ci sarà un grande fraintendimento - non si tratta più di costruire una struttura su un fondamento, ma di proiettare sulle conoscenze dell’intelletto la struttura architettonica della ragione. Senza la ragione non si ha scienza. Senza idee della ragione l’intelletto ci darebbe delle percezioni rapsodiche, senza quella connessione a priori che può essere stabilita soltanto dalla ragione.
Come tutti i filosofi moderni Kant è convinto gli uomini tendano per natura alla felicità, cercando cioè una condizione di appagamento. Questa affermazione va però tradotta nei termini della filosofia kantiana. Così come nel caso della teoria della conoscenza, la filosofia speculativa, il problema di Kant era trovare un fondamento che stesse a garanzia della validità oggettia della conoscenza che potesse valere in generale al di là delle epoche e delle condizioni storiche.
Anche nella ricerca della felicità Kant sente l’esigenza di arrivare
all’elemento a priori che funga da garanzia della validità generale
delle conoscenze. Allo stesso modo una teoria morale deve poter essere
condivisa da ogni essere razionale al di là dei condizionamenti
empirici.
Tutti gli uomini tendo alla realizzazione del sommo bene sulla terra,
alla felicità insomma. Come si può formalizzare una teoria etica di
questo tipo che non mortifichi le esigenze individuali dei singoli?
Kant non è un filosofo della mortalizzazione degli istinti, che vuole una morale ascetica. Leviamoci dalla testa questa immagine stereotipata. Kant tiene conto del corpo come parte fondamentale. Nella teoria della conoscenza c’è una rivalutazione mai vista prima nel ruolo della sensibilità. Sensibilità è un ingrediente fondamentale di ogni conoscenza.
Una teoria morale deve rispondere a due punti:
Hume, Hutchinson, e altri - filosofi del senso morale: Kant leggeva con interesse questi filosofi britannici, che dicono che è vero che l’uomo tende alla felicità, e per farlo deve sapere cosa deve fare. E cosa deve fare gli viene detto da una naturale inclinazione del soggetto, un sentimento legato alla natura empirica dei soggetti - un sentimento che non è intellettualistico ma è sempre corretto da una componente empatica, di simpatia.
Secondo Hume l’essere umano ha una struttura empirica, naturale,
psicologica che sul piano conoscitivo gli consente di organizzare le
credenze e sul piano morale gli consente di entrare in contatto con gli
altri sulla base della simpatia. Questa è la base dell’’utilitarismo
etico, per cui un’azione morale è un’azione che comporta un
miglioramento delle condizioni per un numero più alto possibile di
individui. Bentham per esempio dirà questo.
I filosofi del senso morale non danno vita quindi a teorie
individualistiche: io cerco il mio utile ma nel mio utile è compresa la
felicità degli altri.
Cosa non va bene a Kant di questo tipo di impostazione? Che ognuno intendeva la felicità a modo proprio. Quando cerca di sublimare la felicità in concetti più univoci, come l’utilità - l’utilità è qualcosa che mi porta vantaggio, che incrementa la bontà della mia condizione. Ma è felicità?
Il difetto è che io mi pongo su un piano in cui ognuno intende in modo diverso che cosa è utile: questo è il problema di ogni filosofia fondata su base empirica. Questo non può essere il fondamento di un’etica universale - non può riposare su principi empirici, ma deve avere un fondamento a priori.
Il bene, una volta che lo si conosce, non può che attrarre. Non posso fare il bene se so cos’è - ma so cos’è il bene se perfeziono la mia conoscenza. Di nuovo questo concetto di perfezione, che eleva la razionalità sopra la sensibilità, assumendo uno schema delle facoltà che Kant aveva già confutato nella Dissertazione del 70, è un tipo di etica che non funziona, perché non rende ragione di ciò che accade nel mondo: c’è troppa gente che sbaglia nell’individuare ciò che è bene.
C’è un errore epistemico a fondamento delle azioni immorali. Ma questo intellettualismo etico non fornisce un modello sufficientemente adeguato a rendere ragione del modo in cui funzionano gli uomini. L’etica non può avere una funzione normativa così estranea rispetto alla natura umana. Gli uomini cercheranno sempre di scappare, di trovare una via per salvarsi la pelle. Apelle figlio d’apollo.
L’insoddisfazione rispetto a questi elementi che determinano dall’esterno l’agire morale - da un lato su una valutazione intellettualistica dall’altro sulla base di un ragionamento empirico.
Sono etiche che Kant chiama eteronome. autonomia e eteronomia sono i due concetti chiave dell’etica kantiana. Eteronome sono tutte quelle etiche che mi dicono che devo fare qualcosa sulla base o del movente o dell’interpretazione di qualcosa che è esterno al soggetto stesso, cioè alla soggettività trascendentale in cui stanno le forme a priori della ragione umana: esterno alla ragion pura.
Un’etica non eteronoma in cui la ragione trova in sé i principi del proprio agire è un’etica autonoma. Autonomia significa essere norma a se stessi.
Un uomo morale già nella precedente tradizione deve essere un uomo che deve saper governare le proprie azioni - questo è il principio di ogni etica deontologica a partire da Aristotele. Io agisco in modo morale quando domino tutti gli impulsi della sensibilità che mi farebbero sbandare e agire in maniera indegna.
Il concetto di autonomia è diverso: non si tratta di dominarsi tacitando una parte, trovare una parte della soggettività che esercita un potere coercitivo su un’altra, ma si tratta di trovare nella ragione pura un principio capace di determinare la volontà in un modo che possa valere per tutti gli esseri razionali, indipendentemente dalle loro specificità empiriche.
Cioè al di là del fatto che uno abbia una concezione diversa del bene. La determinazione della volontà deve perciò avvenire sul piano formale. Non bisogna guardare il comando materiale (fai questo, fai quell’altro) ma bisogna costruire l’etica a partire dalla forma del comando che la ragione è in grado di imporre alla volontà.
Noi abbiamo visto già nella ragon pura come l’esperienza della volontà ci rende avvertiti rispetto al principio di obbligatorietà che ognuno ha dentro di sé: libertà significa poter fare una cosa o poterne fare un’altra - un dovere che è diverso dal dovere necessario delle leggi della natura.
C’è differenza tra il Mussen e il Sollen
(Impara questi verbi). Il Mussen è il dovere della
necessità naturale. I fenomeni devono rispettare le leggi della
fisica in una maniera che non lascia spazio ad alternative: il dovere
della necessità. I corpi devono seguire la legge di gravità non
perché possono fare altrimenti.
Il Sollen è il dovere legato alla libertà, è il dovere di
fronte a un’alternativa praticabile. Cos’hanno in comune queste due
forme di dovere? Una obbligatorietà, un vincolo che nel primo caso non è
eludibile, e nell’altro lo è.
Il comandamento morale non uccidere si impone per determinare l’azione in una direzione che non è necessaria come potrebbe esserlo un’azione nei corpi naturali. È un dovere che richiede un momento deliberativo e di scelta. Il Sollen si esprime quindi sempre in una forma imperativa: vuole un comando. Il comando ad agire in una determinata maniera.
Il comando che ha la propria sede nella Ragion Pura è un comando
sempre categorico. Qui sta l’introduzione del concetto fondamentale
della teoria morale kantiana: l’imperativo categorico.
Questo è un comando che mi arriva dalla ragione e non è condizionato da
nessun elemento esterno alla ragione. Kant definisce l’imperativo
categorico in contrapposizione agli imperativi ipotetici.
Imperativo ipotetico si esprime nella formula se…allora. Può essere un imperativo estremamente vincolante, ma sempre soggetto a una condizione che lo rende vincolante. L’imperativo ipotetico è l’imperativo di tutte le etiche eteronome. Tutte le etiche che hanno il principio di determinazione della volontà (voglio questo o altro) fuori dalla ragione, ma in un fine da perseguire, sono etiche eteronome, quindi non sono etiche pure, quindi non sono propriamente etiche: non sono adatte a fornire una teoria morale che valga universalmente.
Ma le etiche eteronome non sono soltanto se…allora: sono eteronome anche tutte le etiche teologiche. Il fatto che sia il comandamento divino a dirmi non uccidere non rende la mia azione morale: io non sto agendo sulla base di un principio autonomo, che obbedisce a un imperativo che sta nella ragione, ma sto agendo sulla base di un imperativo ipotetico. Se voglio essere conforme alle aspettative di Dio devo comportami in questo modo. Se voglio… devo agire così. Non sono solo eteronome, dice Kant, quelle dei porci del giardino dei porci di epicuro, ma anche quelle teologiche dei razionalisti.
Il vero imperativo morale è categorico perché è un comando che mi impone il dovere per il dovere, e non il dovere finalizzato al raggiungimento di uno scopo.
Dovere per il dovere significa obbedire al dovere prendendo come principio della determinazione della propria volontà l’obbligatorietà del dovere. Ma dovere di fare cosa? Cosa mi comanda questo imperativo? Di agire sulla sola base del dovere. È un imperativo completamente formale, che non riguarda l’organizzazione dell’azione, la concreta attuazione dei miei principi di volontà, ma la forma a cui la determinazione della volontà deve rispondere.
Posso fare quello che voglio; ma posso fare un’azione morale soltanto se la determinazione della volontà è conforme al volere.
L’imperativo categorico è espressione di un fatto della ragione che trovo dentro me stesso - qualcosa che si dà come fatto e in quanto tale non ha bisogno di essere giustificato - che è la legge morale. La legge morale è il dovere. Nella mia ragione trovo un principio obbligante al quale possono conformarmi o non conformarmi. Nella misura in cui io determino il mio volere non sulla base del dovere ma sulla base di altro, non sto agendo in maniera morale.
Come faccio a sapere se un’azione è morale a fronte di un comando puramente formale? Non c’è il manuale di istruzioni.
Kant escogita delle formulazione dell’imperativo categorico che servono a valutare la moralità delle azioni
Queste formulazioni le troviamo nella Fondazione della Metafisica dei Costumi (1785). Qui Kant ci dice che l’imperativo categorico si potrebbe esprimere in questo modo: mi comanda di agire
in modo tale per cui la determinazione della mia volontà potrebbe valere come legge universale.
Cioè, se è vero che l’imperativo categorico vale come test per valutare la moralità delle azioni, quando agisco mi devo domandare: il principio che ha determinato la mia volontà potrebbe valere necessariamente come legge universale? Potrebbe arrivare a un grado di necessità analogo a quello che vige per i fenomeni naturali? Riconosco un vincolo nel principio di determinazione della mia volontà tale che potrei elevarlo a legge di natura? Starei bene in un modo in cui tutti agissero sulla base del principio che io ho assunto come determinante della mia volontà?
L’esempio che Kant fa nella M. Dei Costumi è quella di un uomo che si
trova a chiedere un prestito che non potrà mai ripagare. Questo per dare
da mangiare ai figli che stanno morendo di fame, non ha altra maniera
per salvarli. Agisce in maniera morale?
Le diverse etiche - del sentimento morale, intellettualistica, avrebbero
risposte differenti.
Kant dice: questo individuo agisce sulla base di un principio di
determinazione della volontà che lui stesso non potrebbe condividere se
lo elevasse a principio valido universalmente. Questo non lo farebbe
vivere in un mondo migliore - lo farebbe vivere in un mondo in cui non
si può credere alle promesse, non ci si può fidare di nessuno.
Se davvero allora l’Etica deve farci realizzare il sommo bene sulla
terra, allora quell’azione non è morale perché il principio che l’ha
determinata ha una validità soltanto soggettiva.
È un’azione pragmaticamente efficace, e Kant non lo condanna. Fai bene a salvare i figli, ma non ti stai condannando in maniera etica. Kant non è filosofo che condanna le deviazioni dal comando morale - è consapevole che la vita non ci consente di agire sempre come vorremmo, o come potremmo.
Il test di universalizzazione della massima mi consente di valutare la moralità dell’azione, una moralità accessibile soltanto al soggetto - perché noi siamo molto spesso opachi a noi stessi. Chi può valutare la moralità delle azioni di qualcuno? Quando va bene il soggetto stesso. Questo perché dice Kant gli infingimenti della natura umana (le cazzate che raccontiamo a noi stessi) non corrispondono alla realtà delle cose.
In un’azione quindi che passerebbe il test dell’imperativo categorico (es. mi butto nel fiume per salvare qualcuno che sta annegando). Ma se questa azione sia realmente morale, lo può sapere forse solo il soggetto che la compie.
Per quanto infatti io possa constatare dall’esterno l’adesione di
quella azione alla legge morale, io non saprò mai se la determinazione
della volontà è stata pura; non saprò mai se colui che compie un’azione
legale (termine che usa Kant per dire che rispetta la legge),
non posso mai sapere se quest’azione è stata compiuta per la
legge - magari l’ho fatta per perseguire uno scopo che cade fuori
dalla determinazione della ragione; sto agendo sulla base di un
imperativo ipotetico.
Forse uno si butta anche perché vuole fare bella figura, oppure perché
quello che sta affondando mi deve dei soldi. Questa azione è un’azione
legale, conforme alla legge ma non determinata dal dovere.
Morali sono le azioni in cui la volontà è determinata sulla base del solo principio del dovere. Il dovere è espressione della legge morale, un principio obbligante che troviamo in noi stessi che si esprime in un imperativo. Le tre formulazioni dell’imperativo categorico.
III formulazione:
Agisci sempre guardando al prossimo tuo mai soltanto come mezzo, ma
anche come fine.
Necessariamente ci possiamo porre in una prospettiva in cui il nostro prossimo è mezzo, ma sempre anche come fine. Sempre anche come qualcuno che ha la stessa struttura razionale pura che abbiamo noi, e sta perseguendo il medesimo cammino della propria destinazione al quale tutti gli esseri razionali sono chiamati.
La volontà è la ragione che si fa pratica. C’è un problema di comunicazione tra la legge, il comando e la ragion pura. Da un lato l’obbligatorietà formale della legge morale - dall’altro un soggetto che vive nel mondo. Un soggetto che ha una volontà che indirizza azioni che si svolgono nella storia, nel mondo completo.
O di nuovo quel problema di comunicazione che nella Ragion Pura era stato risolto con l’introduzione degli schemi, per rendere compatibili le regole dell’intelletto con le intuizioni della sensibilità. E qui si introducono le massime. La massima è un concetto fondamentale dell’etica kantiana.
La massima è l’introduzione in termini soggettivi della legge morale
L’imperativo comanda, dovere informa la situazione concreta in cui mi trovo ad agire, e mi consente di determinare la mia volontà nel mio contesto specifico.
Il dovere formale o astratto si traduce nella dimensione soggettiva in cui mi trovo, in una forma che deve essere conforme all’imperativo. Quando la legge deve informare il principio che mi muove ad agire è il momento in cui è possibile che ci sia una sovversione dei principi, cioè è possibile che nel momento in cui mi determino ad agire, cioè si informa il comandamento della massima, al comando formale dell’imperativo categorico subentri il comando ipotetico dell’imperativo ipotetico, che inficia il carattere morale della mia azione.
In questo punto si genere una confusione, un conflitto di principi che determinano la volontà, quindi le massime. Questo è il vero momento della libertà, perché io sono libero di determinare le massime della volontà sulla base di un principio categorico o di un principio ipotetico; sulla base del dovere o di un principio eteronomo.
Test: Il soggetto deve chiedere a se stesso se il principio che determina la sua volontà è il dovere oppure no. Questo esame non è così sicuro, perché noi non siamo così trasparenti a noi stessi.
Devo quindi chiedermi se la mia intenzione è morale o no? È
giusto parlare in questi termini? L’intenzione è un elemento
psicologico, che appartiene al soggetto fenomenico. Non è qualcosa a
priori che posso affrontare in maniera pura. L’intenzione è la
traduzione in termini fenomenici del principio che informa la
massima.
Se io mi sposto su un piano fondativo della maniera in cui si producono
le azioni, io ho una realtà pura, la ragion pura, che esprime un
principio formale, il principio del dovere, che informa
(riferimento aristotelico: dare un principio determinato a qualcosa che
non è determinato) cioè determina, stabilisce, la mia massima, ossia il
mio comando concreto di azione, su un piano completamente puro, non
riguarda la soggettività empirica ma solo quella trascendentale.
Eravamo arrivati al punto in cui si realizza il conflitto tra le
massime che determinano la volontà (dovere vs principi
empirici). Questo è lo spazio della libertà.
Libera è solo una volontà finita, ossia una volontà che può determinarsi
in un modo o nell’altro. La moralità è un cammino impervio, duro. È
faticoso essere esseri morali perché è faticoso essere liberi. Una
volontà che non si trovi in questo conflitto tra principi opposti
(diciamo, per esempio, la volontà di Dio) - in una volontà di quel tipo
non avremmo volontà né moralità. La moralità richiede sempre un
obbligo ad agire sulla base di un principio che può essere
trascurato - richiede sempre un Sollen.
Dio non è libero, non è morale e non è buono. Perché non è in un
conflitto morale. Dio può cioè avere una realtà santa; ma gli esseri
umani hanno nel migliore dei casi una volontà buona.
Questo tratto peculiare della natura umana viene chiamato da Kant ne
La religione nei termini della… male radicale, che
rende l’uomo un legno storto. Il male non è che abbiamo una sensibilità
che ci allontana dall’intelletto, non è la componente sensibile, ma
è la libertà, che ci mette in quella perenne condizione
di instabilità e di faticosissimo assoggettamento alla legge morale
dalla quale non possiamo sradicarci.
Siamo condannati a essere liberi, non possiamo tirarci fuori da questa
cosa.
Il punto della determinazione delle massime della volontà segna lo scarto tra comportamento morale e comportamento non morale.
La Fondazione della Metafisica dei Costumi (cioè etica, cioè scienza dei principi a priori della volontà) - che Kant pensava qui di fondare. La parola fondazione compare solo nella Prefazione dell’opera, come a dire che Kant non aveva avuto idea di fondare nulla, ma si rende conto a un certo punto che ogni metafisica ha bisogno di una propedeutica - la propedeutica alla metafisica dei costumi è la Ragion Pratica.
Nel 1788 Kant pubblica la seconda critica, la Critica della Ragion Pratica, che deve fare nei confronti della morale la stessa roba che ha fatto la ragion pura , cioè che la morale è un sapere certo: cioè è un sapere che si basa su un forma di giudizio sintetico a priori.
Virtù e felicità sono punti di partenza della ragion pratica. Il
problema di virtù e felicità è che nelle etiche precedenti venivano
concepiti come due concetti analiticamente coimplicati: chi agisce in
maniera virtuosa, sarà felice. La felicità sarà il risultato di una vita
virtuosa.
Kant ritiene che virtù e felicità non siano termini analiticamente
connessi, ma che siano due concetti distinti che noi connettiamo sulla
base di un giudizio sintetico a priori. La realizzazione del sommo bene
- un mondo morale dove la gente si comporta bene richiede come
suoi ingredienti la virtù e la felicità, che però per essere ingredienti
di un mondo morale non devono essere implicati in collegamenti
ipotetici.
Io non posso essere virtuoso se agisco sulla base della felicità, e non posso essere felice se non sono virtuoso. Perché formulo questo collegamento anche se le due cose non sono unite? Perché formulo un giudizio sintetico a priori.
Virtù e felicità si coimplicano senza determinarsi, sono ingredienti del sommo bene verso il quale tutti necessariamente si tende, il quale va concepito come massima condizione di virtù e felicità, quella condizione in cui si è felici in una misura proporzionale a quanto si è stati virtuosi? Una coimplicazione non determinante di virtù e felicità.
Kant tira fuori la dottrina dei postulati. Dio, immortalità dell’anima e libertà sono tutti oggetti pratici, contenuti di cui la ragione si serve nel suo uso pratico. Questi sono contenuti di pensiero - non hanno corrispondenza fuori dal pensiero. Questi sono postulati perché devo ammetterli come veri anche se non sono dimostrabili, al fine di convalidare qualcosa che non può essere invalidato: cioè la morale.
Io devo ammettere l’immortalità dell’anima, perché la mia volontà non sarà mai santa. Il conflitto di affermazione del buon principio sul cattivo - principio di determinazione del dovere su quello eteronomo - è sempre presente: la moralità è uno sforzo continuo, non riuscirò mai a tacitare la fonte del conflitto. Non sarò mai non libero, quindi devo pensare che il cammino dell’azione morale/virtù sia un cammino infinito..
Devo ammettere l’esistenza di Dio, perché devo ammettere l’esistenza
di una volontà santa, al quale mi avvicino asintoticamente senza mai
poterla raggiungere, che mi ricompenserà delle azioni che ho compiuto:
solo Dio sa se le mie azioni erano veramente morale. Dio guarda nel
cuore degli uomini e vede se il principio di determinazione era il
dovere o un imperativo ipotetico.
Dio è verace - non ha niente a che fare con la conoscenza; è un’idea
regolativa morale.
Devo ammettere la libertà, perché non posso negare la moralità: e infatti io in qualche modo faccio esperienza alla libertà, so di essere libero, ma non ho una via di accesso alla vita eterna o all’esistenza di Dio. Quindi la libertà ha uno statuto un po’ specifico.
I postulati non devono diventare principi di determinazione della volontà: non devo comportarmi in un certo modo sulla base del fatto che il Dio giudice mi punisce - ricadrei in un imperativo ipotetico, un’etica eteronoma che non è morale. I postulati sono un contorno, incentivi alla moralità, implicazioni dalle quali non posso prescindere; ma non sono mai principi che devono determinare le mie massime.
Quindi sono delle ammissioni che io non posso eludere se non voglio vanificare la mia morale. Non posso pensare che il mio cammino morale si interrompa quando finisce la mia vita terrena, perché questo sarebbe in contraddizione con la lotta senza fine del principio buono (dovere) con quello cattivo e che consiste verso fini che non posso realizzare in questa vita, non li realizzo qua.
Ma tutto ciò non deve farci pensare a un Kant inebriato di trascendenza, che trova il senso dell’agire terreno in qualcosa che sta da un’altra parte. L’uomo realizza la propria felicità sulla terra: rendersi degno della felicità è la felicità, ed è anche l’azione virtuosa - la realizzazione della natura umana.
Che per pensare questa cosa la ragione abbia bisogno di costrutti che si crea senza nessuna pretesa di descrivere un mondo che non c’è una questione che non sminuisce il valore morale delle mie azioni. Se il valore è un sapere costitutivo - non si può vivere da esseri umani se non si vive in maniera morale: ma si può vivere benissimo senza Dio, senza religione, senza guardare a quel mondo altro che la ragione di costruisce e ha una natura soltanto ideale che è compimento, accessorio, incentivo per l’azione morale.
La morale è un sapere certo, infatti ho una critica della ragion
pratica. La religione è uno spazio privato in cui ognuno fa quello che
vuole. La religione non aumenta e non diminuisce la dignità umana che si
traduce nei fini morali di ognuno.
Ma ciononostante la religione non è una chimera frutto di qualche
visionario - è una esigenza che non si può tacitare; spesso pretende di
affermare qualcosa circa oggetti che non hanno nessuna realtà fuori
dalla ragione (religioni di culto) che hanno la funzione di fare da
veicolo della fede razionale pura (unico modo in cui una
filosofia trascendentale può pensare la religione), ma che sono
destinate a sparire per far posto alla ragione.
La validità morale non è basata sull’adesione a un comandamento divino. Ma qualsiasi idea che si ha di un comandamento di Dio richiede di essere confrontata con il supremo comandamento della ragione, con questa esigenza della ragione. Per questo motivo la moralità ci porta alle soglie della religione. Ci porta nel regno dei fini dove noi ci compiamo come essere intellegibili e a compimento del quale in maniera del tutto accessoria stanno i contenuti delle religioni di culto.
Dalla filosofia morale andiamo nello spazio della fede e della religione.
Peculiarità di alcune posizioni kantiane:
La fede subentra quando non sono sufficienti i motivi oggettivi per asserire la verità di qualcosa, ma sono sufficienti i motivi soggettivi, che quando sono di ordine empirico - gli affetti - la fede con cui abbiamo a che fare non ha nulla di razionale, ma è una fede psicologica, una inclinazione dell’animo.
nel caso della fede di cui parliamo noi i motivi soggettivi sono equivalenti al bisogno di valicare i confini dell’esperienza che è un tratto distintivo della ragione kantiana. La ragione è mossa a travalicare i limiti dell’esperienza - in questa prospettiva c’è una nuova modalità epistemica.
Questo bisogno della ragione è un bisogno trascendentale. La fede per questo - come modalità epistemica radicata nei bisogni della ragione - appartiene a tutte i soggetti trascendentali, cioè tutti gli esseri razionali. È cioè intersoggettiva e incomunicabile. Lo è perché manca il fondamento oggettivo delle credenze.
I contenuti a cui si rivolge questa fede sono i postulati della ragion pura pratica:
Verità postulate, cioè ammesse come vere ma indimostrabili, perché rappresentano il corredo della nostra azione morale. L’argomento rispetto a questo problema era fondato sull’argomento del sommo bene, la massima aspirazione di ogni essere a priori - una sintesi a priori della ragione tra virtù e felicità. Questi due elementi stanno insieme grazie a due postulati:
Questi due elementi sono il corredo di una modalità senza il quale la nostra moralità sarebbe una chimera - ci illuderemmo di poter procedere su una via virtuosa ma senza nessuna garanzia.
La dottrina dei postulati è una debolezza nel contesto della filosofia pratica kantiana.
I postulati non hanno una funzione determinante rispetto alla verità, ma sono verità che noi non possiamo ammettere in quanto soggetti morali - questi due principi sono il credo della ragion pura.
1792: Una religione entro i limiti della semplice ragione - questo impianto distingue Kant da tutti i tentativi precedenti di contrapporre alla religione positiva una religione naturale accessibile alla ragione, compatibili con essa. A differenza dei deisti, di Locke, di Spinoza, che spingono la ragione in una dimensione sempre più prossima ai contenuti della ragione, ma Kant fa un passo in più.
Inizia a circolare l’idea di un Socrate cristiano, come se i contenuti del cristianesimo fossero già rappresentati da alcuni archetipi morali - li troviamo in altri luoghi come la cultura cinese, che hanno una morale affine ai popoli della tradizione cristiana.
Il progetto kantiano di riduzione della ragione al suo contenuto razionale non vuole dimostrare l’accordo tra ragione e fede, non vuole dimostrare che la ragione è da sé in grado di distinguere bene e male. Vuole dirmi piuttosto che è la ragione stessa a produrre l’idea di Dio, a produrre l’idea di un’anima immortale. Senza ragione i contenuti della religione non ci sarebbero.
I contenuti della religione sono contenuti trascendentali, preparati dalla ragione. Tant’è che qualsiasi messaggio della religione, di natura storica - la Rivelazione - ha validità nella misura in cui regge il confronto con i contenuti trascendentali che la ragione si procura da sé. La religione deve essere confrontata con un archetipo, un ideale della ragione, che è interno alla ragione stessa.
Il collegamento della religione alla ragione ne nobilita i contenuti.
Dibattito moderno: l’ateo mente quando dice che non ha l’idea di Dio oppure si può pensare di non avere l’idea di Dio? Si può non avere l’idea di Dio?
Concependo la religione in maniera fideistica - una capacità parallela alla ragione - allora possiamo pensare che Kant mortifichi la via di accesso privilegiata che gli esseri umani hanno; ma se pensiamo alla legittimità dei contenuti di fede, messa in discussione in un contesto fideistico, allora forse possiamo considerare che Kant nobiliti la religione, osservandone la natura profondamente razionale.
Ma questo tipo di ragione non è inteso come ragione dimostrativa-deduttiva, ma la ragione del tribunale, che sa di non essere solo intelletto e speculativo. Una ragione che ha anche un altro uso e un altro bisogno - quello di ricondurre l’unità delle conoscenze e dei fenomeni a unità più alte, valicandole.
Kant, cioè, umanizza la fede, rendendola un tratto peculiare della natura umana, rendendola un tratto della ragione intesa nei termini della filosofia critica.
Secondo Kant la chiesa visibile ha l’unica funzione di essere veicolo
della comunità dei fini - di esseri umani tutti rivolti al progresso
morale dell’umanità. Una volta che questa comunità può rendersi autonoma
dalla chiesa visibile, l’istituzione terrena della chiesa si rivela
superflua. Questo nello spazio asintotico che governa l’azione morale
dell’individuo. Lo stesso Trattato di Spinoza affermava qualcosa di
questo tipo - la religione va bene per i non filosofi, ma in un mondo
morale in cui si riesce a percorrere il cammino dell’etica,
l’istituzione chiesa è superflua.
La chiesa secondo Kant ha il compito di aiutare l’individuo a
realizzarsi come essere morale.
Questo significa forse svuotare di contenuto gli oggetti della fede,
considerati come semplici idee? Kant lascia la questione al giudizio
personale di ognuno.
Alla ragione è più che sufficiente il riconoscimento della natura
trascendentale di questi contenuti per garantirle la coerenza del
proprio compito, che è il vero fine essenziale verso cui la ragione
tende.
Dio la vita eterna non sono che idee - ma questo non sono che
non è affatto sminuente, e alla realtà basta la realtà pratica di queste
idee, nella consapevolezza che questa non potrà mai venire
dimostrata.
Bisogna pensare queste idee nella maniera che ci risulta più consona
nella nostra natura di soggetti empirici - cioè nella misura in cui
traduciamo in termini soggettivi e nella realtà fenomenica una legge
morale che ha natura universale.
Il continuo riferimento alla componente noumenica del soggetto e a quella fenomenica ci consente di capire come la legge morale si traduce nell’esistenza concreta, nella quale deve avvenire la realizzazione della nostra destinazione. Kant parla per uomini staccati dalla realtà concreta, animati dall’io penso e isolati dalla legge morale, che non sembrano avere nessuna connessione con il mondo terreno. Questa è un immagine errata, mutila, che non tiene conto di una componente importante della ragione, che si rivolge alla realtà effettiva, il soggetto fenomenico è al centro. Il soggetto ha pari dignità come cittadino del regno dei fini e regno del concreto, è a pari titolo essere libero e essere necessitato Questa è un immagine errata, mutila, che non tiene conto di una componente importante della ragione, che si rivolge alla realtà effettiva, il soggetto fenomenico è al centro. Il soggetto ha pari dignità come cittadino del regno dei fini e regno del concreto, è a pari titolo essere libero e essere necessitato.
Lo spazio della libertà è quello in cui la spontaneità - dare inizio a qualcosa non essendone determinati - si inserisce nella catena dei fenomeni senza violarla.
La questione della finalità, che abbiamo visto essere una dimensione che Kant scopre correre un cammino parallelo a quello della necessità è una dimensione propriamente anti-conoscitiva. Kant in questo è fedele alla grande rivoluzione galileiana. Tutto ciò che è fine, causa finale, va espunto dallo studio dei fenomeni naturali. Ciò è stato espunto da Leibniz, unico autore che trova uno spazio di rivalutazione della finalità nella sua metafisica. Ma Leibniz, analogamente a ciò che farà Kant, sposta la finalità su un piano che non è quello della natura, nello scritto fondamentale per la filosofia che si chiama I principi della natura e della grazia Leibniz ci racconta come la finalità nell’organizzazione del reale compete solo al piano metafisico - e non quello fenomenico, dei fenomeni naturali, della materia. La materia non ci dice come stanno le cose veramente.
Le monadi sono entelechie, e l’armonia stabilita è stabilita da Dio sulla base di un fine.
Anche Kant crede che la finalità non si dia nel mondo empirico. Il fine non compare alle categorie - compete alla ragione in quanto essa ha la capacità di auto-determinarsi, dandosi uno scopo. È proprio la capacità di autodeterminarmi che mi fa scoprire di essere libero.
nel 1798 Kant ritorna sulla questione della finalità, come fatto non
riducibile all’intelletto ma nemmeno esauribile all’utilizzo pratico
della ragione, che è la moralità.
La moralità ha un problema con la finalità, perché ancorché l’individuo
sia guidato nel suo agire morale, la determinazione della propria
volontà non può mai avvenire per fine - altrimenti sarebbe una
determinazione eteronoma.
La ragione, nel determinare la volontà, deve trovare il proprio fine in sé stessa. Kant ritiene allora di dover trovare uno spazio in cui giustificare la compatibilità tra le azioni libere del soggetto e la necessità naturale dei fenomeni. Trovare una dimensione che mi consenta di comprenda di unire il mondo fenomenico e il mondo noumenico.
Critica della facoltà di Giudizio del 1790 è il tentativo di unire i due domini - natura e libertà - che Kant fa fatica a tenere insieme. Kant assegna quindi alla critica del giudizio un ruolo di cerniera, di sintesi.
La Critica del giudizio introduce una nuova facoltà, che fa parte della ragione pura che non è né l’intelletto, né l’immaginazione: il giudizio - facoltà di giudicare. Termine infelice perché giudizio è uno dei termini più comuni della filosofia kantiana. Sono giudizi pronunciati dalle facoltà che giudicano.
La facoltà del giudizio è in grado a differenza dell’intelletto nel suo uso speculativo e del … nel suo uso pratico è in grado di emettere giudizi non speculativi, bensì riflettenti.
I giudizi determinanti sono quelli della Ragion Pura. Anche detti costitutivi - determinano o costituiscono l’oggetto di cui si sta giudicando. Quando l’intelletto giudica, in termini di logica trascendentale applica delle categorie - regole di sintesi - a un molteplice di intuizioni empiriche - e facendo ciò determina o costituisce un fenomeno, cioè un oggetto. Un giudizio determinante è un giudizio conoscitivo. Il fenomeno è il giudizio per eccellenza. I giudizi conoscitivi sono anche quelli morali - la morale è un sapere costitutivo, ancorché pratico, e non speculativo. Che cos’è il sommo bene e la libertà, sono cose che io so e ho costituito, ancorché non siano oggetti di una conoscenza speculativa, giudizi che si possono riferire ad un oggetto di esperienza.
Il giudizio riflettente invece non riguarda l’ambito della conoscenza. È un giudizio in cui non determino, non costituisco un oggetto, ma ce l’ho già dato. Quindi rifletto - cioè “interpreto” gli oggetti che ho già costituito con il mio giudizio determinante.
La logica trascendentale mi permette di costituire gli oggetti su cui poi mi pronuncio con la logica generale. Nel caso del giudizio riflettente si procede allo stesso modo - posso riflettere su, interpretare, solo gli oggetti che ho già costituito - e li ho costituiti nella Ragion Pura.
Il giudizio determinante parte da universale fa al particolare. Parte dalle categorie cioè e determina la sintesi delle intuizioni empiriche. Il giudizio riflettente parte dal particolare e cerca l’universale. Ho già tutti gli oggetti, il particolare, e riflettendo su questo particolare cerco l’universale. L’universale che cerco è quello della finalità - un concetto che non è dell’intelletto ma della Ragion Pura - è la forma a priori della facoltà di giudizio.
Cioè, quando io guardo gli oggetti, i fenomeni, la natura, vedo qualcosa che non sta negli oggetti e nell’esperienza - che in quanto tale è regolata da leggi meccaniche. Per cui, questa finalità che io riscontro nella natura non può che essere una forma a priori soggettiva. Il giudizio riflettente è un giudizio che riguarda sempre la finalità.
È anche un giudizio non conoscitivo, perché non mi dice nulla di come sono fatti gli oggetti, ma mi dice che è legittimo concepirli come organizzati da una finalità perché la finalità è una struttura a priori della ragion pura. La finalità è una modalità di considerare le cose che posso considerare legittimamente, a patto di impegnarmi a non fare affermazioni conoscitive in merito.
Il giudizio riflettente riguarda la finalità nell’oggetto nel suo rapporto con il soggetto. Riguarda la finalità nell’oggetto considerato in quanto tale.
Due parti della Critica del Giudizio:
Ci dobbiamo occupare del giudizio di gusto, il giudizio sul
bello.
Questo giudizio non può aspirare a nessun grado di conoscenza, ma dovrà
avere delle regole, dal momento che tutti noi pronunciamo giudizi di
gusto. E da dove arriva questa capacità di pronunciarli? Ha delle
regole?
Qui Kant ha una preoccupazione fondamentale - quella di dare una
dimensione trascendentale alla sua teoria del gusto.
Kant sa bene quindi che non può concentrarsi su che cos’è il
bello - come nel caso della morale non poteva concentrarsi
su che cosa è buono (ognuno ha la propria idea in merito) - l’indagine
che deve fare deve quindi ricordare la forma del giudizio, come
nel caso della morale era la forma dell’azione morale.
Non può essere radicata nella natura fenomenica del soggetto - come nella morale non potevo dire che il bene era utile in quanto l’utile era legato alla dimensione soggettiva, qui non posso dire che il bello è ciò che è capace di stimolare il mio senso estetico.
Non vale una fondazione di tipo psicologico che riconosce alla mia natura fenomenica la capacità di trovare in qualcosa il bello. L’analisi non può guardare all’oggetto, ma alla forma; non alle determinazioni empiriche ma a quelle trascendentali. In questo modo Kant riconosce che i nostri giudizi di gusto sono giudizi del tutto peculiari.
Non hanno niente a che fare con il modo in cui noi giudichiamo qualcosa utile, buono o piacevole. L’utile è qualcosa che mi serve a realizzare qualcosa. Piacevole mi dà un appagamento dei sensi. Buono compete a un giudizio morale.
Quando pronuncio un giudizio di gusto come La gioconda è bella sto utilizzando un tipo di giudizio irriducibile a tutti gli altri. In questo tipo di giudizio affermo che qualcosa mi piace senza scopo (diverso dall’utile) e un giudizio per il quale pretendo consenso. Quando dico che qualcosa è bello pretendo che anche gli altri lo riconoscano bello - c’è una pretesa di universalità. Bisogna capire se la pretesa di universalità è legittima.
Giudizio determinante: il mio giudizio pretende legittimamente universalità in quanto è composto in un modo conforme alle regole della logica trascendentale, cioè ho una ??? che sintetizzo sotto i concetti, che sono gli stessi per tutti gli esseri razionali; il mio giudizio pretende universalità.
Nella morale il principio di autonomia pretende universalità in quanto riposa sul comando della legge morale, che è una per tutti gli esseri umani. Io pretendo legittimamente che l’azione che compio per dovere venga considerata morale da tutti gli esseri umani,.
Nel caso del gusto, io non uso l’intelletto - altrimenti emetterei un giudizio determinante. Ma non posso nemmeno giudicare secondo il bene - il bello ha una dimensione sensibile che l’estetica deve lasciare fuori.
Il bello chiama in causa un libero gioco delle facoltà, cioè dell’immaginazione e dell’intelletto, ossia: di fronte a un oggetto bello l’immaginazione compone le proprie intuizioni in una maniera in cui l’intelletto riscontra delle regolarità anche se essa non è imposta dall’intelletto attraverso l’applicazione di un concetto (sintesi). Immaginazione e intelletto si accordano per un libero gioco e mi consentono di provare quel particolare piacere che è il piacere estetico - l’altra faccia del giudizio di gusto.
Dicendo che questo è bello pronuncio un giudizio in cui l’immaginazione si accorda liberamente con il mio intelletto e mi fa provare un sentimento di piacere. Ma cosa significa? Che l’intelletto si trova in accordo con l’immaginazione, schematizzando senza uno schema. Si accordano non imponendo uno schema, ma del tutto liberamente. Si crea un accordo spontaneo tra l’intelletto che prova una regolarità.
Quando dico che un oggetto è bello l’intuizione empirica, sensibile, dell’oggetto viene manipolato dall’immaginazione in una maniera tale per cui l’intelletto riconosce una regolarità - facendomi provare il sentimento di piacere estetico che è l’oggetto del giudizio di gusto.
Perché pretendo universalità? Perché non ho il concetto, non ho la regola. Quando dico che la rosa è bella, pur sapendo di non poter giustificare il giudizio su nulla di oggettivo, pretendo che ogni soggetto riconosca quella medesima regolarità che io stesso riconosco.
E la finalità? La finalità (cioè la conformità allo
scopo) riguarda la corrispondenza tra quell’oggetto e
la rappresentazione che io me ne faccio nell’armonia senza regola delle
mie facoltà conoscitive.
Intelletto e immaginazione si accordano, provano una regolarità in
qualcosa che non risponde alle categorie ma al combaciare dell’oggetto
con una mia forma, una mia regolarità interna, che me
lo fa riconoscere come qualcosa di cui non cambierei nulla, in cui tutte
le parti sembrano stare lì per coincidere con la migliore
rappresentazione che potrei farmi con quella cosa.
Con l’immaginazione posso variare le mie percezioni.
L’appagamento dei sensi richiede la presenza dell’oggetto. Il giudizio estetico invece prescinde dalla presenza e dal possesso del soggetto. In questo senso il giudizio estetico è disinteressato: è senza scopo, ha una regolarità imposta a priori - regolarità che mette insieme in modo libero e non vincolato alle categorie e ha una natura del tutto formale, cioè mi permette di pretendere universalità rispetto al mio giudizio.
Il giudizio estetico, in quanto riflettente, non è conoscitivo.
Il fondamento di questo giudizio è totalmente nel soggetto - la corrispondenza è tra la rappresentazione che il soggetto si fa e la deliberazione che appartiene al campo trascendentale.
Il bello non è l’unico giudizio estetico che siamo in grado di pronunciare.
Mi sono perso l’ultima parte (5 minuti) sul sublime. In ogni caso,
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